OGGETTO: Alle radici dell'homo sovieticus
DATA: 13 Giugno 2022
SEZIONE: Ritratti
AREA: Europa
Maître à penser del mondo accademico russo, Aron Jakovlevič Gurevič rovesciò i fondamenti dell'Urss applicando una nuova metodologia di ricerca storica.
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Nato nel 1924, anno fondamentale per la storia dell’Urss, Gurevič era un homo sovieticus tutto d’un pezzo. Nel 1945 il giovane studente si iscrisse alla facoltà di Storia dell’Università statale di Mosca e prese la laurea in Storia medievale per corrispondenza, poiché alternava lo studio al lavoro in una fabbrica di missili. Come scrisse lui stesso nella prefazione alla III edizione della sua opera magna, Le categorie della cultura medievale, pubblicata in Italia con Bollati Boringhieri e tradotta da Lara Castelli, il neo studente-lavoratore non sapeva distinguere la differenza testuale tra un manuale e una monografia: fu scartabellando tra i vecchi testi di storia e letteratura medievale nella biblioteca della sua facoltà, una volta finito il turno in fabbrica, che allargò le sue conoscenze intellettuali.

Un grande contributo alla sua formazione lo diede anche il frequentare i suoi coetanei, non solo nel mondo del proletariato operaio ma anche tra i ricercatori e gli studenti dell’università moscovita, con i quali soleva criticare la gerontocrazia accademica, colpevole, nella sua ottusità, di voler applicare pedissequamente le categorie del materialismo marxista anche nello studio delle discipline umanistiche. Nei primi anni Cinquanta gli studenti erano diventati di fatto una nuova intellighenzia clandestina, costretti a riunirsi in eterie per poter analizzare le vicissitudini politiche:

«Il regime staliniano ci defrauda dei frutti della vittoria, abusandone per un nuovo rafforzamento della tirannia e dell’illegalità».

Il manuale pedagogico guida per le università russe era il saggio di Bucharin Teoria del materialismo storico, ripubblicato più volte nel corso degli anni, a partire dal 1921, con il sottotitolo Manuale popolare di sociologia marxista, in cui venne codificato che il materialismo storico sarebbe dovuto essere la linea guida da seguire per gli apparati burocratici-amministrativi di tutta l’Urss. In sostanza, la concezione materialistica della storia elaborata da Marx ed Engels nel lontano 1845, nel fortunato saggio L’ideologia tedesca, era diventata un dogma. Anche la ricerca storica russa fondava il suo paradigma su una filosofia della storia che lega gli eventi alla realtà economica e sociale:

«La produzione delle idee, delle rappresentazioni della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata all’attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale. Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini appaiono qui ancora come emanazione diretta del loro comportamento materiale».

Marx e Engels, L’ideologia tedesca

Conclusi gli studi accademici e il lavoro in fabbrica per Gurevič iniziò il lavoro, quello vero: la ricerca scientifica sulla storia medievale. Lo studio era focalizzato sulle società dell’alto medioevo, prima dell’Inghilterra, poi dei paesi scandinavi Norvegia e Islanda, e lo portò a realizzare che le categorie materialiste applicate alla ricerca storica non riuscivano a fornire un quadro sufficiente. La tassazione dei contadini, le leggi sulla proprietà agraria, lo sfruttamento da parte dei signori locali, erano risposte parziali, e «bisognava porre al lontano passato domande del tutto differenti».

