Tutte le strade di Roma portano sul Lungotevere. E di notte, in una città che si tinge di giallo ocra (e guai se il comune sostituisce quei lampioni antiquati con le luci a led, manco fossimo a Time Square) le palme fosforescenti della casa museo di Roberto D’Agostino ormai sono diventate parte integrante del paesaggio urbano. Un nuovo, e unico, esemplare di pianta, patrimonio dell’urbe, puttana e santa. Quello non è soltanto un terrazzo di un edificio qualsiasi, bensì trasposizione cinematografica del barad-dûr di Tolkien, una sorta di torre nemmeno troppo oscura, di controllo, di comando, di spionaggio e contro-spionaggio. Lì nasce Dagospia, quella è la sua inespugnabile fortezza. Ormai da 20 anni.
Un caravanserraglio collocato sulla riva sinistra del fiume dove si incrociano persone, circolano informazioni, si parla del più e del meno, e ogni tanto, nemmeno troppo raramente, escono fuori grandi retroscena. Dagospia non è una preghiera laica del mattino, ma un manuale romanzato di guerriglia per chi vuole imparare a muovere i passi tra i luoghi della mondanità (anche se “non ce so’ più le feste de na volta” come disse al Bestiario il mitico Luciano Bacco) e i palazzi del potere, quelli veri. Molti, per anni, hanno considerato i contenuti pubblicati su un sito apparentemente trash (ma non kitsch!) “stupidi pettegolezzi”, ignari della filosofia profonda di questo girone dantesco di articoli e racconti fotografici in cui esistono tantissimi e psichedelici livelli di lettura che molte volte si sovrappongono fino a svelare storie di letto, di potere, o tutte e due insieme. In barba a qualsiasi “classifica di segretezza”. Su Dagospia, niente è segreto, segretissimo, riservatissimo, riservato. E se Filippo Ceccarelli ci ha scritto un libro, raccontando la storia d’Italia attraverso il sesso, nella sua dimensione pubblica e privata, da Mussolini a Vallettopoli bis, Roberto D’Agostino invece ci ha fatto un sito internet, con milioni di visitatori al giorno, e la capacità incredibile di coniare neologismi e nomignoli per tutti i suoi protagonisti, dai più ai meno noti. È un arte tutta italiana, ormai dimenticata dai super mega direttori, quella di riuscire a inventare parole, definizioni, espressioni, e che oggi, morti Gianni Brera e Tommaso Labranca, eredi dei Longanesi, dei Maccari e dei Papini, non si vede quasi più.
Chi è, chi non è, chi si crede di essere Roberto D’Agostino. Definirlo ribelle o incarnazione dello spirito decadente del nostro tempo è profondamente sbagliato, “Rda” non è altro che un artista che oltre ad essersi inventato un genere giornalistico-letterario, è riuscito a fabbricare uno star system italiano composto da intellettuali, soubrette, personaggi dello spettacolo affermati, emergenti o tramontati, finanzieri, politici di ogni Repubblica, e a dissacrarlo a suo piacimento. “Avendo io vissuto quel periodo negli anni Sessanta mi sono ritrovato in questa filosofia della Silicon Valley”, ci confessa al telefono. Dagospia infatti è un social network – “de noantri”, nella sua accezione positiva e italianissima – della mondanità in cui invece di raccogliere dati, raccoglie i segreti, svelati per narcisismo, vanità o protagonismo dai suoi stessi protagonisti, “morti di fama” li chiamano, anche a costo di farsi tenere sotto ricatto per sempre. Del resto era l’Italia quel Paese dove non potrà mai esserci nessuna rivoluzione perché gira e rigira ci si conosce tutti. Chissà allora se in quel “tempio della magnificenza e della decadenza del mondo occidentale” (Massimiliano Parente) non si nascondano cellule dormienti. Solo i ferventi professanti della “taqiyya” potranno salvarci. Se non sarà quello stesso tempio di “mezzi divi” e starlette a dissimulare loro.
–Sono passati vent’anni, non pochi. Quando hai capito di aver fatto il botto?
