OGGETTO: La natalità come ideologia
DATA: 23 Ottobre 2025
SEZIONE: Società
FORMATO: Analisi
AREA: Italia
Dalla biopolitica della razza ai bonus del consenso: il potere continua a misurare la vita come variabile economica e simbolica, trasformando la maternità in dispositivo di appartenenza più che di generazione. Il calo delle nascite non è una crisi demografica, ma una crisi d’immaginazione: abbiamo moltiplicato i modi di sopravvivere, dimenticando il significato del nascere.
VIVI NASCOSTO. ENTRA NEL NUCLEO OPERATIVO
Per leggere via mail il Dispaccio in formato PDF
Per ricevere a casa i libri in formato cartaceo della collana editoriale Dissipatio
Per partecipare di persona (o in streaming) agli incontri 'i martedì di Dissipatio'

Perché abbiamo bisogno che gli italiani facciano più figli? Per salvare i conti pubblici o per salvare loro stessi? La retorica della natalità che accompagna ogni intervento governativo negli ultimi anni si muove costantemente su questa ambiguità, oscillando tra ansia economica e nostalgia identitaria. Si parla di culle vuote come di un’emergenza nazionale, ma dietro la superficie statistica si nasconde un progetto simbolico: quello di un Paese che misura la propria vitalità non sulla qualità della vita dei suoi cittadini, ma sulla loro capacità di riprodursi secondo un modello considerato “proprio”. L’ossessione per la natalità non è mai neutra, perché presuppone un’idea precisa di chi debba nascere e per quale scopo. Nel discorso politico italiano, soprattutto nella stagione del governo Meloni, la questione demografica diventa un campo di battaglia in cui si intrecciano l’economia e la biologia, la previdenza e la purezza. Si invoca la necessità di fare figli come se fosse un dovere patriottico, ma si evita accuratamente di dire che tipo di società si vuole costruire per quei figli. In questo modo la natalità diventa ideologia: un principio che pretende di salvare la nazione mentre ne irrigidisce le paure.

Se il problema fosse davvero la mancanza di lavoratori, la soluzione non sarebbe spingere gli italiani a fare più figli, ma rendere più facile per chi già vive e lavora in Italia sentirsi parte di questo Paese. Basterebbe semplificare l’iter di cittadinanza, permettere a chi contribuisce al sistema produttivo di mettere radici qui, di far crescere i propri figli nella stessa scuola dei coetanei italiani, di immaginare un futuro comune. Invece lo Stato preferisce incentivare la nascita di nuovi italiani piuttosto che riconoscere quelli che già lo sono di fatto, ma non di diritto. È il paradosso di un Paese che vuole figli ma non cittadini: natalità sì, mescolanza no. Se la natalità fosse davvero una questione economica, la politica dovrebbe occuparsi di redditi, case, servizi, e non di DNA. Ma la logica che guida queste campagne non è economica, bensì simbolica: difendere un’idea di italianità biologica, ereditata e non scelta. Così la cittadinanza resta un premio, non un diritto; la vita che si genera vale solo se riproduce l’immagine di chi già detiene il potere di definirla.

La paura che muove la politica della natalità non è demografica ma identitaria. Non si teme l’estinzione della specie umana, ma quella del tipo umano che si considera legittimo. La retorica del “siamo troppo pochi italiani” riprende, in forma rovesciata, l’ideologia del “siamo troppi” sostenuta dal Club di Roma negli anni Sessanta e Settanta: la stessa logica biopolitica che pretende di regolare la vita, stabilendo di volta in volta chi debba riprodursi e in quale misura, per mantenere un presunto equilibrio tra popolazione e potere. Allora si volevano meno poveri, oggi si vogliono più italiani; in entrambi i casi si scambia la giustizia con la quantità. L’errore è identico: credere che il problema del mondo sia il numero dei corpi, non la sproporzione dei consumi. Non siamo troppi, ma troppo diseguali. I poveri non inquinano, subiscono l’inquinamento dei ricchi. Eppure la politica insiste nel curare le cifre invece delle cause, trasformando la vita in un indicatore da manipolare. È in questo contesto che la retorica identitaria si salda con quella produttivista: la difesa della razza si traveste da difesa dell’economia. Non importa come viviamo, ma quanti ne nascono, e possibilmente di quale sangue.

Dopo aver rivendicato il potere di decidere chi debba nascere, lo Stato si arroga ora quello di pagare perché si nasca. La biopolitica si traveste da politica sociale, ma resta la stessa forma di controllo: trasformare la vita in una variabile economica. Ma in che modo un bonus può convincere una donna a mettere al mondo un figlio? La politica della natalità continua a ragionare in termini di incentivo economico, come se la maternità fosse una scelta d’investimento. Ma chi decide di avere un figlio oggi non risponde a logiche di convenienza: sa che nessun assegno compenserà la precarietà, la solitudine o la mancanza di servizi. I bonus parlano la lingua dei contabili a chi ormai vive in un’economia dell’anima. A fare più figli non sono le donne più incentivate, ma le più povere, quelle per cui la maternità resta l’unica forma di identità possibile o di riscatto simbolico. Nelle società ricche, invece, la maternità è diventata una decisione di sopravvivenza culturale: non un gesto vitale, ma un atto attraverso cui le donne tentano di restare visibili, riconosciute, amate. Per questo i bonus non servono: non correggono la crisi materiale, né quella di senso. La maternità occidentale non risponde più alla fame ma al vuoto; non produce vita, ma legittimità.