Gli anni di ricerca di Gurevič furono influenzato dal clima di leggera distensione che il Partito aveva adottato dopo il famoso XX Congresso del Pcus nel 1956, durante il quale venne data lettura della “relazione segreta” in cui venivano denunciate le grandi purghe di matrice staliniana. Il XX congresso non fu importante solo dal punto di vista politico; da esso infatti scaturì un moto spontaneo grazie al quale si crearono nuovi seminari di studio su come dare un significato alla ricerca marxista allo scopo di superare il dogmatismo stalinista. Per Gurevič questa consapevolezza poteva portare ad acquisire una nuova metodologia di ricerca, ma solo tramite «un dialogo con i rappresentanti di altre visioni del mondo». In tal senso si ispirò anche agli studi di Michail Bachtin, secondo il quale la storia era una dialettica infinita tra due culture diametralmente opposte: quella presente, in cui lo storico si trovava a scrivere; e la storia del passato, quella in cui lo storico faceva la sua indagine. La sintesi, a-temporale, era incentrata sui valori culturali. Seguendo questo sviluppo metodologico Gurevič si mise al lavoro e, sette anni dopo, nel 1972, pubblicò la sua opera magna: Le categorie della cultura medievale. L’indagine si concentrò sullo studio della cultura medievale popolare, sulla storia della letteratura, della teologia, tramite la conoscenza storica antropologica. Le domande cui doveva rispondere la storia erano le seguenti:

«In che modo gli uomini del Medioevo sentivano e comprendevano il proprio mondo? Da quali orientamenti di vita erano guidati? Come prendevano coscienza di se stessi?»

Il ricercatore non poteva più seguire pedissequamente le categorie struttura-sovrastruttura, ma l’uomo, ovvero la sua individualità nel suo particolare, e poi come parte integrante delle società in cui viveva. L’indagine sull’uomo dell’alto medioevo andava fatta prendendo in considerazione la produzione culturale dell’epoca. Il materiale a disposizione erano le agiografie dei santi, in campo architettonico la costruzione delle cattedrali e nelle arti figurative i personaggi della Bibbia. Tutti gli scritti e gli artisti formalizzavano il loro mondo non nella vita reale, ma nell’aldilà. Tutte le dottrine  estetiche erano focalizzate esclusivamente sulla comprensione della religione cristiana: la stessa filosofia della storia era incentrata sull’elemento teologico agostinianno, come un processo autonomo secondo lo sviluppo del disegno divino: 

«La filosofia era l’ancella delle teleologia e gli del filosofo medievale questa funzione costituì a lungo la sua unica giustificazione. L’uomo, era, quindi la summa degli eventi della Storia, lo scopo finale del creato».

Le categorie della cultura medievale

Due categorie oppositive, la realtà e l’eterno, venivano racchiuse nella lotta tra il bene e il male. La  povertà non veniva individuata come un concetto puramente economico e sociale, bensì etico. Nella povertà si scorgeva un innalzamento morale, un esempio erano i pauperes Christi, uomini che avevano rinunciato ai loro beni per raggiungere il perdono nell’aldilà. Seguendo Bachtin, per conoscere il pensiero dell’uomo, in epoche storiche diverse, era necessario studiarne le epopee e le mitologie, dato che queste sono uno specchio della cultura profonda di cui si nutre una persona, i suoi costumi. La stessa concezione del tempo nell’alto medioevo era vissuta come una mera entità spaziale, compresa tra il passato il futuro. Il tempo come lo avvertiamo oggi si ha con l’emergere della classe urbana, quindi nel tardo Medioevo, quando, lentamente, si venne a costruire una nuova classe sociale, quella dell’homo faber, dell’artigiano e del mercante. Per dirla con le parole di Le Goff, «si passò dal tempo biblico al tempo del mercante».

In quell’epoca si andarono largamente a modificare anche le categorie culturali e artistiche, così come l’idea del tempo, giudicato sulla base dell’unità fenomenica nelle opere di storici del IX secolo come Rodolfo il Glabro, monaco di Cluny che aveva scritto una storia universale della Turingia «ponendo il proprio microcosmo al posto del macrocosmo, (cosa che) si manifesta anche nelle opere degli storici medievali». Il topos venne identificato con la categorizzazione di terra e cielo secondo una concezione etico-religiosa: la terra era la sede del dolore fisico e del peccato, mentre in cielo stava la vita eterna, libera dal dolore fisico o morale. Lo stesso viaggio, dal Medioevo in poi, divenne un concetto turistico-religioso, e il pellegrinaggio nei luoghi santi veniva interpretato anche come un viaggio di redenzione morale. La stessa preferenza morale aveva la forma di uno spostamento topografico, come il ritiro in un monastero o nel deserto per l’espiazione dei propri peccati.