Il botto con Dagospia non si può fare perché non è in formato analogico. Nel digitale non abbassiamo quasi mai la saracinesca, è un flusso continuo. I click sono tanti, ma la verità è che il mondo di carta è un mondo lontano e contrario al nostro. Dagospia è una semplice tavola da surf, e noi cerchiamo di stare in piedi, cavalcando le onde. Non diciamo al lettore come deve guidare, come deve amare, o come comportarsi. È completamente diverso, perché, col mondo digitale, quello che era considerato il popolo bue, a cui dare la linea della loro vita, della loro politica e via dicendo, quel popolo lì una volta che ha preso in mano il mouse è diventato un popolo toro.
–E quindi tu non hai mai pensato a un supporto cartaceo in questi 20 anni?
Come dico sempre, io in vent’anni non ho mai scritto un editoriale, perché è proprio il contrario della filosofia del web. Questo nasce come Community, prima che Berners Lee inventasse la rete, si trattava di un mondo dove noi eravamo passivi, dove tu ti mettevi a quell’ora a vedere quel film in televisione. È come andare a teatro e stare in platea, al cinema idem, guardi, ma sei sempre fuori: leggi, e leggi ciò che scrivono gli altri. Quando arriva Internet il mondo si capovolge, in quanto noi abbiamo la possibilità, tramite un motore di ricerca, tramite un computer, una connessione, di poter andare dalla A alla Z e viceversa. Cioè, siamo diventati attivi. Con i social ognuno di noi ha trovato la maniera di dire quello che ha nella testa. Ovviamente, le polemiche quali sono state? Continue, ancora… le fake news, i leoni da tastiera, la volgarità… ma il problema non è questo. Siamo 7 miliardi e 700 milioni di abitanti. 3 milioni e mezzo sono connessi. Ora, su questi numeri, è ovvio che devi prevedere una quantità di idioti, di cretini, di maleducati, è ovvio. L’essere umano non è mai stato perfetto…
–Però, insomma, queste campagne anti-fake news sono diventate anche grottesche, nonostante i leoni da tastiera, nonostante tutte queste cose appena dette…
Io accetto anche che esista un mondo di picchiatelli, di canari, che scrivono qualsiasi cosa – non sai quello che scrivono su di me. Però io quello lo prevedo. So benissimo che se tu hai 10 persone davanti, 1 o 2 almeno sono idioti, sono stupidi. Ma è normale, non è niente, va considerato questo. Quando Umberto Eco disse che Internet dà la facoltà a qualsiasi imbecille di dire la sua, io gli risposi: “Scusi professore, quando Lei è in aula al DAMS di Bologna, nell’aula piena di studenti… hanno tutti la stessa capacità? Hanno tutti la stessa qualità? Hanno tutti la stessa educazione?”. No, è chiaro. È chiaro che questa cosa è un modo di dire, un rosicamento che ha avuto il mondo analogico, che prima, all’epoca delle ideologie, dava il “La”, dava la via del Sole e dell’Avvenire, dove il telegiornale poteva condizionare il consenso degli elettori, dei cittadini. Poi, a un certo punto, con Internet, nessuno sta più alle 8 di sera ad aspettare il telegiornale, nessuno sta più ad aspettare che la mattina si apra un’edicola. E tutto questo ha tolto il potere che avevano queste élite. Quelle stesse élite che consideravano il popolo un popolo bue. E invece il popolo non era bue per niente – ormai c’ha due belle corna, e non ha fatto altro che usarle. È quella famosa battaglia, duello, o sfida, di cui tanto si parla, tra popolo ed élite. E all’élite, una volta che hai tolto il potere di poter dire al lettore che doveva votare in quel modo. E costantemente leggiamo articoli che dicono che siamo trash e cafoni, allora non capisco per quale motivo la gente dovrebbe andare in edicola e pagare per comprare un giornale che gli dice che è un coglione. Con Dagospia, dato che ho rispetto per chiunque, metto una mia selezione di notizie che prendo dai giornali e li “dagolego” come faccio io. Poi li sottopongo alla loro attenzione, e quando leggeranno, decideranno, si costruiranno il loro editoriale. Ognuno deve farsi il suo editoriale. Io non voglio dare nessuna indicazione, perché io sono il primo ad essere consapevole di non star scrivendo i dieci comandamenti, io sto qui a prospettare quello che è lo spirito del tempo. Questi articoli, queste storie, questi testi sono semplicemente qualcosa che ti può aiutare a vedere quello che hai davanti. La regola fondamentale che ho sempre avuto nel mio lavoro è questa: ognuno vede quello che sa. Se uno sa qualcosa può, sapendola, mettere in connessione A con C, A con Z, questo è importante. Ecco perché poi ho fatto anche una mossa diciamo anti Dagospia, ho tolto il sommario, perché parlando con le persone comprendo che hanno tutti tantissime cose da fare e non hanno il tempo per poter leggere gli articoli. Allora ho tolto di mezzo il sommario. Oggi faccio un occhiello satirico, ironico, e un titolo. In modo tale che chi non ha tempo può, leggendo solamente i titoli, possiamo chiamarli titoli sommari di Dagospia, capire quello che sta succedendo intorno a lui.
