I delegati che si recarono a Parigi con l’obiettivo di porre fine alla guerra del Vietnam, si videro impegnati per settimane nella scelta della forma geometrica del tavolo al quale si sarebbero dovute sedere le parti: quadrato, circolare o rettangolare, questo il dilemma. Diversa, in base alla forma e al posto assegnato, sarebbe stata la considerazione data all’uno o all’altro ospite. Dopo un simile sforzo per un semplice dettaglio, chi si trovò a Parigi, tutto avrebbe potuto immaginare tranne che, di lì a qualche decennio, gli Stati Uniti avrebbero corteggiato il Vietnam in funzione anticinese. Circa un anno e mezzo dopo la fine delle stesse trattative, simile pensiero avrà avuto chi, in extremis, riuscì a salire su quell’elicottero che si appoggiò in posizione sbilenca sui tetti degli uffici della CIA a Saigon.
Cinquant’anni dopo la fine di quell’estenuante e disastroso conflitto, il Vietnam è una Repubblica socialista monopartitica guidata dal Partito Comunista del Vietnam (PCV) e in forte espansione economica da almeno due decenni. Prossimo alla reintroduzione dei loa phuong – gli altoparlanti usati dal governo per mandare messaggi alla popolazione durante la guerra, che a breve potrebbero essere reintrodotti dal governo a scopi propagandistici – il Vietnam si trova in fondo alle occidentali classifiche in materia di diritti umani, dove figura come paese non libero. Nonostante questi aspetti apparentemente dirimenti Joe Biden, nei giorni in cui, nel marzo di quest’anno, si svolgeva il secondo Summit globale delle democrazie, non ha lesinato una telefonata al capo del PCV, dialogo in cui i due leader si sono ripromessi di voler “promuovere, sviluppare e approfondire” le relazioni fra i rispettivi paesi. Timide sono state le recenti rimostranze in tema di diritti umani avanzate dal segretario di Stato Antony Blinken durante la sua visita in aprile ad Hanoi, preceduta di qualche giorno dall’arresto di un dissidente del regime vietnamita, circa il 170esimo dal 2018. Ma la posta in gioco agli occhi di Washington è molto più alta, abbastanza da aver reso Hanoi uno “dei più importanti partner dell’America nella regione”, come testimoniato dalle parole di Daniel Kritenbrink ex ambasciatore in Vietnam e attuale assistente del Dipartimento di Stato statunitense per l’Asia orientale e il Pacifico.
L’atteggiamento della presidenza Biden sul dossier del Mar cinese meridionale è lo stesso delle precedenti amministrazioni: contrastare l’assertività cinese a ogni costo. E proprio nell’ottica dello scontro per il controllo di quest’area, il Vietnam è da qualche anno diventato oggetto delle attenzioni di Washington. Un punto dirimente – su un piano propagandistico e discorsivo ma anche fattivo, dal momento che ha segnato un più deciso cambio di passo da parte di Hanoi nei confronti della Cina – è rappresentato dalla sentenza del 2016 della Corte permanente di arbitrato dell’Aia, di cui la Cina è membro, avvenuta in seguito alla denuncia fatta dalle Filippine. Manila ha infatti contestato le incursioni marittime della Repubblica Popolare e le rivendicazioni di territorio delle isole contenute all’interno di quella che Pechino definisce la “linea a nove tratti” – area che include il 90% delle isole dell’intero Mar cinese meridionale e su cui, in base a una supposta paternità millenaria, la Cina rivendica la propria sovranità.
Mar cinese meridionale che oltre ad avere grande rilievo da un punto di vista militare, ogni anno vede transitare circa 3.000 miliardi di dollari in merci, quasi il 10% del commercio globale. La corte dell’Aia ha sancito l’illegalità delle pretese cinesi sulle isole Spratly e sulla secca di Scarborough, che erano l’oggetto della questione. Lembi di terra dalle varie conformazioni fisiche sui quali il Vietnam, e le Filippine, vantano una consistente porzione di sovranità. La sentenza è stata rivendicata dal Vietnam e dagli Stati Uniti, rigettata dalla Cina e dalla Russia.
A sua volta, il Vietnam ha aumentato la propria assertività nei confronti dell’aggressivo e confinante gigante cinese. Dopo la sentenza della corte dell’Aia, attraverso comunicati e conferenze stampa, Hanoi ha iniziato a denunciare regolarmente le scorribande della Marina della Repubblica Popolare, ha rafforzato i legami diplomatici con gli Stati Uniti e le proprie difese.
Un picco di tensione è stato raggiunto quando, nel febbraio 2021, le Filippine hanno scoperto la presenza di più di 200 navi della marina cinese nell’atollo Whitsun, ancora una volta nelle Spratly. Manila, dopo aver chiesto e ottenuto l’allontanamento delle navi cinesi da una zona che considera all’interno della propria zona economica esclusiva, per due mesi ha mandato navi della sua guardia costiera a fotografare i numeri di scafo delle unità della marina cinese, stessa cosa ha fatto la marina vietnamita. I codici, resi pubblici da entrambi i Paesi, sono stati immagazzinati a fini di ricerca dell’Asia Maritime Transparency Initiative e dello U.S. Naval War College. Un’azione più ad effetto che concreta, vista anche l’ambigua simpatia dell’allora presidente filippino Rodrigo Duterte nei confronti della Cina, ma significativa per la valutazione del livello dello scontro.
