Libano, 23 gennaio 1963. Al ricevimento dell’ambasciata britannica a Beirut è difficile non notare la bionda Eleonor sola al tavolo. Il suo compagno tarda ad arrivare; al telefono, poco prima, l’aveva rassicurata di essere leggermente in ritardo; d’iniziare pure ad ordinare. Le lancette corrono come le dita scivolano nervosamente tra i capelli. La loro relazione è consolidata, manifesta: ha lasciato il marito – giornalista del New York Times – per stare con lui. Fanno coppia da tempo. Kim Philby, tombeur de femmes come il suo amico scrittore Graham Green, però non arriverà mai. Scomparso nel nulla, tanto da far sospettare un rapimento… prima di riapparire due settimane dopo a Mosca. Quella sera, d’altronde, alcuni testimoni giurano che un cargo sovietico si sia staccato dalla banchina così velocemente da urtarla; altri, invece, sostengono che un occidentale abbia attraversato il confine siriano a piedi.
È la conclusione d’una intricata vicenda di tradimenti e insospettabili doppiogiochisti. Philby, agente di alto grado e ufficiale di collegamento a Washington, era stato sotto osservazione per anni dopo la rocambolesca fuga dei suoi due amici di Cambridge. Aveva però tenuto duro uscendone ufficialmente riabilitato. Si era ricostruito una vita come “corrispondente” estero finché non l’avvisano della defezione di una spia che l’avrebbe definitivamente bruciato. Questione di giorni, forse ore. Il gioco è finito, non resta che sparire; dileguarsi. La donna è sconvolta; i Servizi inglesi costernati. L’ennesimo smacco. Agli occhi degli alleati statunitensi sono – come sintetizza amaramente George Smiley ne La talpa – «una barca che affonda». Molti agenti mollano demoralizzati; lo stesso John Le Carré (pseudonimo di David Cornwell) si dedica alla scrittura traslando quella atmosfera paranoica della guerra fredda in romanzi costruiti attorno alla “burocratizzazione” dello spionaggio. Una reciproca infiltrazione a livelli così sofisticati da rendere praticamente folle la stessa investigazione.
In un ambiente tanto governato dalla doppiezza, però i tre traditori di Cambridge – Burgess, Mac Lean e Philby – sono finalmente smascherati, scoperti. Erano loro le mele marce; i comunisti che si coprivano a vicenda. Un caso archiviato se non fosse che indizi parlano di una quarta spia e, alcuni informatori, perfino di una quinta. Piazzate nei più alti livelli, ma forse è solamente l’ennesima montatura del KGB. D’altronde come si fa a non scoprire una spia, se la conosci da così tanto tempo?
Gli agenti torchiano Eleonor (Sharon Stone in A different loyalty), “sedotta e abbandonata” da un traditore comunista. “Com’è possibile non si fosse accorta di nulla?” – ripetono, mentre la poveretta non riesce a spiegarsi come abbia fatto a essere ingannata per tanti anni. Kilby (Rupert Everett), riapparendo oltre cortina, ne dà una involontaria spiegazione: non ha mai davvero tradito perché in realtà è sempre stato un comunista. Ha sempre interpretato una “parte”; anzi, l’unico vero rammarico è quello di non aver ricevuto il grado di colonnello del KGB. Non ha imbrogliato nessuno; non si sente in colpa. I sentimenti erano veri, ma la missione era più importante. La donna alla fine lo raggiungerà caparbiamente a Mosca. Non durerà.
Cambridge, inizio Anni ‘30. È all’esclusivo Trinity College che stringono amicizia coloro che diventeranno le spie più famose della Gran Bretagna; rendendosi autori della più lunga e duratura storia d’infiltrazione mai accaduta dalla nascita dei servizi segreti. L’università di Cambridge, in effetti, non gode di “patriottica fama” già dall’allontanamento di Bertrand Russell. Ci sono parecchi circoli imbevuti di marxismo. Là Philby conosce Guy Burgess, disinibito e geniale studente del campus; a cui presto si aggiungono Anthony Blunt e Donald MacLean. Lui è l’unico eterosessuale del gruppo ma questo non è un problema: sono tutti rampolli dell’alta società britannica, abituati a nascondere lo sporco sotto il tappeto; a dissimulare.