–Dagospia è un unicum del giornalismo mondiale anche perché è profondamente italiano. Però volevo sapere se vent’anni fa, quando ti è venuta l’idea, ti sei ispirato ad un progetto preesistente.
No, se ti devo dire la verità no. Avevo un amico che mi ha introdotto in questo mondo, un mondo che mi ha subito affascinato, fatto da gente che aveva vissuto come me gli anni Sessanta e Settanta. Tutta la Silicon Valley è California. Tutto il mondo digitale nasce da quegli hippies, quei freaks, che in California, San Francisco e dintorni avevano tanto spazio. Sappiamo che a San Francisco c’erano gli hippies ma c’era anche il mondo della Beat Generation che era legato all’oriente. Avendo io vissuto quel periodo negli anni Sessanta mi sono ritrovato nella filosofia della Silicon Valley. La gente si sorprende leggendo che tutti coloro che hanno inventato, che hanno il potere, da Zuckerberg a Steve Jobs, Jeff Bezos e ai due di Google, bene tutti questi ragazzi erano solamente dei fricchettoni, gente che si faceva le canne, aveva il suo computerino dentro il garage come Steve Jobs; Bezos era uno che vendeva i panini al McDonald, e nessuno di loro ha mai messo piede in un’università, non ha mai preso una laurea. Leggendo la vita di Steve Jobs si scopre che tutta la loro filosofia di vita era legata a quel movimento di fricchettoni, di suonatori di chitarra, le canne, gli acidi, e costoro avevano come idea una cosa che mi ha molto colpito. Nel senso che se in Europa, in quegli anni, attraverso i gruppuscoli come Lotta Continua, Potere Operaio eccetera c’era quella volontà di andare all’assalto del palazzo, la volontà di dire facciamo la rivoluzione, prospettiamo un mondo diverso da questo, loro erano il contrario. La loro filosofia era questa: è inutile, le nostre energie non sono illimitate, la nostra energia, se la usiamo solo per andare contro, per assediare la Casa Bianca, poi non la possiamo utilizzare per i nostri sogni e per la nostra volontà di fare qualcosa. Pensa positivo voleva dire questo. Invece di andare a battere la tua testa contro gli scudi della polizia è meglio che usi la tua energia per inventarti qualcosa. Quello che loro avevano capito è questo: se tu vuoi cambiare la testa di una persona non riuscirai mai a farlo con le parole, è tempo perso volerti convincere a parole di qualche principio filosofico. Se tu vuoi cambiare una persona gli devi dare in mano uno strumento, un oggetto. L’uomo nel corso della sua millenaria vita non è cambiato per una ideologia, per una religione, per un partito, per il comunismo, per il liberalismo. L’uomo nel corso del tempo è cambiato perché un giorno scopre la ruota, un giorno scopre il coltello, un giorno scopre il fucile, un giorno scopre il treno, un giorno scopre che ha la possibilità di costruire una macchina. Sono gli oggetti che cambiano il mondo, non le ideologie.