Di buona saluta godono anche le relazioni del Vietnam con l’Unione Europea. Il Vietnam è il primo partner commerciale dell’Unione fra i dieci paesi che compongono l’Asean. Fra il 2021 e il 2022, si è registrato un aumento del 20% dei beni importati dal Vietnam e provenienti dai paesi comunitari che ha portato il flusso a raggiungere un totale di 12.2 miliardi di euro; l’aumento dei beni vietnamiti che hanno raggiunto l’Europa è stato del 34%, per un totale in euro nel 2022 di 51.6 miliardi, a crescere sono stati anche gli Investimenti diretti esteri. In seguito a un accordo del 2019, una maggiore cooperazione si è riscontrata anche nel campo della difesa. L’accordo norma il coinvolgimento vietnamita nelle operazioni di gestione delle crisi dell’Unione, stabilisce consultazioni regolari in ambito militare e di intelligence e ha finalità di addestramento delle truppe.
Comunione di intenti, quella attuale fra Stati Uniti ed Unione Europea sul Vietnam, che non si verificò ai tempi della guerra del paese contro gli Stati Uniti, quando, in seguito alla solenne spaccatura avvenuta fra Francia e Gran Bretagna dopo gli avvenimenti che fecero seguito alla crisi di Suez nel 1956, si consumò un’altra crisi fra Washington e le potenze europee, in seguito alla ferma opposizione di queste ultime all’invio di proprie truppe in Vietnam. La partecipazione europea nell’area si fermò a seguito della sconfitta francese a Dien Bien Phu. Le leve propagandistiche statunitensi che volevano il Paese in difesa del mondo libero, e l’uso della cosiddetta teoria del domino, enunciata da Eisenhower e in base alla quale se un paese del sudest asiatico fosse caduto nelle mani del comunismo tutti gli altri gli avrebbero fatto seguito, non furono sufficienti a convincere gli alleati europei. Fallì anche il tentativo di Ho Chi Minh che, per scongiurare le antipatie degli Stati Uniti, nella dichiarazione di indipendenza della appena nata Repubblica Democratica del Vietnam da lui guidata, fece larghi richiami a quella statunitense del 1776. Le pressanti richieste del presidente americano Lyndon B. Jhonson, furono in particolare rivolte alla Francia di Charles De Gaulle – che in segno di protesta nel ’66 uscirà dal comando militare Nato –, alla Gran Bretagna e alla Repubblica Federale di Germania guidata da Ludwig Erhard.
I primi segnali di rappacificamento fra Stati Uniti e Vietnam si ebbero nel 1991 quando Hanoi, su richiesta americana, si rese disponibile a collaborare in merito alla ricerca dei dispersi in guerra, sempre nel 1991 fu riaperta la possibilità ai cittadini statunitensi di visitare il Vietnam. Seguirà la normalizzazione definitiva dei rapporti sotto la presidenza di Bill Clinton, quando nel 1995 verrà riaperta l’ambasciata americana nel paese. Nel 2013 è stato firmato fra i due paesi una comprehensive partnership, e da allora i rapporti fra questi due paesi sono regolati da questa formula, ma in più occasioni alti ufficiali vietnamiti hanno precisato come i rapporti di Hanoi con Washington siano nella pratica già strategici. Ma l’elevazione anche “nominale” dello status dei rapporti fra i due paesi potrebbe avvenire da un momento all’altro, o essere ulteriormente rimandata.
Nonostante l’interesse vietnamita a un approfondimento delle relazioni con gli Stati Uniti in funzione anticinese, permangono le difficoltà di un significativo passo in avanti, che richiamerebbe ulteriormente le attenzioni sui legami fra i due paesi, legami che finora sono stati portati avanti più sotto traccia, che platealmente. Nel breve e probabilmente anche nel medio periodo, difficilmente si vedranno scatti in avanti nelle relazioni fra i due paesi, in particolare per volontà di Hanoi, che predilige un sottile equilibrismo che non preoccupi troppo Pechino, dalla quale dipende economicamente. La Cina rappresenta ad oggi il primo partner commerciale del Paese, con un totale, dato dalla somma fra importazioni ed esportazioni, di circa 175 miliardi di dollari annui in merce scambiata (di cui il 67% importazioni), contro i 124 (di cui l’88% di esportazioni) che la legano agli Stati Uniti. In ogni caso, qualsiasi maggiore avvicinamento a Washington, in particolare in materia di difesa, dovrà fare i conti con i principi dei 4 “no”, annunciati nel libro bianco del 2019 per lo sviluppo dell’Esercito del popolo vietnamita: no ad alleanze militari, no a schierarsi con un paese per contrastarne un altro, rifiuto di basi militari di altri paesi e rifiuto della violenza e della minaccia della stessa nelle relazioni internazionali.
Dal lato americano, un impedimento non da poco a maggiori legami con Hanoi è rappresentato dall’impegno dell’attuale amministrazione sul campo dei diritti umani e dello sviluppo delle democrazie, di cui il già citato Summit globale e l’impegno in favore dell’Ucraina rappresentano la massima espressione. Pur potendo vantare ottimi risultati nell’ambito della transizione energetica e una particolarmente alta partecipazione femminile al mondo del lavoro, sugli altri temi – giustamente cari all’Occidente, su tutti quello dei diritti umani – il Vietnam risulta troppo carente. Inoltre, i recenti sviluppi negativi nelle relazioni fra Cina e Stati Uniti non giovano alle relazioni Washington-Hanoi, che risulterebbero ulteriormente difficili da digerire per Pechino. Motivi per cui, maggiori e ancor più palesi legami con Washington sembrano al momento difficilmente percorribili. Più plausibile è il mantenimento dell’attuale equilibrismo diplomatico, in cui si inseriscono anche le strette relazioni con la Russia. Il Vietnam, non a caso, si è astenuto dal condannare Mosca in sede Onu in merito all’aggressione in Ucraina.