Philby, infatti, è figlio d’un diplomatico in stretto rapporto con i Saud. Nato in India, deve il suo nome proprio al protagonista del romanzo di Kipling – involontario nomen omen -, che suo padre aveva conosciuto personalmente. Burgess, disinibito figlio unico d’un alto ufficiale della marina; MacLean d’un ricco ministro liberale; mentre Blunt è addirittura imparentato con la Casa reale. Sua madre è cugina della regina in persona. Affascinati dal comunismo e disillusi dal fallimentare governo laburista di MacDonald, vengono arruolati dal poliedrico Theodore Maly. Ex-cappellano militare austroungarico, catturato dagli zaristi nel 1916 sul fronte dei Carpazi, il prete cattolico perde la fede convertendosi al bolscevismo. Combatte la guerra civile nell’Armata Rossa, facendo carriera. Una volta dentro l’’NKVD diventa uno dei migliori reclutatori sovietici, viaggiando sotto falsa identità per mezza Europa. I quattro studenti si mettono al servizio dell’Unione Sovietica non certo per soldi ma per principio, diventando così le spie più affidabili e insospettabili mai infiltrate nei Servizi occidentali.
Questo aspetto viene egregiamente sviscerato nell’ottima mini-serie – Cambridge spies (2003) – prodotta dalla BBC. Nell’incipit pare quasi che i giovani universitari della “high society” dell’impero, allo scoppio della guerra di Spagna, debbano necessariamente schierarsi tra comunismo o fascismo. Anche l’aristocratico astio contro l’America, rea di stare sostituendosi l’impero, gioca la sua parte. Condannati, inoltre, dalla legge a nascondere la loro omosessualità, la “scelta” propende inevitabilmente per l’est; ma l’ambiente dove studiano e il circolo degli “apostoli” puzza fin troppo di leninismo. Ricevono, quindi, l’ordine di sviare i sospetti; di tagliare qualsiasi attività e conoscenza che possa farli svelarli come agenti stranieri. Devono necessariamente dividere le loro strade. Philby va a fare il corrispondente di guerra a seguito dei falangisti, scampando a una granata lanciata contro il suo veicolo. Si guadagna così una medaglia appuntata da Franco in persona. La Seconda Guerra Mondiale è l’occasione ideale per far cancellare i “sospetti di gioventù”, per essere patriottici e fare carriera. D’altronde dal giugno del 1941, con l’invasione dell’Unione Sovietica, si ritrovano “incidentalmente” a lavorare per gli Alleati. Burgess diventa assistente del ministro degli esteri; Philby entra nel controspionaggio operando in Africa occidentale; MacLean nel comitato politico angloamericano per lo sviluppo di ordigni nucleari; mentre Blunt si guadagna la fiducia dei Widsor portando a termine una missione davvero “speciale”.
Germania, 28 aprile 1945. Quando a Berlino si sta ancora combattendo nei dintorni del bunker del führer, Blunt viene in tutta fretta spedito allo schlöss Kronberg, vicino Francoforte. Deve, in quanto storico dell’arte, recuperare le tele trafugate dai nazisti; ma il vero scopo della trasferta è un altro. La sua delicata e urgentissima missione ha come obiettivo il carteggio della relazione epistolare intercorsa tra Hitler ed Edoardo VIII che, dopo aver abdicato per amore di una americana, pare si fosse reso disponibile a regnare su un’Inghilterra occupata dai tedeschi. Un tradimento da pena capitale che getterebbe nel discredito i Windsor. Il castello è sotto la giurisdizione americana; occupato da inflessibili e sospettosi marines. Nessuno ha ricevuto ordini per far accedere inglesi e, tanto meno, far uscire materiali. Blunt, però, riesce a convincerli almeno a concedergli di catalogare le opere d’arte; così, in un momento di distrazione, riesce a trafugare le lettere incriminanti. Questo “colpo” insperato quanto geniale non solo lo fa entrare nel circolo di fiducia della Corona, ma sarà anche una grande “assicurazione sulla vita” da giocarsi al giusto momento.
Washington, 29 agosto 1949. L’esplosione dell’atomica di Stalin lascia atterriti gli alleati. Troppi segreti militari vengono trafugati; troppe defezioni sventate all’ultimo. Diversi informatori confermano la presenza di talpe infiltrate ad alto livello all’interno del MI6. La sicurezza è compromessa. La CIA non si fida più dei britannici. Philby, Burgess e MacLean sono tra i sospettati. I tre si ritrovano per un breve periodo nella capitale sulle rive del Potomac. Kim è riuscito a farli trasferire indirettamente, in modo da non compromettersi troppo. La guerra di Corea è imminente e le operazioni clandestine contro l’Albania e a sostegno della guerriglia in Ucraina falliscono miseramente. Gli americani sono furibondi; per smascherare i traditori sono disposti a tutto. Hanno in mano i nomi in codice delle spie: Stanley (Philby), Hicks (Burgess), Homer (MacLean), Johnson (Blunt), ma non sanno ancora le loro identità. Compare anche un quinto nome: Liszt; forse solo l’ennesimo depistaggio del KGB, ma la CIA è sicura. Il progetto Venona – un collaborazione tra le due agenzie di intelligence per decodificare i messaggi sovietici – inizia a dare i suoi frutti. Il cerchio si stringe.
