I marziani sono morti, Marte, che un tempo era il Pianeta Rosso, divinizzato per ostilità, oggi è una zolla cosmica come un’altra, che si può studiare, analizzare, colonizzare, perfino, dicono, “tra un quarto di secolo”. Anche Marte non è un pianeta refrattario al sistema di misura umano, ormai stivato nei piani quinquennali della scoperta scientifica; che bello, invece, quando tocchiamo l’incommensurabile, lo smisurato, la meraviglia che rende muti per la nostra incapacità a gestirla.
Perseveranza non è una delle virtù cardinali, è il collante che le incardina una all’altra. “Le virtù morali crescono per mezzo dell’educazione, di atti deliberati e della perseveranza”, è scritto nel Catechismo della Chiesa cattolica. Eppure, tra perseverare ed essere tetragoni all’ambizione, tra perseveranza e cieca ostinazione, latitanza dall’invisibile, lo spazio è breve. “Perseverance”, il robot mobile della Nasa, il rover, che setaccia “tracce di vita passata”, è il taglierino che disseziona l’armatura degli dèi, ennesima, faustiana deviazione dall’interdetto: più conosciamo, meno immaginiamo; quel rover è il caterpillar che spiana la nostra fantasia. Chi può dire ancora “marziano”, evocando il racconto di Wells, La guerra dei mondi, senza farsi ridere dietro, rifiuto di un’era storpia in cui aprire un libro era esercizio di magia bianca, sortilegio non privo di rischi:
“Alla fine del Diciannovesimo secolo nessuno avrebbe creduto che le cose della Terra fossero acutamente e attentamente osservate da intelligenze superiori a quelle degli uomini e tuttavia, come queste, mortali; che l’umanità intenta alle proprie faccende venisse scrutata e studiata, quasi forse con la stessa minuzia con cui un uomo potrebbe scrutare al microscopio le creature effimere che brulicano e si moltiplicano in una goccia d’acqua”.
Ma se siamo noi, umanoidi faustiani, a sarchiare Marte, a invadere la sua sacra orbita, come farà il pianeta ad agire sui nostri futili destini? Marte, il Rosso, il pianeta della virilità e dell’aggressione, dell’amore che flirta con la morte, del sangue che rigenera: altro che perseveranza, quel cranio rubino è l’estasi dell’impazienza, l’etica dell’inquietudine e di una fame miliare, la fase terminale del processo alchemico, in cui tutto si distrugge nel sublime per accedere alla grande mutazione. “Dissecca e arde le cose”, scrive Dante, che nel cielo di Marte installa gli spiriti che hanno militato nella fede fino alla morte, Cacciaguida, Carlo Magno, Giosuè, Goffredo di Buglione… Marte, così, è l’attributo violento di Cristo – o con me o contro di me –, Leone della tribù di Giuda, la rabbia stemperata in coraggio, la certezza di perdere tutto per conquistare se stessi, la speranza nel centro del massacro. Che andiamo a fare su Marte? A irritare il suo ceffo luciferino? A rubare l’elisir della virilità? Su Marte non si plana per placidi progetti umanitari, per il gusto corsaro dei viaggi interstellari: si va a scavare, a scovare, a fare la guerra.
