Il potere non è nel risorgere dai morti, nel vincere la morte – il potere è dei morti. Il potere dei morti, a volte, rende moribondi i vivi, li inebetisce nella museruola di patti incestuosi.
Intanto: la provincia italiana esiste. Evviva. (A volte, la provincia si esaurisce, immemore, cauterizzata, crolla in sé quando cerca di imitare la metropoli, s’ingravida d’invidia). A Sant’Alberto le case non sono alte più di un piano, il silenzio è un nido di filo spinato in gola, ci si arriva attraversando chilometri di campi bassi. Gli uomini hanno la faccia quadrata, ti salutano, la domenica vanno a pescare. Qui San Romualdo, un millennio fa, ha piantato il suo eremo. Oggi una specie di Caronte – occhi cupi, corpo barbaro, pericoloso – guida il traghetto che ti porta di là dal Reno. Dalla provincia di Ravenna si passa in quella di Ferrara: tra le chiazze d’acqua delle Valli di Comacchio i fenicotteri rispecchiano se stessi, con eleganza grottesca. Tutto è grigio – il cielo, l’acqua, la terra – e quelle schegge rosa sembrano perle esotiche, i messaggeri della regina di Saba. Il posto è scabro: canne, cisti di cespugli rossi, la costa scura: finalmente un luogo in cui il chiasso degli uccelli supera quello degli umani. Alcuni cavalli, su un canale, dentro una proprietà privata; il falco di palude scatta appena mi sente: è tozzo, sintetico, duro; si posa su un altro albero, tutto rami, come un fulmine cristallizzato.
Da qualche parte ho letto che gli animali sentono la morte, tributano omaggi ai morti, ne portano il ricordo. Non so, studierò meglio. Immortali è quando si è inconsapevoli della morte, non se ne sente il brivido, il bivio, l’immotivato, e tutto è uno, ogni atto l’unico, ogni evento l’ultimo. L’acqua è dappertutto, qui, forse il cimitero di Sant’Alberto, prima o poi, sprofonderà, e le tombe torneranno ciò che sono: arche. I morti dovrebbero fuggire, esplodere, invece li abbiamo schedati in lapidi, stabiliti in una specie di album su pietra, democrazia di loculi, cappelle, e qualche statua a fare da mobilio. Vedere un uomo che si china sulla tomba, distillando se stesso, dicendo al marmo ciò che non ha mai detto al vivo, dà un senso al concetto di umanità. L’uomo è la creatura che parla con i morti, che non si lascia incatenare dai ricordi, intenerire dal passato, è coinvolto nel futuro del morto. Molte relazioni nascono quando uno dei due muore – a volte, uno deve morire perché l’altro sia libero di amarlo. Perché sia così non lo so, può sembrarci orrendo, ma è così.
Morenti, piuttosto, autentici morti-in-vita, sono quelli che non intrattengono alcuna forma di amicizia con i morti… che ciechi, non sanno che la vita è una risposta ai morti, si esiste perché l’esito è la morte.
D’altronde, il primo poema dell’umanità, Gilgamesh, nasce intorno alla domanda martellante della morte:
“Non sarò forse, quando morirò, come Enkidu?
Amarezza di impadronì del mio animo,la paura della morte mi sopraffece e ora io vago per la steppa”.
L’Iliade si snoda intorno a un corpo vivente – l’emblema e l’idolo della bellezza, Elena – e termina sul corpo morto di Ettore, la sua riscossione. La tragedia greca, di fatto, tra vendetta, devianza, anatema, è l’infinito discorso di come i morti s’incidano sui destini dei vivi.
Eppure, “lascia che i morti seppelliscano i morti” dice il Nazareno. Abbiamo contratto un giuramento con i morti – una promessa, pur flebile, ci lega al padre, alla madre, ai parenti morti, ai nonni: la genealogia è scatenata catena di spettri – ma non possiamo lasciarci avvinghiare, dissanguare, esaurire dalla legge dei morti. I morti, infatti, si nutrono dei vivi – per fraintesi, per eccesso d’amore, per la serpe del rancore. Sporgersi nel regno dei morti è giusto: precipitarvi significa stare in balia dei ricordi ambigui, nel dedalo delle vite presunte, traslucidi per opacità.
Tutto è sotto minaccia dei morti. Io abito in una casa costruita da chi è morto; in un Paese che è il risultato di una guerra, è fertilizzato dai morti; tra persone diversamente marchiate dalla morte. La morte cambia i connotati del viso e del destino. Ma nelle catacombe si covavano rivoluzioni – è ingiusto, ingiustificato vivere sotto la mira dei morti, vita data al ricatto di morire. Ogni potere vivente piega i morti a suo piacere: pensa di poter vincere la morte o di minacciare di morte. L’ideologia della salute/salvezza e l’opificio farmaceutico a questo mirano: consolidare il potere tramite la morte.
Ma questa formula non ci imbambola. I morti, infatti, non sono anonimi: a ciascuno hanno assegnato una consegna, un resto, qualcosa da compiere. Il lascito dei morti non è nel cimitero: eppure, consapevole dell’idiozia, dormirei di fianco alla tomba di un padre, proteggerei le fotografie dei morti – sgualcite e luride dal tracollo del tempo, da una pena intima – con le mani. Bisogna entrare in cimitero con le candele in bocca, l’uomo è nel suo oro quando prega al cospetto degli sconosciuti, incaricandosi di una memoria che non gli appartiene. Ma i morti non ci ammazzino due volte, riscattiamoli per liberarli – dal bacio al morso il passo è breve, e i morti hanno denti al posto delle dita. Li ho al mio tavolo, a pranzo, fanno le capriole sull’armadio, a volte diradano gli specchi in un bosco; sussurrano ai bordi del letto, intorno ai giardini – sono perfino felici, a volte.