Agli inizi del 1951 la lista dei sospettati si riduce da trentacinque persone a nove. Si prepara una trappola e, a metà aprile, finalmente intercettano il messaggio che inchioda MacLean; ma non intervengono. Vogliono attendere finché tutti i pesci finiscano nella rete. Quando Philby, ufficiale di collegamento, scopre il tranello è già tardi; i russi gli consigliano di non agire; è fintroppo esposto. Ignorando l’ordine, avvisa segretamente Burgess del pericolo. A fine maggio MacLean supera indenne il primo interrogatorio da parte del MI5. Non si aspettano certo che i due siano già pronti alla fuga. Il 25 sera, infatti, salpano in fretta e furia da Southampton, sbarcando a Saint-Maló, dove trovano un rapido passaggio fino a Vienna. Da là a Mosca è una passeggiata. La conferenza stampa all’ombra del Cremlino che li tratta da eroi, è uno schiaffo in faccia alla Gran Bretagna. La fuga dei due compagni di Cambridge, ovviamente, concentra i sospetti su Philby. Lo torchiano senza ottenere nulla. Gli americani non lo vogliono più a Washington. Lui comprende, nicchia; tiene duro finché, dopo qualche anno di purgatorio, viene pubblicamente riabilitato. Non torna certo dentro le stanze del controspionaggio. Il dubbio persiste; resta appiccicato addosso.
Lo mandano a Beirut, ufficialmente come corrispondente dell’Observer e dell’Economist, per coprire la crisi di Suez. Si cala così perfettamente nella nuova parte da sedurre e soffiare la moglie di un “collega” americano – strana forma deformazione professionale -; finché nel gennaio del 1963 dalla Lubjanka lo avvisano di essere “bruciato”. È questione di ore: l’ultimo tradimento dell’infinito gioco delle spie l’ha definitivamente inchiodato. A breve sarebbe stato convocato all’ambasciata britannica e non certo per un cocktail-party; così sparisce tanto in fretta da far credere a un rapimento. La sua compagna è sconvolta; gli israeliani, invece, non sono per nulla stupiti quando riappare a Mosca rifiutando l’appellativo di traditore, perché da sempre al servizio dell’ideale comunista. La spia, senza dubbio, perfetta; non comprata né ricattata; a suo avviso pura e dalla limpida coscienza. Per i Servizi inglesi è un colpo duro ma, contemporaneamente, anche la fine di un incubo. I tre “amici di Cambridge” sono stati definitivamente archiviati; eppure, a dare credito alle intercettazioni ci sono due spie ancora in circolazione.
Eton, Berkshire, metà Anni ‘20. È nel collegio più elitario del Regno Unito che bisogna indagare per trovare le origini del tradimento di uno dei migliori studenti di Cambridge; o, almeno, è quanto induce a pensare Another Country (La scelta; 1984). Tratto dall’omonima pièce teatrale con protagonisti i giovanissimi Rupert Everett (Guy Burgess) e l’amico Tommy Judd (Colin Firth). I due li ritroveremo trent’anni dopo a reinterpretare praticamente gli stessi ruoli: il primo come Kim Philby in Codice Homer del 2004; mentre il secondo sarà al centro dell’intricata trama – ricavata dalla falsariga delle spie dentro l’MI6 – nella serrata caccia al traditore de La Talpa del 2011. Facce da spie, insomma, che durante gli anni del severo college scivolano progressivamente verso il campo avverso. Perché proprio i rampolli dell’establishment britannico più altolocato sono stati attratti dal comunismo, tanto da rischiare la vita? Proprio loro, che avrebbero, infondo, più da perdere dalla vittoria del socialismo reale?
L’ottimo film di Marek Kanievska indica l’omosessualità di Burgess come motivo principale. Costretto a vivere la sua sessualità in maniera clandestina – il reato sarebbe rimasto in vigore fino al ‘67 –, indirizza il suo favore verso l’utopia dell’eguaglianza. D’altronde è ancora fresco il ricordo di Alan Turing che, dopo essere stato condannato alla castrazione chimica, si è tolto la vita. Eppure, nella pellicola, emergono anche motivazioni meno appariscenti come l’estremo classismo della società inglese; l’ipocrisia degli insegnanti; il militarismo delle scuole; la mancanza di solidarietà. Un sistema oppressivo e imbevuto di puritanesimo che fin dalla tenera età lo costringeva in una gabbia. A Eton, un inizialmente estroverso Burgess, stringe amicizia con l’amico che già, di nascosto, studia Il Capitale insegnandoli a non scendere a compromessi con la classe dirigente. Judd, poi, troverà la morte nella brigate internazionali in Spagna. Il disgusto per l’Occidente è ormai così radicato in lui che quando, ormai anziano e morente, viene intervistato trent’anni dopo da una cronista inglese a Mosca, alla precisa domanda di cosa rimpianga di Londra; risponde, facendo spallucce, laconicamente “nulla”. L’ideologia comunista allora poteva attecchire ugualmente tra proletari e figli della classe dirigente.