Da decenni flirtiamo con Marte: Galileo gli ha puntato il cannocchiale addosso nel 1609, la Mariner 4 ha lambito il pianeta nel 1964; sovietici e americani hanno gettato i primi aggeggi negli anni Settanta. Passati dal regno dell’insondabile a quello delle sonde, ora assistiamo all’ultima fase dell’accessibilità pubblica all’inaccessibile: la nuova missione su Marte della Nasa, superficialmente, è una specie di cosmico ‘reality’ da seguire ‘in diretta’. La missione si può vedere passo per passo, i dati vengono snocciolati di continuo, puoi fotografare la tua ombra su Marte: anche se l’uomo non l’ha ancora colonizzato, il pianeta erutta gadget, di già, un putiferio di peluche, di cartoline, di desideri telecomandati. Nella sezione “Meet the Martians”, poi, vediamo i volti di chi ha partecipato all’allestimento di “Perseverance”: tutti giovani – o quasi –, di diversa origine – americano, afro, sino, ispano –, alcuni belli, indifferentemente sorridenti. Viene da pensare che le biografie di questi ‘marziani’ siano fasulle, maculate nell’ovvio, dacché l’eccesso essoterico cela, è inevitabile, l’assoluto esoterico. Mi mostri tutto, per nascondermi l’autentico. In ogni caso, ecco, è il funerale del mistero, del viaggio cosmico come avvento di una anarchica pirateria stellare: dov’è il Santo dei Santi?, lo spazio, intendo, ancora velato, chiuso ai troppi, alcova per i pochi, frammentato di ombre, che permette soltanto di essere intravisto, dunque immaginato, perché fecondi i nostri sogni… La virilità di Marte è frutto dell’immaginario: atterrare su Marte è una castrazione, riporre il sortilegio nella norma, l’instabile nei ranghi della cifra (non del numero, che per effetto pitagorico amplia il recondito).
Come siamo sciocchi: vedendo una cosa, descrivendola fin nelle intimità, la rendiamo distante, definitiva nella sua urbana concretezza, priva di aura, di destino e di desiderio. Il visibile ci aliena dal visionario, il visivo dalla visione, per questo i video marziani della Nasa sono meno efficaci, meno marziali delle Cronache marziane di Ray Bradbury, che dal 1950 immaginava la colonizzazione nel 1999 – “Avevano una casa a colonne di cristallo sul pianeta Marte ai margini di un mare vuoto, e ogni mattina si poteva vedere la signora K mangiare i frutti d’oro che crescevano sulle pareti di cristallo o ripulire la casa con manate di polvere magnetica…” – e il ribaltamento di ogni genealogia (“Erano là, i marziani”, pensano gli uomini, guardandosi tra le acque di Marte, nell’agnizione dell’ultimo racconto, datata 2026). “È una bella cosa riscoprire la meraviglia. L’astronautica ci ha fatto tornare tutti bambini”, scriveva Bradbury, ingordo di idee, avido di prendere a morsi i nuovi mondi dell’immaginazione. Il bambino, però, è cresciuto in scaltrezza, la meraviglia si è voltata nell’ode delle sorti progressive, perfino grottesche, in proclami pubblici di vittoria equina.
“Tutte le imprese spaziali, con o senza partecipazione umana, alle quali abbiamo assistito e assisteremo, sono volgarità pura, prodigi di arte demoniaca senza sapienza, illusionismo di Stato per alte vertigini, un pugno di calcoli incredibilmente esatti e una spaventosa povertà di mente, una nullità che terrifica. Basta ascoltare uomini di scienza, tecnici, cavie umane, statisti, scrittori, le loro colature di stupidità”.
Questo, con lucidità a lame, è Guido Ceronetti, in un articolo radiosamente oscuro, Intatta Luna, pubblicato su “Belfagor” nel 1970. Le gite spaziali architettate da poliaziende con interessi non proprio geografici ci alienano dal cosmo, dal simbolo. Proprio perché Marte non ha con noi terrestri più alcun rapporto osiamo sarchiarlo, ardire la conquista; una volta, offendere un suo emissario sulla Terra era punito con la morte. “A Roma si riteneva che il picchio, uccello di Marte, non potesse essere ucciso se non dal re o dal suo successore rituale sotto la Repubblica, e solo una volta all’anno, come sacrificio espiatorio. In una società meno primitiva, per aver ucciso un uccello sacro protetto un uomo sarebbe stato condannato a morte” (Robert Graves). Oh, certo, andiamo su Marte!, ma se alziamo gli occhi al cielo non sappiamo districare il magma stellare, non conosciamo i nomi delle costellazioni, i miti che reggono quel gioco, il vanto. Conquistiamo il cosmo, e siamo sempre più soli.