Giuliano Da Empoli, autore de Il mago del Cremlino, scrisse diversi anni fa un libro meno celebre di quello che lo ha fatto arrivare finalista al premio Goncourt, ma altrettanto lungimirante. Si intitola La prova del potere. Una nuova generazione alla guida di un vecchissimo Paese è stato pubblicato nel 2015, quando Matteo Renzi era già presidente del Consiglio. Insieme avevano già lavorato, a Firenze, poi in giro per l’Italia. Giuliano Da Empoli fu prima assessore alla Cultura di Matteo Renzi, poi divenne suo ideologo fin dai tempi delle primarie 2012, per infine consacrarsi suo consigliere politico appena entrato a Palazzo Chigi. Da un lettore spasmodico di Vladimir Surkov non poteva del resto essere altrimenti. Con quel pamphlet l’autore già si domandava in che modo questa nuova generazione di trenta-quarantenni affacciatasi al potere avrebbe dovuto “evitare le trappole del nuovismo a tutti i costi, senza ricadere nella palude della conservazione e della rendita”.
Matteo Renzi ha vissuto più vite, e la misura del rottamatore prima, e del politico di professione poi, passato dalla presidenza del Consiglio, è strettamente proporzionale al suo consenso elettorale. L’uomo della Lepolda, delle origini, è diverso dal segretario del Partito Democratico e premier più giovane di sempre col 40 per cento dei voti, quanto dal leader corsaro di Italia Viva che ha fatto cadere il governo Conte II, tramato per la nomina di Mario Draghi per poi farsi rieleggere al Senato in coppia con Carlo Calenda. Le libertà di espressione e di movimento aumentano poco a poco che si smette di inseguire il pensiero di massa ma si agisce per pensiero critico. Meglio capirlo tardi che non capirlo mai.
Prima di Giuliano Da Empoli, in tempi non sospetti, anche Luca Josi, enfant prodige del Partito Socialista Italiano per il quale divenne segretario del movimento giovanile dal 1991 al 1994, aveva già anticipato il fenomeno del “ricambio generazionale” con un patto siglato nel 2007 all’Ara Pacis di Roma nel quale alcune personalità sottoscrivevano l’impegno a lasciare o non accettare ruoli di leadership istituzionale una volta raggiunti i 60 anni. Un’idea insolita che non a caso nacque proprio dall’idea di un visionario come Josi, uno che sarebbe potuto diventare ministro a trent’anni, con la benedizione di Giuliano Amato, e che invece si innamorò di Bettino Craxi quando era già morto politicamente, al punto da seguirlo nell’esilio di Hammamet. Tra i firmatari di quel manifesto non solo c’era Giuliano Da Empoli, ma anche Giorgia Meloni, che allora aveva appena compiuto trent’anni.
La stessa Giorgia Meloni, che a suo modo, rivive dall’altra parte della barricata, la stessa parabola “rottamatrice” di Matteo Renzi, ma soprattutto si ritrova “giovanissima” a fare i conti col potere. La leader di Fratelli D’Italia oltre a condurre una battaglia nella coalizione di centro-destra, in particolare con il grande vecchio Silvio Berlusconi con il quale condivise l’esperienza di governo da ministro delle politiche giovanili, è appena reduce da un colpo micidiale inflitto all’interno del suo partito. Con la decisione di candidare nel Lazio il presidente della Croce Rossa (italiana e mondiale) Francesco Rocca, e non il suo ex mentore Fabio Rampelli, Giorgia Meloni rottama una volta per tutte la corrente dei “gabbiani” e la sezione romana di “Colle Oppio”, dove si formò ai tempi di Alleanza Nazionale sotto la guida dell’attuale vicepresidente della Camera. Quando Giovanni Donzelli, responsabile organizzativo del partito, dice che quelli della “Generazione Atreju sono cresciuti senza rottamazioni” è vero solo parzialmente, perché per quanto ci sia posto per tutti nel nuovo corso – vedi persino il ritorno di Gianfranco Fini dietro le quinte e di Italo Bocchino come opinionmaker televisivo – restano i vinti e i vincitori nel grande valzer degli incarichi, e de facto i rapporti di forza, dunque le gerarchie, inevitabilmente mutano. La sfida di Giorgia Meloni adesso è doppia. Dentro il partito, dentro a Palazzo Chigi. Ma per combattere quella contro i “mandarini di Stato” ha bisogno di tutto il supporto dei suoi di “mandarini”. Sta vincendo la battaglia, ma la guerra è ancora lunga. La decisione di tenere Donzelli fuori dagli incarichi di governo, trincerandolo a Via della Scrofa, è stata una decisione scaltra, che solo una tribù politica cresciuta insieme poteva compiere, ma soprattutto accettare per il bene della tribù politica. È lui il custode della fiamma nel tempio Zoroastriano.
Quanto scriveva Giuliano Da Empoli in quel pamphlet, vale anche per Giorgia Meloni: “oggi l’esperienza è ricompensata meno dell’innovazione, la capacità di continuare a fare ciò che si è sempre fatto meno di quella di reinventarsi, lasciandosi alle spalle la vecchia identità – pubblica, professionale o personale – come la pelle accartocciata di un serpente a primavera. È una tendenza di fondo, che ha cambiato il volto delle società più avanzate nel corso dell’ultimo quarto di secolo, facendo saltare le antiche gerarchie strutturate dall’esperienza e favorendo l’ascesa di classi dirigenti più giovani, che fondano il proprio potere sulla capacità di rompere gli schemi, più che di conformarsi allo status quo”. È il concetto primordiale della necessità di sopravvivenza, cioè la capacità di cambiare pelle senza cambiare testa. Cambiare tutto per non cambiare nulla, rivoluzionare nel nome della conservazione, con un unico obiettivo: non rimanere mai prigionieri di sé stessi. Non si tratta di giovanilismo ma dell’intelligenza di comprendere che il consenso è volatile (vedi con Matteo Renzi) che il consenso non è sufficiente né a governare un Paese, tantomeno un partito (vedi con Matteo Salvini), perché appunto è solo un mezzo per risalire la vertigine un gradino più su. I più “applauditi”, i più “venerati”, lo sanno e quindi preferiscono starsene fuori. A volte non basta rifiutarli, gli incarichi, occorre non meritarseli. Anche perché un passo indietro si scorge la visione di insieme, “si scorge più mondo che mai” come diceva Nietzsche.