Le Filippine sono il terzo Stato al mondo per sovraffollamento delle carceri. Questo dato estremamente preoccupante è la conseguenza della war on drugs, una campagna politica lanciata dall’ex presidente Rodrigo Duterte per ridurre il traffico di droga all’interno del paese. Al momento della sua elezione nel 2016, le Filippine versavano in una condizione piuttosto allarmante da questo punto di vista: secondo le stime, almeno l’1% dei cittadini tra i 10 e i 69 anni faceva uso di metanfetamine – in particolare lo shaboo, una sostanza eccitante dal prezzo molto contenuto e per questo accessibile anche ai più poveri. Per avere un quadro più chiaro, basti pensare che il consumo nelle Filippine era cinque volte più elevato della media europea. Ma non è tutto. A causa della sua posizione geografica strategica, il paese ha rappresentato per molto tempo un centro di transito ideale per il traffico illegale di droga. Se teniamo in considerazione le condizioni economiche disagiate di cui soffre gran parte della popolazione, è facilmente comprensibile il motivo per cui in molti scegliessero di collaborare con organizzazioni criminali locali. Non necessariamente rivendendo le sostanze, ma anche come trasportatori da uno Stato all’altro. Ecco perché giovani e donne divenivano il bersaglio più facile per questa trappola: persone che destavano pochi sospetti, pronte a rischiare – nel migliore dei casi – la propria libertà pur di aiutare la famiglia.
Tuttavia, con l’arrivo di Duterte è cambiato tutto. Presentatosi alle elezioni quasi per caso dopo il ritiro del primo candidato del suo partito, il politico filippino è rimasto in carica dal 2016 al 2022, dichiarando sin da subito ai propri concittadini di voler usare il pugno duro contro spacciatori e tossicodipendenti: “I problemi che oggi affliggono il nostro paese e che devono essere affrontati con urgenza sono la criminalità e la vendita dilagante di droghe in tutti gli strati della società filippina. Se conoscete dei tossicodipendenti, uccideteli voi stessi, perché farli uccidere dai loro genitori sarebbe troppo doloroso”. Per poi concludere con un suggerimento ancor più schietto: “Aprite un’attività di onoranze funebri, vi assicuro che non andrete in bancarotta. Se il vostro business rallenta, dirò alla polizia di impegnarsi di più per aiutare la gente a guadagnare”. A distanza di sei anni, quel monito si è dimostrato più che mai veritiero. Il governo filippino ha confermato ufficialmente di aver ordinato l’uccisione di più di 6000 sospettati, un numero incredibilmente alto che tuttavia viene smentito da varie fonti, secondo cui il totale sarebbe almeno il doppio. Al contrario, Duterte si è tirato fuori dalle accuse di aver promesso soldi ad ogni poliziotto che avesse assassinato un sospettato narcotrafficante. In un’intervista rilasciata da un gendarme filippino nel 2017, questi ha dichiarato di aver guadagnato decine di migliaia di pesos per ogni operazione, prima di essere stato costretto a lasciare il paese. Così, dopo aver toccato con mano la gravità della situazione, più di un milione di consumatori e spacciatori si sono fatti schedare volontariamente dalla polizia per evitare un destino peggiore.
A causa delle politiche di Duterte – che non si è limitato a perseguire i narcotrafficanti, ma ha favorito l’arresto di moltissimi individui sulla base di sospetti e soffiate mai verificate – le Filippine hanno l’undicesima popolazione carceraria più alta al mondo. Dal 2015 al 2021, le persone private della libertà sono passate da 95.000 a 165.000. Un dato quasi raddoppiato. Ma ciò che colpisce maggiormente è che più di due terzi di questi sono in detenzione preventiva, il che significa che non è ancora stata presa una decisione né emessa una condanna. In poche parole, circa 100.000 individui incarcerati ad oltranza in attesa di conoscere un verdetto.
