OGGETTO: Sonnambuli sul bordo del precipizio
DATA: 12 Dicembre 2025
Il nuovo documento tattico americano, insieme al presunto leak che ne ha amplificato la portata politica, si inserisce in un quadro segnato da tensioni ibride tra Washington e le cancellerie europee, e da una crescente normalizzazione del rischio bellico. La distanza percettiva tra alleati, unita all’incapacità di leggere la profondità psicologica dei conflitti, espone il continente a scelte dettate più dall’inerzia che da una reale lucidità strategica.
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Chi si occupa di intelligence ha il compito essenziale di leggere dentro la realtà, penetrarne le pieghe profonde, andare oltre l’apparenza. Per comprendere un contesto come quello della guerra in Ucraina – con l’ambizione di intravedere una possibile soluzione – la chiave non risiede nei dati militari, nelle immagini satellitari, nella conta dei droni o dei missili. Tutto questo descrive, ma non spiega. Occorre interrogare lo stato psicologico del conflitto, le sue dinamiche interiori, collettive, simboliche. Il focus va spostato dal piano quantitativo a quello qualitativo. È nel non misurabile che si gioca la vera partita strategica.

Crisi come quella ucraina sono il prodotto di gravi errori di valutazione. Si è dato per scontato che la guerra fosse un’ipotesi inverosimile: troppo costosa, troppo anacronistica. L’analisi si è arrestata su ciò che noi consideravamo razionale, ignorando che ciò che per noi è irrazionale può esserlo perfettamente per altri. Si è così sottovalutata la possibilità che Mosca considerasse vitale – e dunque legittimo – il ricorso alla forza per difendere quella che percepisce come propria sfera d’influenza, minacciata dall’espansione informale della pax americana. Abbiamo osservato il mondo solo attraverso la nostra lente, senza nemmeno tentare di comprendere quella dell’altro. Un errore non solo teorico, ma potenzialmente disastroso. Errore aggravato dal fatto che i servizi americani avevano previsto l’invasione mesi prima, monitorando l’ammassarsi delle truppe russe. Ma alla previsione non seguì alcuna misura concreta. Prevedere un disastro senza agire per evitarlo è forse peggiore che non prevederlo affatto.

L’intelligence non opera nel vuoto, è immersa nella cultura, nel tempo e nelle ideologie del proprio Paese. Spesso finisce per dire ciò che i decisori vogliono sentirsi dire, invece di sfidarli a pensare l’impensabile. Così, le analisi diventano rassicuranti, autoreferenziali, cieche ai segnali più scomodi. È allora che cessano di essere strumenti di comprensione. Parliamo di contesti complessi, ma spesso riconducibili a un errore strutturale: la mancanza di ascolto, di coordinamento, e la presunzione di poter ignorare chi la pensa diversamente. I servizi occidentali, chiusi nelle loro torri d’avorio, hanno ignorato troppo a lungo la prospettiva russa. Non per condividerla, ma perché comprenderla era necessario per evitare l’abisso.

Il 1° dicembre 2025 l’NATO – per voce del suo presidente del Comitato militare, Giuseppe Cavo Dragone – ha dichiarato che l’Alleanza è «pronta a essere più aggressiva» nel rispondere alle “minacce ibride”, inclusi attacchi informatici, parlando dell’ipotesi di “attacchi preventivi” come misura difensiva in risposta a potenziali ostilità. Sebbene sacrosanta, e formalmente circoscritta al dominio cibernetico, la dichiarazione è giunta in un momento di estrema fragilità del negoziato sotterraneo, rischiando di compromettere ogni margine residuo di dialogo diplomatico. Tanto più che la difesa cibernetica, a livello operativo, è già in atto: le strutture preposte sono attive e coordinate da tempo, anche senza necessità di proclami pubblici. Ribadire il concetto in modo mediatico, in un clima così saturo, rischia solo di alimentare tensioni o fraintendimenti.

A stretto giro, il Cremlino ha replicato affermando che nessuno, a Mosca, ha intenzione di attaccare l’Europa. Tuttavia, ha precisato che in caso di aggressioni provenienti dal continente, la Russia si riserva il diritto alla legittima autodifesa. Una posizione immediatamente rilanciata – e distorta – da diversi media nostrani, che hanno presentato la dichiarazione russa come una minaccia unilaterale, trascurando il fatto che essa fosse una risposta, non un’iniziativa autonoma. In un contesto segnato dal picco della guerra fra propagande, dove ogni parola pesa e ogni fraintendimento – comunicativo o percettivo – può essere letale, anche una sfumatura rischia di riportare la situazione al punto di partenza, accelerando lo scivolamento del continente verso un allargamento irreversibile nel conflitto. Spetta a noi il compito – e la responsabilità – di districare la matassa della propaganda. Non solo quella “degli altri”, ma anche la nostra.