–Si è molto americana come cosa, tutta l’ideologia della prassi, della realtà…
C’è un bellissimo libro che parla degli strumenti che hanno rivoluzionato il mondo. Il mondo non è stato cambiato da una setta religiosa, da Buddha o da Gesù Cristo, il mondo è cambiato da quando le persone hanno in mano uno smartphone, hanno la possibilità di collegarsi, di connettersi, da quel momento la loro vita non è più la stessa. Se io le rimbambisco di chiacchiere non ottengo nulla. Bisogna dargli un oggetto. Conta più la lavapiatti che il femminismo per le donne; è la lavapiatti che gli toglie la schiavitù, non è uno slogan. Ecco, dicevo, il mondo attraverso gli oggetti. Tutto ciò che mi piaceva è che poi, in fondo, se hai uno strumento dove sei protagonista vai dove vuoi, perché sei tu che con il mouse navighi su Dagospia, o vai su GialloZafferano. Se tu hai uno streaming non sei più costretto a precipitarti alle nove e un quarto a casa per vedere uno spettacolo. Lo vedi quando arrivi, se arrivi. Il mondo digitale ha prodotto una rivoluzione. La stessa cosa che successe quando arrivò il Rinascimento. Il Medioevo da una parte, il Rinascimento dall’altra. Il Rinascimento noi italiani, ovviamente, lo identifichiamo con Michelangelo, Leonardo, Caravaggio e compagnie varie. Invece il grande passaggio dal Medioevo al Rinascimento lo fa un tedesco, un tipografo di nome Gutenberg. Quando lui inventa i caratteri mobili di stampa e prende la Bibbia, che all’epoca era solo in mano ai preti, ai papi, ai principi, alle corti, la prende e comincia a stamparla e darla alla gente; questa gente una volta che ha la Bibbia in mano ha il potere, la stessa cosa che hanno fatto Steve Jobs e compagni con il computer. Si chiama personal computer, appunto, perché dà un potere personale, che prima non c’era. Come la stampa. Prima le persone erano analfabete, poi con la stampa cominciano a istruirsi, a leggere, non hanno più bisogno di andare in chiesa a vedere gli affreschi per capire la storia di Cristo, la possono leggere. A questo punto togli il potere agli altri, perché tu puoi leggere, tu hai un potere. Oggi un ragazzino che vive in una capanna, chessò, del Kenya, ma ha la connessione, può avere accesso a internet come un ragazzo di New York, di Parigi, di Milano. Anche dentro una capanna non hai più bisogno del censo per frequentare quell’università. Poi, quelli della Silicon Valley hanno ritenuto inutile manifestare contro la Casa Bianca, hanno continuato il loro lavoro tra una canna e l’altra, con il potere di Washington che non li ha proprio considerati. Li vedevano come degli svalvolati, dei drogati, li hanno lasciati fare e questi, zitti zitti, sono riusciti ad ammazzare il potere vero. Oggi chi comanda nel mondo è Google. Hollywood è stata completamente stremata, affondata da Netflix.
–Vista questa consapevolezza della rivoluzione digitale in cui siamo, ti manca lavorare in TV come autore?
La TV l’ho fatta per tantissimi anni, in Rai. Ho cominciato nel ’76 con le musiche, poi ho partecipato alla scrittura del varietà di Rai 1 Sotto le Stelle, come autore ho fatto tante cose, però in video ci sono andato solamente con Arbore a Quelli della notte, nel 1985, ma sempre come partecipante. Poi due anni di Domenica in con Boncompagni. Non ho mai avuto nessuna intenzione di fare un programma televisivo, perché implica un lavoro collettivo: non è che vai lì e quello che fai tu è quello che poi alla fine la gente vede, ed è un aspetto che non mi è mai piaciuto. Quindi ho fatto sempre l’ospite, perché avevo guadagni senza dover partecipare a quelle riunioni infinite. Ho cominciato una volta con Chiambretti, come autore, ma alla fine ho chiuso perché non si poteva andare avanti. Poi il debutto in televisione al mio posto lo fece Signorini. A un certo punto hanno detto «Ah è facile stare sul divano a fare il criticone». L’ho fatto solo per soddisfazione personale, per far vedere cos’era la televisione. Io ho fatto 30 puntate su Sky, di un programma che si chiama Dago in the Sky, se lo vedi capisci che cosa è la mia idea di televisione. Nella TV di oggi si parla, io posso seguire la Gruber o Vespa lavorando, tanto è gente che parla, non è televisione quella. La televisione la fanno Netflix, Amazon Prime… quindi a coloro che mi accusavano di essere solo un parolaio, ho detto che mi applico e faccio una serie solo per spiegare cosa vuol dire oggi trasmettere un’immagine. La gente prima vede e poi ascolta.