Il simbolo di questo sistema è il carcere di Manila, una struttura creata per ospitare 1200 persone, ma che in realtà ne contiene più di 3200. Qui i detenuti passano ormai da anni la maggior parte della giornata negli spazi all’aperto per evitare di dover rimanere chiusi in stanze così affollate da costringerli di notte a dormire uno sopra all’altro. Al tempo stesso, le condizioni igieniche sono disastrose e malattie gravi come la tubercolosi dilagano. Eppure, nonostante le condizioni esasperate ed un rapporto di una guardia ogni 300 detenuti, vi sono delle regole ben precise che favoriscono il mantenimento dell’ordine. La struttura è divisa per zone, ed ognuna di esse appartiene ad una gang. Per quanto sorprendente, le stesse guardie sono dovute scendere a patti con quelli che vengono definiti i “sindaci”, dei rappresentanti scelti a maggioranza dai detenuti. Ogni gang ha un suo codice d’onore dipinto su un muro visibile da tutti, e questa organizzazione ha fatto sì che negli anni vi fossero ben poche rivolte all’interno del carcere. Così, mentre la polizia si occupa di controllare che le gang non interagiscano tra loro e non causino sommosse che a quel punto diverrebbero ingestibili, i sindaci aiutano i malati, razionano il cibo e decidono i turni per dormire in modo che ognuno abbia spazio almeno per distendersi a terra.
Come prevedibile, la questione ha avuto un’eco anche a livello internazionale. Nel corso del proprio mandato Duterte è stato protagonista di molti episodi controversi, basti pensare a quando insultò pubblicamente Obama mettendo a rischio il rapporto tra Filippine e Stati Uniti, fondamentale in chiave anti-Cina. A tal proposito, l’ex presidente non ha mai nascosto di voler guidare il paese fuori dal rapporto di dipendenza dagli Stati Uniti per ritrovare un’intesa con XiJinping.
Tuttavia, il caso più grave è connesso proprio alla guerra al narcotraffico e tutto ciò che ne è conseguito. A febbraio del 2018, infatti, la Corte penale internazionale aveva avviato un’indagine preliminare sulla situazione nelle Filippine dopo che i media avevano iniziato a denunciare le morti ingiustificate e il sovraffollamento delle carceri. Per tutta risposta, il mese successivo il paese ha annunciato la propria intenzione di ritirarsi dallo Statuto di Roma. Il ritiro è stato finalizzato un anno dopo, ma in ogni caso l’indagine rimarrà valida per gli eventi avvenuti fino a marzo 2019.
Questa decisione fa pensare che Duterte a quel tempo fosse corso ai ripari poiché conscio di aver perso il controllo della situazione, ma a novembre scorso ha pronunciato parole in merito che fanno pensare l’opposto: “Non ho nulla da nascondere. Quello che ho fatto, l’ho fatto per il mio Paese e per i giovani. Niente scuse. Se andrò all’inferno, così sia”. L’attuale presidente filippino Ferdinand Marcos Jr. ha commentato dicendo che se Duterte non teme di essere indagato per crimini contro l’umanità per le sue campagne antidroga, egli non bloccherà la Corte penale internazionale – pur confermando che non vi sarà collaborazione.
Di certo, durante il mandato di Duterte l’immagine del paese è stata macchiata sotto numerosi punti di vista: la guerra spietata agli stupefacenti ha indirettamente trasmesso l’idea che le Filippine fossero ormai un narco-stato, mentre le morti e gli innumerevoli arresti hanno ulteriormente indebolito la posizione di un territorio già conteso tra Stati Uniti e Cina. Che venga dimostrata o meno la colpevolezza dell’ex presidente, la situazione causata dalle sue politiche estremiste all’interno delle carceri rimane dunque uno dei più gravi problemi del paese poiché rappresenta due facce della stessa medaglia: da una parte la necessità di delinquere per trovare stabilità economica, dall’altra una situazione insostenibile che rischia di bloccare il sistema giudiziario filippino.