OGGETTO: I crimini dei giornalisti
DATA: 19 Ottobre 2020
SEZIONE: inattuali
La pandemia è stata gestita male, ma è stata raccontata peggio: la colpa è dei giornalisti, un’élite senza sapere che prolifera in quest’epoca di buio epistemologico. Se dobbiamo convivere con il Covid, che almeno si parli di altro, “abbiamo una vita da vivere e dei tramonti da godere”.
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Non vogliamo entrare nei dettagli della gestione dell’emergenza Covid-19 da parte del nostro governo. Diciamo solo che, dopo un’estate passata a discutere della fornitura di banchi a rotelle nelle scuole, oggi ci ritroviamo con il coprifuoco a mezzanotte, la cassa integrazione in ritardo, con un servizio sanitario nazionale in affanno malgrado la seconda ondata fosse prevista, e con l’ombra di un nuovo lockdown alle porte, un’eventualità che sospende il tempo della vita e rischia di contrarre irrevocabilmente l’economia del Paese. Oltre il danno anche la beffa, però. Stando a quanto dichiara Conte, infatti, l’intensità delle misure di contenimento non dipende dal governo ma dal “comportamento degli italiani”. Un’affermazione auto-assolutoria che sta generando una fitna intracittadina e generazionale, tra i più ligi alle regole e i meno disciplinati, tra vecchi e giovani, tra i covid-maniaci e i covid-scettici. Oltre alla beffa, però, anche la pagliacciata. Il ministro della Salute Speranza è in uscita con un libro per Feltrinelli, Perché guariremo. Al di là dei contenuti, ci chiediamo: ma il tempo, il nostro ministro, per scrivere un libro, dove lo ha trovato?

Tuttavia, se la gestione della pandemia è stata pessima, la narrazione è stata peggio. La colpa va attribuita ai giornalisti. Ci riserviamo il diritto di affermarlo senza mezzi termini. A distanza di nove mesi dall’inizio dell’emergenza, possiamo dire che il giornalismo ha fatto di tutto per persuadere il lettore di essere informato, ma non ha fatto nulla per informarlo. A partire dall’impiego di una retorica bellicista prima, quando di guerra non si è mai trattato, fino agli interminabili dibattiti sull’uso della mascherina poi: abbiamo assistito a smentite e riconferme, titoli cinematografici, cacce agli “untori”, foto di assembramenti sui corsi cittadini, allarmi quotidiani sulle curve dei contagi interpretate a piacimento. I giornalisti, con la complicità di una serie di virologi forse troppo attenti ai riflettori, disposti a tracimare sfacciatamente dal loro ambito di competenza per invadere quello politico, o parlando da comuni cittadini impauriti, hanno creato una realtà simulata, il tutto senza poter mai fornire dei dati affidabili o stabilire l’efficacia delle misure di contenimento. Bombardati di informazioni contrastanti, ora ci scopriamo incapaci di distinguere il vero dal falso e costretti a sostare in una zona di buio epistemologico, proprio dove l'”élite senza sapere” dei giornalisti ha la possibilità di proliferare, aumentando le vendite, il coinvolgimento, l’audience dei suoi programmi.

Se facciamo un passo indietro, allora, dobbiamo ammettere che la crisi del coronavirus è in buona parte il frutto della crisi di un mondo dell’editoria che, in deficit da anni, oggi si trova costretto a capitalizzare all’estremo, anzi proprio alla cieca (anche a costo di diffondere notizie del tutto false), il bisogno di certezze della popolazione – alimentando il terrore e subito dopo vendendo i calmanti sotto forma di costanti aggiornamenti come oroscopi. Ci ricordiamo tutti il messaggio motivazionale che Urbano Cairo rivolge ai venditori degli spazi pubblicitari di Rcs in vista della “grande opportunità” offerta dal Covid. Non si tratta di complotto, ma di semplice gestione della produttività. È il principio di Pareto, un principio empirico e statistico che evidenzia come l’80% degli effetti (risultati) sia dovuto al 20% delle cause (azioni). Applicata da Pareto in ambito economico, questa legge suppone che il 20% della popolazione possieda l’80% delle ricchezze, mentre in campo giornalistico possiamo ipotizzare che il 20% delle notizie che ricoprono l’arco dell’attualità sia in grado di generare l’80% del traffico, degli acquisti e dell’audience di un sito, di un giornale o di un palinsesto televisivo. I temi legati all’emergenza sanitaria sono il 20% dell’informazione che riesce a massimizzare i benefici. Con il minimo sforzo, dunque, un blogger, un autore televisivo, un direttore editoriale, un giornalista, un caporedattore o chiunque altro decida di affrontare il tema del Covid è in grado di ottenere il massimo del risultato. Si tratta semplicemente di pigrizia intellettuale e di riduzione dei rischi. Il continuo rilancio di notizie che riguardano l’emergenza sanitaria fa parte di un immenso effetto a cascata che la pandemia, un tema globale e destinato a durare nel tempo, ha generato. E i giornalisti quotidianamente rimodulano questo tema per portare a casa lo stipendio. Come un fortunatissimo Meme, il Covid è diventato uno scherzo infinito, un fenomeno virale che non mira solo a riprodursi ma anche a reinventarsi – ogni giorno leggiamo la stessa cosa ma con una serie di piccole variazioni letterarie e cronachistiche, con l’epos bellico o quello da fiction televisiva a fare da sfondo, con l’alternarsi di toni apocalittici e ottimistici. Il giornalista si limita a giocare il ruolo di memers, a remixare i contenuti all’interno di una stessa cornice, quella del “Covid”, o dell’emergenza sanitaria, e a produrre delle nuove versioni di uno stesso discorso che si prestano sempre allo stesso uso, quello di auto-validarsi all’infinito.

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Se dobbiamo convivere con questa pandemia per un tempo ancora indefinito, perciò, ci appelliamo al buon gusto, alla curiosità, all’inventiva e alla deontologia professionale di tutti quei giornalisti che con questa emergenza hanno screditato un mestiere, percorrendo la strada più semplice, quella del conformismo della paura, dell’appiattimento, della ripetizione coatta e forzata di uno stesso tema fino all’abbrutimento della popolazione. Ecco, da oggi potete cominciare a parlare di altro, ci sono problemi nuovi da affrontare, ci sono sfide che magari non fanno lo stesso clamore ma che sono altrettanto importanti, e noi, come scriveva Pavese al suo editore, abbiamo ancora “una vita da vivere, delle biciclette da inforcare, marciapiedi da passeggiare e tramonti da godere”.

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