Dal punto di vista intellettuale, lo spazio geografico era ristretto ad un locus circoscritto, non vi era il senso di global history. Ne è un esempio il caso di  Ademaro di Charbones, che nel IX secolo aveva scritto una storia di Francia limitata ad una breve cronaca degli avvenimenti circoscritti nella regione dell’Aquitania. L’individuo del medioevo era un animale sociale. Gli stessi diritti che gli erano garantiti si erano determinati a partire dal ruolo che svolgeva all’interno della società secondo i tre canonici ordini: oratores, bellatores, laboratores. Dei valori materiali si aveva ancora un’idea da società di stampo pre-capitalista, nella quale le relazioni interpersonali erano dirette, non mediate dal feticismo della merce. Lo sviluppo capitalistico sarebbe avvenuto solamente dal XIV secolo in poi:

«In particolare il valore delle cose non viene determinato dal solo mercato o dal lavoro astratto impiegato: ogni cosa porta con sé l’impronta del suo creatore, le sue qualità sono legate alla personalità di chi l’ha creata».

Le categorie della cultura medievale

Questo rovesciamento di categorie tra praxis, soluzione dell’uomo e determinismo meccanico, per la strumentalizzazione russa fu una vera e propria metodologia eversiva: gli intellettuali (oratores) e i cavalieri (bellatores) erano completamente estranei a tutto quello che aveva a che fare con l’attività produttiva. Quest’ultima infatti pesava tutta sulle spalle dei ceti inferiori, i laboratores. La pubblicazione dei suoi studi e l’inserimento di nuove discipline alla ricerca storica determinarono il rovesciamento delle categorie marxiane: soluzione dell’uomo e volontarismo, determinismo meccanico. Ciò causò a Gurevič la scomunica da parte del mondo accademico e gli precluse qualsiasi possibilità di creare ex-novo una scuola scientifica all’interno del dipartimento di studi storici, oltre alla condanna a non potere seguire i dottorandi.

Lo stesso risultato era stato raggiunto da un altro intellettuale quarant’anni prima, ma utilizzando argomentazioni logiche diverse rispetto alle nuove discipline sociali e filologiche, ovvero Antonio Gramsci, che rimise in discussione l’ortodossia marxista e dogmatica dal punto di vista filosofico tra il 1930 e il 1931, durante la detenzione carceraria a Turi. Nelle sue note, intitolate Appunti di filosofia e poi rielaborate successivamente con il titolo Appunti di filosofia seconda serie, rovesciò di netto la concezione materialistico-meccanicistica di Bucharin, conosciuta negli ambienti filosofici sovietici con l’espressione struttura-superstruttura, secondo la quale la struttura era il movimento meccanico deterministico e la superstruttura era la produzione dell’uomo, l’idea.

Gramsci rovesciò questa categoria, dando al pensiero e all’azione la precedenza sul determinismo meccanico:

«Struttura e superstruttura. Economia e ideologia. La pretesa ( presentata come postulato essenziale del materialismo storico) di presentare ed esporre ogni fluttuazione della politica e dell’ideologia come una espressione immediata della struttura, deve essere combattuta teoricamente come un infantilismo primitivo, o praticamente deve essere combattuta con la testimonianza autentica del Marx, scrittore di opere politiche e storiche concrete».

Quaderno 4, nota 38

Gramsci sosteneva inoltre che andasse fatto un lavoro filologico dell’opera marxiana per dimostrare che la filosofia e l’azione interagiscono, confermando ciò che, secondo lui, Marx aveva già dimostrato nella XI Tesi su Feuerbach: «i filosofi hanno finora visivamente interpretato il mondo. si tratta ora di cambiarlo».

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