10 Downing Street, 15 novembre 1979. Una Margaret Thatcher terrea in volto, da pochi mesi prima premier donna del Regno Unito, convoca una conferenza stampa fuori programma. Vuole silenziare uno scandalo che perdura da troppi anni. Ne sono, infatti, trascorsi ben sedici dalla fuga di Kilby ma le indiscrezioni su un inafferrabile “quarto uomo” non si sono mai quietate, anzi; si vocifera che l’insospettabile spia sia ancora al suo posto. La stessa BBC dà credito all’indagine di un giornalista (Andrew Boyce) che è convinto di averne smascherato l’identità fin dall’estate del ‘76. L’incubo delle spie di Cambridge è nuovamente motivo d’imbarazzo per la Gran Bretagna. La “lady di ferro” prende di petto l’affaire e, in diretta televisiva, rivela una volta per tutte le generalità dell’agente comunista. Sir Anthony Blunt, massimo esperto europeo di Poussin, curatore delle collezioni reali, intimo di Buckingham Palace e stimato insegnante di Oxford, lavorava per il KGB. Blunt, membro del quartetto della “famigerata” università, se n’era presto distaccato, finendo fuori dai radar dell’intelligence alleata. Dopo la missione in Germania nel ‘45 aveva smesso di frequentare i suoi amici, facendondosi un nome nel campo nel campo dell’arte.
Lo shock è notevole; la confessione pubblica. Alla revoca dell’altisonante titolo nobiliare di cavaliere commendatore dell’Ordine reale vittoriano, segue l’allontanamento da ogni prestigiosa istituzione culturale. Il controspionaggio, a onor del vero, l’aveva già inchiodato nel 1963 ma Blunt pare se la sia cavata fornendo i nomi di altri agenti sovietici sotto copertura; altri invece, – come l’eccellente libro L’intoccabile di John Banville – sostengono che le lettere trafugate a suo tempo dal castello di Kronberg siano state il suo “salvacondotto”… fino a quella mattina. La guerra mondiale è ormai un ricordo lontano e Edoardo VIII è morto da tempo. Il suo paracadute è bucato; la caduta inevitabile. Blunt inoltre è perfetto per dare l’esempio dell’inflessibilità del nuovo governo della Thatcher. L’ex sir liquida l’intera faccenda, con tipico aplomb britannico, come “la peggior scelta della mia vita” e, infatti, mentre i suoi ex-amici sono esiliati a Mosca; lui resta impunito tra i suoi amati quadri. Come per Gurgess, anche il film Blunt: il quarto uomo (1987) con Anthony Hopkins s’interroga su come un parente dei reali, abbia potuto tradire il proprio Paese, senza ottenere nulla in cambio; a eccezione della relazione con Burgess che l’avrebbe convinto a passare al nemico. Un po’ poco per rischiare la pena capitale.
Londra, 1990. Il muro è caduto e la stessa Unione sovietica è agli sgoccioli. Oleg Gordievskij, ex agente doppio che dal 1985 vive sotto copertura in Gran Bretagna, pubblica La storia segreta del KGB svelando l’identità della quinta spia. La Guerra fredda è finita; l’Occidente ha vinto. A nessuno interessano più queste vecchie voci. In effetti, lo scozzese John Cairncross, grazie ai suoi ottimi voti a Cambridge, era stato assunto al ministero degli esteri già negli anni ‘30. Trasferito al ministero del tesoro e divenuto segretario privato nel gabinetto del ministro si era rivelato decisivo, fornendo ai sovietici informazioni cruciali in vista della battaglia di Kursk. All’epoca i russi sono ancora alleati ma, appena issata la bandiera rossa sul Reichstag, le cose cambiarono. John (nome in codice Listz) passò rapporti sul programma atomico ai russi. Entrato del MI6, stava lavorando sotto Philby al momento della fuga di Burgess e MacLean. Sospettato a causa di un foglietto ritrovato a casa dello stesso Burgess, era stato riassegnato a compiti civili.
Non ha mai ammesso di essere una spia.