È direttamente dall’inferno che Michel Houellebecq ha scritto Qualche mese della mia vita (La nave di Teseo, 2023). Dalle accuse di razzismo e islamofobia alla famigerata pellicola hard cui prese parte senza capire di essere stato raggirato, nulla viene taciuto dallo scrittore francese in questo memoir intimo, oltremodo polemico e quasi mai consolatorio.
«Un ritratto composto dai vizi di tutta una generazione, nel loro pieno sviluppo», come dice di sé stesso citando Un eroe dei nostri tempi di Lermontov.
E allora, se la finzione letteraria è un’alternativa alla vita, un surrogato spesso più desiderabile (d’accordo, potremmo discutere per ore di questo), Houellebecq ne ha fatto ricorso per combattere i suoi demoni, senza smettere nemmeno un istante di glorificare il proprio Io.
Il libro si apre con la vicenda legata al colloquio apparso sulla rivista Front populaire diretta da Michel Onfray, dove alcune affermazioni dell’autore sui temi della sicurezza e della convivenza con la comunità musulmana avevano generato più di una incomprensione, tanto che il rettore della Grande Moschea di Parigi ne aveva messo in dubbio l’opportunità, se non proprio la diffusione. Una polemica che, a causa delle parziali rettifiche dello stesso Houellebecq riproposte nel volume, pare più un pretesto e, a conti fatti, una excusatio non petita.
Del resto, in diversi momenti lo stile e il tono richiamano il lettore a farsi giudice, a dover sottilmente parteggiare per il colpevole alle prese con le sue controverse battaglie, che adesso sono diventate anche le nostre.
Ma veniamo al nucleo centrale del racconto, il famigerato “porno di Houellebecq” di cui si è tanto discusso, specie dopo la pubblicazione del trailer, diretto da Stefan Ruitembeek, fondatore del collettivo olandese KIRAC e apostrofato nel libro come “Lo Scarafaggio”.
In che modo lo scrittore sia riuscito a farsi coinvolgere in un progetto del genere ha dell’incredibile, potremmo dire di essere a metà strada tra l’imboscata e la circonvenzione di incapace: spinto dalla vanità e da un irrefrenabile slancio erotico, oltreché convinto della bontà artistica della pellicola, Houellebecq si ritroverà insieme alla moglie sul set a girare alcune scene hard con delle attrici che, frattanto si erano presentate come delle fan dell’autore, non prima di aver firmato un contratto capestro che lo avrebbe privato di qualunque diritto sulle riprese (in molti hanno fatto notare il paradosso di un uomo di Lettere fregato per non aver saputo leggere).
Le pagine che seguono, in larga parte, sono una disamina di quanto accaduto nei mesi successivi, ossia la battaglia legale tra lo scrittore e KIRAC, inframezzata da riflessioni sulla letteratura, la giustizia, il senso del Male, la religione e, soprattutto, la pornografia, intesa come dispositivo simbolico necessario per comprendere il nostro tempo.
Le considerazioni più interessanti riguardano proprio il rapporto dell’autore con il corpo; l’indissolubilità dei concetti di amore e dono, cui egli attribuisce l’essenza stessa del discorso amoroso; l’immagine pubblica del sesso e i vincoli religiosi, quand’anche morali, di cui siamo tanto vittime quanto artefici.
Il problema di questa surreale faccenda non è tanto la pornografia in sé, verso cui Houellebecq non ha mai mostrato particolare interesse, ritenendone buona parte della produzione scadente e assai stupida; piuttosto è la sessualità a essere in pericolo, oggi più che mai.
I film prodotti da KIRAC «potevano ispirare nei confronti della sessualità una vera e propria nausea, e forse, se li si subiva in dosi troppo ripetute, un disgusto definitivo; era in questo che risultavano assolutamente moderni.»
In questa crepa che riguarda il gusto, lo stile ma innanzitutto una filosofia delle relazioni, lo scrittore punta il dito dove gli pare di vedere il Male in azione, quello che lui chiama, per l’esattezza, “il Male moderno”.
E per specificarne la natura tira in ballo la storia dell’arte: «Se Picasso deforma le cose e soprattutto le persone imbruttendole, è perché la sua anima è brutta; ed è di questo che aveva bisogno il ventesimo secolo per iniziare veramente.»
A suo dire, il pittore spagnolo aveva privilegiato «il suo godimento di idiota itifallico, basato molto più sul male che sul sesso» e coltivato «un talento assolutamente specifico per torturare le donne» che incrociava sulla sua strada, verso le quali non si faceva il minimo scrupolo.
Il movimento KIRAC, fatte le debite proporzioni, aveva «un significato esattamente opposto a quello che pretendeva di avere. Partendo in linea di principio da un’esaltazione del fallo, sfociava nel disgusto di ogni forma normale di sessualità.»
La delusione che riaffiora costantemente in alcune considerazioni dell’autore testimonia lo scacco di un uomo molto prossimo alla disfatta, come emerge da questo frammento: «Era atroce per me pensare che l’unica traccia che sarebbe rimasta della mia vita sessuale, la parte più vivace della mia vita, sarebbe stata un coito mediocre… Mi meritavo di meglio; chiunque si merita di meglio.»
Ecco che gli animatori del collettivo, elevati a paradigma del nostro tempo, rappresentano solo la punta di «quell’immenso movimento verso l’asessualità» che «caratterizza l’inizio del ventunesimo secolo» e che sta lentamente «portando la modernità alla sua rovina per mezzo della pura e semplice estinzione demografica.»
Quante possibilità ci siano che lo scrittore vinca la causa contro KIRAC è uno degli elementi posti in chiusura del libro che lasciamo scoprire al lettore. Diciamo pure, scomodando Kafka, che ognuno di noi, in mezzo alla tempesta, dovrebbe fare sempre il possibile affinché la vergona non gli sopravviva. La forza per agire in questa direzione, spesso inaspettatamente, può venire da un amico; nel caso di Houellebecq, parliamo del grande attore Gérard Depardieu («l’unico che mi abbia pienamente compreso»). Il quale, saggiamente, dopo avergli ricordato che «la letteratura vince sempre», ed è la sola cosa che davvero rimane a fronte di un presente sempre più polverizzato dal suo stesso divenire, suggerisce di «non trascurare nulla nemmeno sul piano giuridico» e di battersi fino alla fine.
Dobbiamo rendere merito, dunque, all’amico Gérard se pure il più nichilista tra gli scrittori francesi ammetterà, infine: «Anche se non amavo più così tanto la vita, potevo concepire di amarla di nuovo».
Uno spiraglio non così disprezzabile, date le premesse.