Nel 1978 il pallone non rotolò fra le montagne di soldi arabi dell’oro nero ma, per una coincidenza, finì per ritrovarsi nel mezzo di una delle dittature più sanguinose del Novecento, e fece il suo mestiere, così come lo fecero i militari argentini al potere. Distrarre. Quel mondiale doveva andare bene, e alla fine andò benissimo. La junta dei militari al governo dell’Argentina non poteva permettersi sbagli nella gestione di questa enorme patata bollente di cui non era responsabile: l’organizzazione dei Mondiali di calcio del 1978. Durante i 25 giorni in cui si svolse la competizione il mondo non avrebbe dovuto accorgersi di nulla che riguardasse le incarcerazioni, le torture e le uccisioni in atto nel paese, ma solo del pallone, e così fu. Nulla riuscì a disallineare gli astri bianco-azzurri di quei mondiali di calcio vinti infine proprio dal paese che li ospitava: l’Argentina del generale Videla, l’Argentina dei desaparecidos.
Soprannominati i “mondiali della vergogna”, vi parteciparono 16 nazionali ed ebbero luogo dall’1 al 25 giugno 1978 mentre fra il regime militare argentino e gli oppositori politici si combatteva la cosiddetta guerra sucia, sporca. La finale si svolse allo stadio Monumental di Buenos Aires – lo stadio del River Plate – che si trova a soli 800 metri di distanza dalla Scuola della marina militare (ESMA), tragicamente nota per essere stata trasformata nel peggior centro di prigionia e tortura per dissidenti politici del paese. Ma l’Esma era solo uno dei 348 centri operativi. La dittatura argentina di quegli anni si aggiungeva a una lunga scia di sangue che macchiò l’America Latina. Fu il decennio più “militarizzato” della storia del subcontinente, durante il quale quasi tutti i paesi – l’85% della popolazione – si trovarono sotto il controllo di dittature militari. Era l’inizio della cosiddetta “notte della democrazia”, un periodo in cui le sfere alte degli eserciti di questi paesi si erano intestate – quasi sempre con l’appoggio degli Stati Uniti – il ruolo di salvatrici dal pericolo comunista e i poteri taumaturgici necessari per curare il “pueblo enfermo”, il popolo malato, come da metafora dell’epoca.
Sullo sfondo c’era la Guerra fredda, scivolata nell’area già dai tempi del Guatemala di Arbenz, destituito nel ’54, e intensificata dalla Rivoluzione castrista del 1959, ed erano gli anni in cui nell’area montava un forte sentimento antistatunitense. Fattori che contribuirono a rendere l’America Latina un caldissimo terreno di scontro ideologico. Le dittature militari, in forme fra loro leggermente diverse ma sostanzialmente analoghe, portarono avanti una sistematica e violentissima repressione dei movimenti anche solo di parvenza socialista e comunista, fatto che le rendeva congeniali agli interessi statunitensi. Dopo il periodo fra il 1961 e il 1969 delle amministrazioni Kennedy e Johnson, segnate dai tentativi, poi totalmente falliti, di favorire uno sviluppo dell’area che fosse un po’ più democratico, le presidenze repubblicane di Nixon e Ford, e l’ingresso di Henry Kissinger sulla scena della politica estera statunitense, avrebbero messo in atto un diverso modus operandi. Fra il 1969 e il 1977 gli Stati Uniti adottarono infatti una postura di silenzioso sostegno e connivenza ai regimi, postura di cui era artefice in particolare proprio Kissinger, protagonista della politica estera statunitense di quegli anni.
Le repressioni operate nei confronti degli oppositori, o sospettati tali, trovarono una rappresentazione plastica e di massima violenza nella cosiddetta Operaciòn Condor, un grande coordinamento interamericano che nei fatti era una sorta di maccartismo in scala maggiore. I servizi segreti di Argentina, Brasile, Bolivia, Cile, Paraguay, Perù e Uruguay, sotto l’egida della C.I.A e dei suoi lauti finanziamenti, si incontrarono a Santiago de Cile e misero a punto una rete di repressione che si sarebbe avvalsa per anni, indiscriminatamente, di veri e propri squadroni della morte: rapimento dei sospettati, imprigionamento, tortura e, quasi sempre, assassinio. Si trattava degli uomini e delle donne che passeranno alla storia con il nome di desaparecidos, gli scomparsi. Videla, il capo della giunta argentina al potere, si rivelò essere un perfetto apostolo dei comandamenti della C.I.A. in materia di tortura e sparizione, temi sui quali gli eserciti al potere in America Latina furono approfonditamente edotti, ad esempio nella Scuola delle Americhe che aveva sede a Panama: una scuola militare dell’esercito statunitense dove si formarono circa 60.000 militari latinoamericani. È difficile risalire ai numeri delle vittime della dittatura Argentina, le cifre più attendibili si aggirano intorno alle 30 mila persone. Quello che è ormai acclarato sono i metodi brutali che vennero utilizzati, emersi anche grazie alle storiche confessioni di un importante militare dell’epoca, Adolfo Scilingo, fatte al giornalista argentino Horacio Verbitsky e pubblicato nel libro Il volo. Gli squadroni della morte si muovevano di notte a bordo di Ford Falcon verde scuro prive di targa, prelevavano a casa i sospettati e li trasportavano nei campi di detenzione e tortura dopo averli privati degli eventuali figli piccoli, segretamente riassegnati ad altre famiglie. Stesso destino toccava alle madri incinte al momento del rapimento: si attendeva il parto per poi strappare e “donare” il figlio ad altri genitori. Dal già citato Esma, il quartier generale della repressione e maggior centro di detenzione, partivano decine di aerei a bordo dei quali si trovavano esecutori e prigionieri che, totalmente sedati, venivano pugnalati al ventre prima di essere gettati nell’oceano, in modo tale, con il sangue, da attirare gli squali. Quest’ultimo intento non fu sempre raggiunto, i cadaveri vennero ritrovati nei pressi delle coste argentine e uruguaiane, e con essi iniziarono le richieste di giustizia che culmineranno nel “Processo alle Giunte” del 1985, una Norimberga ad opera però delle stesse istituzioni argentine.