-E senti una cosa, Dagospia chiaramente ha uno dei punti di forza nel fare leva sull’ego delle persone. Tu ti aspettavi un’élite italiana, cultural-mondana e intellettuale, così vanitosa come l’hai scoperta in questi vent’anni di Dagospia?
Hanno ripubblicato da poco un libro degli anni Ottanta, si intitola La cultura del narcisismo ed è stato scritto da Christopher Lasch. Se lo riprendi in mano già si intravede, a partire da quel decennio, il protagonismo della gente, insieme all’idea che la politica sarebbe poi diventata una questione di leadership. Lo abbiamo visto con Silvio Berlusconi. Prima c’era il partito, poi il segretario, alla fine è emerso il leader. Oggi la politica è dei leader, o emerge il leader oppure il partito non esiste. Quindi la cultura del narcisismo nasce in quegli anni Ottanta, nell’epoca dell’edonismo reaganiano; e prima di quell’ideologia, il godimento era come quello dei preti: quando sarai morto andrai in paradiso. Poi, improvvisamente, il godimento è diventato “qui, ora e subito”. Stasera è l’ultima sera. Il narcisismo è una vera e propria cultura che negli Stati Uniti è stata raccontata in maniera mirabile, mentre in Italia a causa della presenza di politici come Craxi e De Michelis, sono stati sminuiti dalla sinistra come gli “anni peggiori”, senza che capissero la loro importanza. Gli anni Ottanta sono anche quelli che della caduta del muro di Berlino. E la cosa fantastica è che nel 1989 mentre cade il muro di Berlino, un grande informatico britannico come Bernards, a Ginevra, “mette su carta il web”, da cui poi nasce la e-mail. Insomma nasce tutto lì. Un passaggio fondamentale, il più importante dopo l’invenzione della stampa di Gutenberg tra il 1448 e il 1454: crollano le ideologie, nasce la rete. E la rete non ha ideologia. Internet è amato e desiderato in tutto il mondo, non c’è un Paese che odia internet, anche i regimi più autoritari ne hanno bisogno. Ovviamente i soliti rompicoglioni diranno ci sono i lati negativi ma quelli ci sono sempre, nella vita. Del resto la verità è solo un punto di vista. Una storia può essere vera, verosimile, falsa. Il nostro lavoro è anche questo: raccontiamo una versione, la nostra versione, mica scriviamo i dieci comandamenti.
–Con Dagospia ti sei fatto più amici o più nemici in questi anni?
Abbiamo tanti conoscenti, non abbiamo amici. Amici sono quei tre o quattro che senti tutti i giorni, a cui confidi i tuoi problemi, i tuoi disagi, mentre gli altri, i conoscenti, li incontri, ci parli, ci bevi un drink, e basta. L’amicizia è tutta un’altra cosa. Il fatto che poi tanti mi abbiano querelato, o insultato, fa parte delle regole del gioco. Io ho fatto per 12 anni il bancario, non nasco giornalista, ho sicuramente commesso errori, ma non ho mai avuto la presunzione di dire: “ah io so qual è la verità!”.
–Lo Star System italiano che avete raccontato in questi anni su Dagospia esiste oppure ve lo siete inventato?
È da un pezzo che lo Star System è privo di star. Niente star, niente divi, solo mezzi divi. Ora è emerso che la celebrità, la popolarità, ha senso solo nelle momenti di benessere collettivo e di felicità. Io la mia, di quarantena, l’ho passata a leggere, mica a farmi i video dalla mattina alla sera.
-Longanesi diceva che non basta rifiutare i premi bisogna non meritarseli. Sei d’accordo con questa affermazione?
Uno può non meritarselo, e se lo merita può liberamente rifiutarlo. Amen.
-Ma tu ora sei a Roma o a Sabaudia?
A Roma.
–Cosa ti lega a Sabaudia?
E’ un posto che amo da morire. Sai l’amore non puoi chiedere come nasce, l’amore arriva di nascosto, arriva alle spalle, e ti frega sempre, per me è stata la stessa cosa.
–Quindi non frequenti costiera romagnola, Capalbio, Cortina D’Ampezzo, Forte dei Marmi, Eolie, Pantelleria, Capri.
Non ci penso proprio, sto bene a Sabaudia!
Sebastiano Caputo