Uno strano Consiglio dell’UE si è tenuto pochi giorni fa in una Budapest uggiosa. La riunione informale dei ministri dell’economia (ECOFIN) ha visto solo una manciata di presenti, poiché la politica interna e soprattutto estera dei padroni di casa non piace. Il Consiglio ha discusso una tema che appassiona il governo di Fidesz ed è tipicamente assente dai dibattiti europei: la demografia. L’Europa invecchia e rischia di spopolarsi. I bilanci degli Stati membri sono e saranno sempre più aggrediti da enormi richieste di spese pensionistiche e di supporto regionale, mentre saranno sempre meno i lavoratori in grado di sostenerle. Il Ministro Giancarlo Giorgetti, rappresentante l’Italia, ha sollecitato una risposta di livello europeo per fronteggiare il problema. In particolare ha auspicato che il tema demografico diventi centrale nel dibattito europeo e che la Commissione Europea consideri di giocare un ruolo nella sua soluzione. Questa invocazione è assolutamente insolita, in quanto gli stati membri hanno sempre custodito gelosamente dalla Commissione le politiche di welfare. Eppure, fa notare il Ministro stesso, il PNRR include misure per potenziare gli asili nido italiani. Le idee ed i principi comunemente condivisi in Europa e che guidavano le politiche di Bruxelles stanno cambiando in questi turbolenti anni Venti, e la gestione comune del welfare potrebbe non essere più un tabù.
Durante la riunione del Consiglio l’influente think-tank europeo Bruegel è stato invitato a presentare, dati alla mano, il problema demografico europeo, particolarmente grave ad est. L’Europa perderà decine di milioni di persone in età lavorativa, concentrate soprattutto nei paesi baltici, orientali e mediterranei. La soluzione innovativa che è stata indicata è il coordinamento delle politiche a livello europeo. Ovvero, la Commissione dovrebbe includere tra i suoi criteri di controllo e guida agli stati membri anche natalità e immigrazione. Le dichiarazioni successive del ministro italiano hanno ricalcato, seppur prudentemente, questa idea.
Chiaramente la Commissione e Bruegel sono convinti che la soluzione sia Bruxelles – è il loro mestiere. Purtroppo però l’integrazione ha avuto un ruolo centrale nel causare il problema. Ora, la vasta diminuzione delle nascite ed allungamento delle aspettative di vita hanno a che fare solo indirettamente con le politiche dell’Unione, tanto è vero che gli stessi fenomeni caratterizzano luoghi lontani quanto Russia e Corea del Sud. L’immigrazione extra-comunitaria, altro fenomeno cruciale, si è inesorabilmente concentrata su pochi Stati settentrionali a causa delle perduranti differenze economiche e sociali nel Continente. Una terza colonna portante della questione demografica invece è dipesa dalla politica europea successiva al liberatorio 1989, trattati dell’UE inclusi: milioni di persone si sono spostate dal mondo mediterraneo ed ex-comunista verso nord e ovest grazie a condizioni politiche e giuridiche favorevoli. Accordo dopo accordo le chiuse delle dighe frontaliere si sono aperte, permettendo alla forza di gravità economica di muovere una variegata e numerosa moltitudine. La diaspora ha rafforzato nel complesso l’economia comunitaria associando domanda ed offerta di menti e braccia; d’altro canto intere regioni e persino stati hanno perso la loro linfa vitale. Oggi Polonia o Lettonia crescono economicamente, ma il loro domani è incerto. Le idee fondanti dell’Unione hanno contribuito a causare il problema, ma fare uso della parola colpa sarebbe ingiusto. Basti ricordare che le condizioni di vita nell’est post-sovietico erano difficili, e che grazie all’emigrazione un oceano di gioventù ha guadagnato il diritto ad una vita migliore. L’apertura e la libertà dovevano però essere accompagnate da una governance efficace che accompagnasse i cambiamenti in corso e salvasse preziose istituzioni ed equilibri dall’essere svuotati. Essa è spesso mancata, ed è ora che giunga. I nodi vengono al pettine, ovvero il welfare europeo rischia di sbriciolarsi o di fagocitare il resto della politica. Se la sfida è di proporzione continentale così deve essere la soluzione: a Bruxelles sono in piedi rodati centri di coordinamento politici che possono giocare un ruolo.
Che l’integrazione europea possa condurre a problemi sociali importanti è assodato. Un esempio di problema e soluzione europei è la politica di coesione, un sistema di trasferimento finanziario dagli stati membri benestanti alle entità politiche più bisognose e desiderose tramite le istituzioni dell’UE. Fu istituita appositamente per supportare quelle regioni sfavorite dall’allargarsi dei mercati e delle rotte umane in quanto economicamente “arretrate” o fragili. La politica di coesione ha sortito effetti positivi, si veda il caos polacco, dove il paese si è dotato di infrastrutture fondamentali mantenendo bilanci sostenibili. Purtroppo non tutti gli stati membri hanno colto le opportunità della politica di coesione. L’Italia è maestra nel fare poco uso dei fondi annualmente disponibili e interamente a causa di una verità brutale: taluni territori sono periferici e restano tali a causa non del determinismo geografico o di soprusi storici, bensì della difficoltà ad esprimere una politica, amministrazione ed imprenditoria efficienti. Si può creare un sistema centralizzato perfetto, ma i suoi arti devono essere ricettivi. La situazione italiana è paradossale se si considera che seppur sbuffando il PNRR avanza e nel frattempo i fondi di coesione tornano perlopiù al mittente. Ciò che si può evincere dalla politica di coesione è che il sistema UE può coordinare con successo politiche complesse, costose e delicate se supportato politicamente ed amministrativamente dai suoi stati membri. La Commissione pare essere pronta ad assumersi un ruolo di rilievo nella questione delicatissima dello spopolamento, poiché le sue pubblicazioni e dichiarazioni (prima delle elezioni) hanno puntato in questa direzione. Detto ciò la Commissione è perennemente a caccia di nuove competenze, opportunistica e flessibile, e perciò non bisogna sorprendersi che cerci di cogliere una opportunità. La chiave è in mano alle 27 capitali. Se Bulgaria, Spagna ed altri non hanno saputo fermare il loro doloroso brain drain con il vasto ventaglio di risorse e poteri a loro disposizione allora la coordinazione europea da sé non potrà condurre a molto.