Videla era arrivato al potere il 24 marzo 1976 scalzando Isabelíta Peron, a cui era stato affidato l’incarico dopo la morte del marito Juan Domingo tornato a governare dopo un esilio durato 18 anni. Il golpe, a differenza di quello di Pinochet del ’73 in Cile che aveva creato scalpore e imbarazzo anche agli Stati Uniti, si consumò di notte e in modo silenzioso, rispecchiando alla perfezione l’intento statunitense di affidare a forti governi locali il contenimento delle sinistre. In questo macabro scenario, il Mondiale doveva servire a rispolverare l’immagine della dittatura, anche perché, per quanto si sa, i dittatori argentini a capo della junta erano tutt’altro che esperti di calcio. Oggi la si definirebbe un’opera di sportwashing, come quella in atto in Qatar, dove si è arrivati al punto di avere tifosi fittizi per sostenere le squadre. Ai Mondiali di Argentina ’78 questo non avvenne, non ce n’era bisogno, ma furono spese cifre record per la riuscita dell’evento e fu fatta espressa richiesta alla stampa estera, accorsa da tutto il mondo, di non porre domande scomode sul regime in atto. Gianni Minà, storico giornalista italiano, disattese puntualmente questo ordine chiedendo della sorte degli scomparsi, e questi eccessi di curiosità gli costarono l’espulsione dal paese.
A frenare l’Argentina del CT Menotti ci provò già durante la fase a gironi l’Italia, battendola per 1 a 0 grazie a un meraviglioso gol di Bettega, preludio di una nazionale che avrebbe vinto la successiva edizione dei mondiali. Ci provò anche il Brasile che, a pari merito con l’Argentina nella seconda fase a gironi che avrebbe decretato la finalista, costringeva quest’ultima a vincere con una goleada contro il Peru. Ebbene, l’organizzazione fece in modo che l’Argentina giocasse dopo il Brasile, in modo da sapere prima di scendere in campo il risultato dell’avversario, e, poco prima dell’inizio della partita, Videla e Kissinger in persona si recarono nello spogliatoio del Perù per un augurio di buona fortuna alla squadra ospite. L’incontro terminò 6 a 0 e l’Argentina riuscì a qualificarsi alla finale. La partita passerà alla storia con il nome di “marmellata peruviana”, e molto si dirà del portiere che subì ben 6 gol, così come di sospette linee di credito milionarie aperte in favore del Peru, che era campione sudamericano in carica. Per ultimi, in finale, ci provarono i Paesi Bassi che affrontavano l’Argentina in un Monumental gremito di 72.000 persone. Privati del loro astro Johan Cruijff – che aveva deciso di non partecipare per ragioni familiari – fin dall’inizio del campionato, gli Oranje colpirono un clamoroso palo all’ultimo minuto dei tempi regolamentari. Un palo particolare, che, come tutti gli altri pali di tutti gli stadi di quel mondiale, era colorato di nero alla base: un segno di protesta e di lutto espresso dai volontari che avevano lavorato alla realizzazione dell’evento. «Quel palo, che fermò una conclusione di Rensenbrink, non fu mai oggetto di onori militari, per la solita ingratitudine umana», ebbe a dire il grande scrittore uruguaiano Eduardo Galeano anni dopo. L’Argentina riuscirà a vincere per 3 a 1 trascinata dal suo miglior giocatore e capocannoniere Mario Kempes.
Quel 25 giugno ’78, giorno della finale, a consegnare la coppa fu proprio il presidente golpista Jorge Rafael Videla, qualche anno dopo processato e incarcerato, al quale Kempes, e la nazionale olandese, si rifiutarono di stringere la mano. Poco dopo la finale, in un’intervista concessa a Somos, un periodico della macchina propagandistica del regime, Henry Kissinger, che era stato allo stadio ormai privo delle vesti di segretario di stato statunitense, disse:
«L’Argentina che ho visto non è quella che descrive la stampa internazionale […], non provo altro che ammirazione per questo paese».