Anche altri segnali convergenti mostrano come il Vecchio Continente stia iniziando a muoversi – ancora una volta in direzione della guerra – come un corpo collettivo privo di piena coscienza. In Germania, il ministro della Difesa Boris Pistorius e il cancelliere Friedrich Merz parlano apertamente di un possibile attacco russo prima del 2029, e la Bundeswehr prepara lo scenario, con un piano operativo – l’Oplan Deu – che contempla la mobilitazione di 800.000 soldati atlantici. Intanto, in buona parte dell’Europa del Nord e dell’Est – dai paesi scandinavi al Baltico, dalla Polonia fino alla Francia e all’Italia – si torna a discutere di una riedizione della leva militare o di una ristrutturazione delle riserve.  Queste discussioni si inseriscono in un contesto di crescente legittimazione culturale, dove il richiamo alla “sicurezza nazionale” sta lentamente producendo un assopimento della coscienza collettiva. L’idea del conflitto viene progressivamente normalizzata, al punto da insinuarsi nella quotidianità come se fosse un destino inevitabile – con echi inquietanti che rimandano a ciò che accadde un secolo fa.

Nelle settimane che precedettero lo scoppio della Prima guerra mondiale, l’Europa si avvicinò al baratro come trascinata da un automatismo cieco. Come racconta Christopher Clark nel suo saggio The Sleepwalkers, nessuna delle grandi potenze cercava realmente una guerra totale: ognuna prese decisioni che, se viste singolarmente, apparivano persino logiche. Ma il risultato collettivo fu una catastrofe globale. Si sperava in soluzioni diplomatiche, o in guerre limitate. Eppure, le alleanze irrigidite, le ambizioni coloniali, la corsa agli armamenti e la burocrazia militare, una volta avviata, divennero ingovernabili. Nessuno ebbe la lucidità – o la forza – di interrompere la marcia verso il disastro. L’attentato di Sarajevo fu solo il detonatore finale. Le condizioni per l’esplosione erano già tutte lì, pronte da tempo. Come scrive Clark, «non c’è una sola pistola fumante in questa storia: ce n’è una nelle mani di ogni grande attore». 

La guerra non esplose perché tutti la desideravano – sebbene, nei primi giorni, non mancassero ambienti interventisti pronti ad accoglierla con entusiasmo – ma perché l’intero impianto politico, militare e diplomatico dell’epoca si mosse come un ingranaggio cieco, accumulando una tale quantità di tensione latente da annullare ogni possibilità di arresto. L’inerzia di quel sistema rese impossibile fermarsi, anche quando sarebbe stato ancora possibile farlo. Privo di reale consapevolezza delle conseguenze, il continente finì per lasciarsi trascinare in un conflitto totale quasi senza accorgersene, come seguendo una traiettoria già tracciata e ormai inarrestabile. Nel suo significato più profondo, il termine latino intelligere deriva da inter (“tra”) e legere (“leggere”): significa leggere tra le righe, cogliere i nessi nascosti, andare oltre l’apparenza. Un’altra interpretazione altrettanto pregnante è intus legere – leggere dentro, penetrare l’essenza delle cose. 

Roma, Novembre XXIX Martedì di Dissipatio

Per noi italiani, pensare in modo autonomo significa, in fondo, avere il coraggio di non seguire il gregge quando questo si avvia verso il precipizio. In altri termini: il fatto che oggi in molti media ripetano che la Russia stia per marciare su Parigi o Lisbona non rende automaticamente vera questa narrativa. Più che una previsione fondata, si tratta spesso di una costruzione utile a giustificare un riarmo altrimenti difficilmente vendibile alle opinioni pubbliche europee. Allinearsi a una posizione solo perché è condivisa dalla maggioranza – o per quel terrore inconfessabile di restare soli – non significa cercare la verità, ma ad abdicare al pensiero critico. O forse è nella natura umana il bisogno di trovare un nemico – anche quando non c’è – per dare un senso al proprio agire e superare l’angoscia dell’incertezza? Per maggiori approfondimenti, rimandiamo alla teoria della proiezione freudiana quanto al concetto di Ombra elaborato da Carl Gustav Jung.

Oggi, il tentativo americano di riallacciarsi alla Russia arriva, forse, fuori tempo massimo. Eppure, ripercorre esattamente quella grammatica strategica che si sarebbe potuta (e dovuta) applicare ben prima dell’invasione – almeno per chi ne avesse avuto, ancora una volta, l’intelligenza preventiva. Sedurre Mosca, riconoscerne il ruolo centrale nello spazio eurasiatico, prevenirne lo scarrellamento verso Pechino. Ora che la Russia si ritrova – per convenienza, almeno temporanea, ma di fatto – allineata al blocco cinese, proprio quello che la gli Stati Uniti individuano come il nemico esistenziale per eccellenza (fatta eccezione per l’altro, quello interno, percepito come ancor più destabilizzante e incarnato nello scontro profondo tra visioni antropologiche che la superficiale opinione pubblica continua a liquidare con etichette “progressiste” o “conservatrici”), si comincia a pagare il prezzo di un’occasione mancata. Lì dove Washington abbandona la crociata morale in favore di una visione più cruda e realista, l’Europa continua invece a fluttuare nella sua autoreferenziale cecità strategica.

