La caduta delle roccaforti fisiche dello Stato Islamico ha rappresentato per l’immaginario occidentale una cesura definitiva, la chiusura di un capitolo apocalittico. Tuttavia, questo tentativo di apporre precocemente un punto alla vicenda Daesh si rivela viziato da un errore fondamentale: la confusione tra forma politica e sostanza operativa.
Lo Stato Islamico, nella sua fase post-califfale, ha abbracciato una nuova dottrina fondata sullo sviluppo di reti invisibili, parallele e sotterranee. Mentre le antiche capitali di Raqqa e Mosul giacciono sotto la sorveglianza occidentale, ridotte a simboli di un potere ormai evaporato, l’organizzazione ha completato la sua trasformazione in quello che potremmo definire un “soggetto nomade” del terrore: deterritorializzato ma non per questo meno efficace, anzi, paradossalmente potenziato dalla propria invisibilità. Il paradigma della decapitazione – la logica della lotta al terrore che vede nell’eliminazione dei vertici la soluzione al fenomeno jihadista – si rivela non solo inefficace ma controproducente. Ogni operazione mirata contro i quadri dirigenti, come quella recente che ha colpito un alto funzionario dell’organizzazione, non fa che alimentare il ciclo rigenerativo di una struttura che ha fatto della propria molecolarità la chiave della sopravvivenza. È la realizzazione pratica del modello dell’idra mitologica: per ogni testa recisa, due nuove emergono, spesso in luoghi geograficamente e concettualmente lontani dal teatro originario del conflitto.
Se il Levante rappresenta oggi il passato di Daesh, l’Africa ne costituisce il futuro strategico. Questa transizione non è casuale ma risponde a una logica precisa: sfruttare i vuoti di sovranità, le fratture statali e le crisi di legittimità che attraversano il continente per costruire una nuova base operativa globale. I dossier di intelligence più recenti rivelano un’architettura operativa di impressionante complessità. La rete di reclutamento si estende dal Corno d’Africa fino alle propaggini meridionali del continente, con hub logistici che operano tra Sudafrica, Mozambico e Zambia. Questa geografia del terrore sfrutta le rotte commerciali tradizionali, le diaspore religiose e le fratture socioeconomiche per tessere una tela che sfugge ai controlli convenzionali. Al centro di questo sistema si trova il cosiddetto “Ufficio Al-Karrar”, una struttura finanziaria che dalle zone grigie della Somalia amministra i flussi economici globali della jihad. Si tratta di una vera e propria banca d’investimento del terrore, capace di allocare risorse con una precisione che farebbe invidia a molte multinazionali. Nonostante i tentativi americani di interdire questi canali, Al-Karrar continua a funzionare come una pompa cardiaca del sistema, dimostrando una resilienza che testimonia il livello di sofisticazione raggiunto dall’organizzazione. Il caso più emblematico di questa efficienza è il sostegno alla branca afghana di Daesh, che l’ultimo rapporto ONU definisce “la più seria minaccia regionale e internazionale”. Un giudizio che assume un significato particolare se pronunciato nel contesto di un Afghanistan governato dai Talebani e frequentato da Al-Qaeda: significa che lo Stato Islamico è riuscito a ritagliarsi uno spazio di supremazia operativa anche in un ambiente saturo di attori jihadisti concorrenti.
Lo Stato Islamico africano ha superato la fase primitiva dell’attentato spettacolare per abbracciare una strategia di lungo termine definibile come “insurrezione amministrativa”. Oltre a colpire simbolicamente il nemico, si propone di sostituirsi gradualmente alle strutture statali fallite, offrendo servizi, giustizia e ordine là dove lo stato è assente o delegittimato. Questa evoluzione rappresenta una metamorfosi operativa rispetto al modello classico del terrorismo internazionale. Lo Stato Islamico non opera più come un gruppo clandestino che cerca di destabilizzare l’ordine costituito, ma come una proto-entità statale in espansione che compete direttamente con le autorità locali per la legittimità e il controllo territoriale. È una forma ibrida di potere che combina la fluidità del network terroristico con l’ambizione amministrativa dello stato-nazione.
Nel Sahel, questa strategia si è dimostrata particolarmente efficace. La ritirata delle potenze occidentali – prima gli Stati Uniti, poi soprattutto la Francia – ha creato un vuoto di potere che la Russia ha tentato di colmare attraverso la delega alle forze mercenarie del Gruppo Wagner. Tuttavia, l’intervento russo si è rivelato un fallimento strategico: la distrazione ucraina e la sovraestensione delle strutture amministrative russe, incapaci di sorvegliare l’operatività delle forze sul campo si sono tradotte in un’incapacità di rafforzare la legittimità dei governi militari locali, aprendo spazi inediti per l’espansione jihadista.
La metamorfosi africana di Daesh non può leggersi come un fenomeno regionale confinato alle periferie del mondo. La prossimità geografica del continente africano all’Europa, combinata con l’intensificazione dei flussi migratori attraverso il Mediterraneo, trasforma la questione jihadista africana in una minaccia diretta alla sicurezza continentale. Lo Stato Islamico ha già dimostrato in passato la sua capacità di infiltrare operativi attraverso i canali dell’immigrazione clandestina, trasformando una tragedia umanitaria in un’arma asimmetrica. Gli attacchi che hanno insanguinato l’Europa tra il 2015 e il 2017 erano in gran parte orchestrati dalla centrale operativa di Raqqa, che sfruttava le rotte balcaniche per infiltrare i propri uomini. La campagna terroristica del 2023-2024, che ha raggiunto per la prima volta anche il territorio americano con attacchi significativi, era invece coordinata prevalentemente dalla branca afghana dell’organizzazione. Questa diversificazione geografica delle centrali operative attesta la maturazione strategica di Daesh, che ha imparato a non dipendere da un unico centro di comando ma a orchestrare le proprie operazioni attraverso una rete policentrica e ridondante. Oggi l’infrastruttura africana dello Stato Islamico rappresenta l’opzione logisticamente più promettente per future operazioni contro l’Europa. La vicinanza geografica, la crescente sofisticazione operativa e l’integrazione con le rotte migratorie tradizionali creano le condizioni ideali per una nuova stagione di attacchi sul suolo europeo.
La conferma di questa traiettoria strategica è arrivata attraverso le pagine di Al-Naba, il bollettino settimanale che funge da organo ufficiale e bussola ideologica di Daesh. Si tratta di un documento strategico che riflette le priorità operative dell’organizzazione e anticipa le sue mosse future. In una recente edizione, Al-Naba non si è limitata a celebrare i successi della guerra contro i cristiani africani, ma ha lanciato un appello esplicito all’estensione di quel fronte fino al cuore dell’Europa. Il linguaggio utilizzato è quello della dichiarazione di guerra, non della minaccia terroristica. Daesh si presenta non come un gruppo clandestino che colpisce dall’ombra, ma come un soggetto politico legittimo che rivendica il diritto di estendere le proprie operazioni militari oltre i confini africani. È un mutamento semantico che riflette la metamorfosi ontologica dell’organizzazione: dopo anni di reti sotterranee, i miliziani dell’ISIS sono sufficientemente galvanizzati da tornare a parlare di sé come uno Stato, come ai tempi del califfato di Raqqa.
L’errore strategico più grave che si può commettere nella nuova lotta al terrore è quello di ripetere l’operazione siriana concentrandosi sui nodi regionali in vista, trascurando la strategia di radicamento parassitario adottata da Daesh. Una strategia volta a creare uno “Stato parallelo” in competizione lì dove lo Stato reale non riesce ad estendersi, tattica che in Italia non è poi così sconosciuta.