Mantenendosi su di un punto di vista pragmatico le parole di Giorgetti non indicano una prospettiva realistica o funzionale. Nulla toglie però al forte peso politico delle sue dichiarazioni, in quanto additano e rimarcano il problema alla base. Parlare di invecchiamento e decrescita demografica in Europa meridionale ed orientale a livello istituzionale ed ufficiale significa costruire e rafforzare una leva negoziale nei confronti di quegli Stati membri che dall’integrazione hanno ricevuto quasi esclusivamente vantaggi. Una forte indicazione che questo fosse il punto si riscontra nel contesto di svolgimento dell’ECOFIN, ospitato dall’Ungheria di Orbán. L’Ungheria ha da anni strutturato la sua intera politica estera sulla contrapposizione con Bruxelles. Non è solo una questione di politica interna, ovvero di foraggiare il nazionalismo magiaro. Contestando valori, istituzioni e politiche di lunga data e comuni nello spazio UE il governo ungherese acquisisce voce e spazio – che sia con proclami anti-LGBT o posizioni ambigue sulla guerra Russo-Ucraina. Portare l’attenzione allo spopolamento è coerente con la strategia del bastian contrario. Nel programma della presidenza semestrale ungherese il problema demografico è sollevato con chiarezza, sottolineando comunque il rispetto per la sovranità degli stati membri – del resto questo è un fondamentale della azione internazionale ungherese. La Commissione, la presentazione di Bruegel e l’Italia seguono l’Ungheria nel rimarcare il problema (o l’Ungheria se ne fa portavoce?) ma si sono espresse a favore di una diversa forma, ovvero della parziale europeizzazione delle politiche esplicitamente demografiche. Se però realizzare un coordinamento politico tramite Bruxelles non conduce con certezza a migliorare la situazione economica italiana allora bisogna collocare diversamente le parole di Giorgetti. Il governo italiano potrebbe star coltivando un capitale politico da investire per ottenere risultati in altri dossier o per giocare il ruolo di mediatore tra le due Europe. Roma è economicamente a cavallo tra centro e periferia, essendo fonte di emigrazione e polo d’immigrazione nonché al contempo economicamente benestante e fragile. L’attuale governo italiano conseguentemente si posiziona e definisce spesso tra gli scontenti della compagine europea, per poi però pretendere un ruolo di rilievo vicino a Francia e Germania. Si potrebbe dire che sia una vecchia storia: ultimi tra i primi, primi tra gli ultimi. Essere coscienti della propria posizione mediana tra Europa-centro ed Europa-periferia e farne discendere delle scelte politiche non è però un vizio, anzi. Ogni occasione politica è utile per realizzare una strategia politica interconnessa.
Non ci si può crogiolare in interpretazioni ottimistiche o possibiliste della partecipazione italiana all’ECOFIN di Budapest. Quando il gioco politico si fa duro ed ogni scelta causa gravi scontenti elettorali, soprattutto in tema di bilancio, la classe dirigente italiana ha spesso risposto appellandosi indefinitamente all’Europa come soluzione generica (o, in altre circostanze, come capro espiatorio di ogni male). Come scordarsi che il problema dello spopolamento rurale o dell’emigrazione sia conosciuto ed osservato da decenni e che Roma non sia riuscita a far molto per fermarlo? Si risponde che non ci sono risposte, che ad esempio la Francia potrebbe ridursi a necessitare il debito pubblico europeo per conservare il suo straordinario welfare. Si ricordi però che il debito italiano si faceva insostenibile negli anni Ottanta e poi Duemila non per cause politicamente nobili, ma per oliare una economia corrotta e una politica cleptocratica. I partiti dell’attuale governo sottolineano costantemente l’importanza delle politiche pubbliche per sostenere la natalità, fermare l’emigrazione, attrarre gli espatriati e rafforzare economicamente le aree rurali del sud e dell’Appennino; al netto di un esame delle intenzioni e delle possibilità però risultati sono e probabilmente resteranno limitati. Parlare di europeizzare queste politiche allora acquista un valore retorico, scaricando la responsabilità e preparando la vittimizzazione delle istituzioni italiane. Il prossimo futuro vedrà conflitti duri sulle priorità di spesa, tra straordinarie necessità per il futuro e soddisfazione della maggiore coorte italiana; bisogna augurarsi che la ricerca di soluzioni non diventi preda di mere narrative di distrazione di massa.