Nell’ottica statunitense, il riarmo dei Paesi europei serve anzitutto a contenere la Cina; è stato poi lasciato intendere a noi che fosse diretto contro Mosca, altrimenti difficilmente avremmo trovato convincente l’idea di vedere nella Cina lo stesso nemico che vedono gli Stati Uniti. Il nuovo documento tattico, al di là della consueta enfasi sulla competizione con Pechino, suona anche come un durissimo atto d’accusa contro il Vecchio Continente. Ne denuncia apertamente la “perdita di fiducia in sé stesso”, la subordinazione a regolamentazioni paralizzanti, il collasso demografico, il nichilismo valoriale, l’incapacità di difendere le proprie identità culturali e politiche.

A questa nuova postura americana – che invita esplicitamente gli alleati europei a risvegliarsi dal “sonno verde” e ad abbandonare una narrazione autoassolutoria – le reazioni delle cancellerie europee sono state, nella maggior parte dei casi, fredde se non apertamente ostili. Un atteggiamento che tradisce l’incapacità, da parte nostra, di fare i conti con la realtà. Quello che la National Security Strategy segnala riguardo al rapporto con gli europei non è tanto l’intenzione di abbandonare l’Europa a sé stessa, come spesso viene lasciato intendere nel dibattito mediatico, quanto piuttosto l’opposto. La tattica sembra mirare – sia pure con un clamoroso ritardo – ad agganciare la narrazione americana a quella riconducibile alla corrente che si ispira alla dottrina MAGA incarnata dall’amministrazione corrente, cercando un terreno comune con una parte dell’opinione pubblica e delle élite politiche europee.

In questo quadro si inserisce anche il riferimento a un presunto documento segreto, la cui esistenza è stata ufficialmente smentita dalla Casa Bianca. Una smentita che, per definizione, non esaurisce la questione: se intenzioni di questo tipo fossero reali, è plausibile che restino coperte da riservatezza e non possano essere confermate pubblicamente. Secondo indiscrezioni, tale documento indicherebbe paesi come Polonia, Austria, Ungheria e Italia – considerati ideologicamente più affini alla narrazione oggi prevalente negli Stati Uniti – come possibili bastioni incaricati di fare leva su Bruxelles per indebolire la linea di contrapposizione frontale fra Europa e Russia e favorire, nel medio periodo, un riavvicinamento tra UE e Mosca. In pratica, si tratterebbe di usare quei governi e quelle opinioni pubbliche già considerate più affini al mondo conservatore americano per spostare dall’interno l’equilibrio politico del continente. Non solo correggere singole politiche, ma cambiare il baricentro, rovesciando le leadership europee percepite come più vicine all’area liberal-progressista statunitense e rafforzare, al loro posto, governi e movimenti in sintonia con l’agenda della Casa Bianca.

Il risultato, se questo disegno andasse in porto, sarebbe una gigantesca operazione di ingegneria d’intelligence e sociale. Obiettivo finale: plasmare l’Europa in modo che parli lo stesso linguaggio politico di chi, oggi, guida gli Stati Uniti, costruendo un bastione il più possibile compatto e allineato. A fronte di un impianto tattico chiaro, per quanto brutale, molte cancellerie e media reagiscono screditando ciò che non comprendono. Ma al di là dei nostri strali, la pace, se e quando si farà, non passerà da noi, né sarà davvero di nostra competenza. Da un punto di vista pragmatico, gli Stati Uniti agiscono in modo concreto, guidati dall’utile e dalla consapevolezza del reale, mentre una parte consistente del Vecchio Continente sembra muoversi secondo moralismi che poco hanno a che fare con la risoluzione dei problemi effettivi. 

La geopolitica serve anzitutto a prevenire il peggio, e dopo – se ci si riesce – a costruire la pace. Nel mondo reale, l’armonia universale è un’illusione. Chiunque abbia vissuto anche solo un frammento di vita collettiva dovrebbe averlo intuito. Il compito della geopolitica, dunque nostro, è cercare compromessi. La maturità di una o più collettività in relazione fra loro consiste, come nei casi di vita vissuta nei microcosmi interpersonali, nel saper rinunciare a qualcosa di proprio per garantire il quieto vivere, o – nella sua forma più nobile – per tendere al bene comune. Principio primo della geopolitica; o del tentativo di elevarci spiritualmente, di riconoscerci parte di un ordine imperfetto. Una giustizia dogmatica può distruggere, una pace imperfetta, invece, può ancora salvarci da noi stessi

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