Nelle società dove la nascita non è più una necessità biologica ma una scelta simbolica, la maternità si è trasformata in un dispositivo di riconoscimento. Non basta mettere al mondo un figlio: bisogna dimostrare di saperlo fare nel modo giusto, secondo codici che coincidono sempre più con quelli del consumo e della rappresentazione. La madre è chiamata a esibire la propria dedizione come forma di competenza, a compensare l’insicurezza del ruolo con cura performativa, esposizione, acquisto. Meno figli si fanno, più ciascuno di essi diventa centro di investimento e di spesa: economica, emotiva, simbolica. Il figlio smette di essere atto vitale e diventa unità di valore, misura di accettabilità sociale.

In questo contesto, il paradosso più spiazzante è che in Italia per la natalità, ha fatto più Chiara Ferragni che Giorgia Meloni. Non per i bonus o per le leggi, ma per la potenza di un immaginario culturale capace di rendere desiderabile – e condivisibile – l’esperienza della maternità molto più di qualsiasi decreto governativo. La sua figura è stata oggetto di studi che la analizzano come esempio di digital brand-mom activism: madre influencer capace di integrare la genitorialità nella propria identità pubblica. D’altra parte, il successo dei brand dedicati all’infanzia, di cui il suo è solo un caso tra molti, rivela la logica dominante: per sentirsi davvero all’altezza non basta essere madri, bisogna essere madri di figli cool.

Ma questa rappresentazione, tanto seducente quanto totalizzante, mostra già le proprie crepe. Cresce il numero di donne che raccontano la fatica e la disillusione di una maternità ridotta a prestazione continua, fino al punto di pentirsene. Non del figlio, ma del modello che le ha costrette a fare della maternità una carriera a tempo pieno, un investimento economico e affettivo senza margine d’errore. È la forma più sincera del disagio contemporaneo: la maternità promessa come compimento e vissuta come esaurimento.

Nel mondo occidentale la maternità appare sempre più come un investimento a rendimento negativo: economico, sociale, simbolico. L’emancipazione che avrebbe dovuto liberare le donne dal dovere biologico della maternità le ha consegnate a un nuovo tipo di vincolo, quello della performance. Meno figli si fanno, più la loro assenza deve essere compensata da surrogati di vita: relazioni liquide, esperienze sostitutive, consumo affettivo. Si cerca nel mercato ciò che un tempo veniva dalla nascita: riconoscimento, appartenenza, continuità. È il paradosso di un’epoca che produce infiniti sostituti della vita ma fatica a generare vita stessa. La maternità, un tempo atto naturale e poi dovere sociale, è diventata ora un lusso emotivo o un gesto di autoaffermazione. Nascono meno figli, ma più prodotti destinati a simulare la vitalità: dalla cura estetica all’intrattenimento motivazionale, dall’influencer parentale al fitness spirituale. La vita non è più fine, ma mezzo di rappresentazione. Il ciclo si chiude dove era iniziato: la natalità non come bisogno, ma come segno.

Il problema non è il numero delle nascite, ma l’immaginario del nascere. La vita è stata convertita in dato contabile, in parametro economico o in segno identitario: un mezzo per sostenere i bilanci o per rassicurare la nazione. Si discute di natalità come di una variabile da ottimizzare, non come di un’esperienza da comprendere. La retorica politica misura la vita in termini di costo o di sostegno, ma non ne considera più il senso. Eppure, il valore della vita non risiede nella sua quantità, bensì nella sua qualità simbolica, nel modo in cui ciascuna esistenza contribuisce a rendere abitabile il mondo. La crisi demografica è prima di tutto una crisi di immaginazione: abbiamo moltiplicato i modi di sopravvivere, ma dimenticato il significato del nascere. Finché la vita resterà un indice di produzione o di appartenenza, nessuna politica della natalità potrà davvero invertire la tendenza. Perché il problema non è quanti ne nascono, ma quale mondo trovano ad accoglierli.

I più letti

Per approfondire

«Credo ci si trovi nel bel mezzo di una svolta epocale, per motivi che esulano dalla politica.» Gaetano Quagliariello e l'eterno moto italiano

«Dal punto di vista culturale mi sento fino in fondo un liberale “anglofono”. Nel senso che ritengo il liberalismo anglosassone non solo diverso ma, per molti versi, persino contrapposto a quello continentale.»

Algeri chiama Mattei

L'elemento caratterizzante delle relazioni italo-algerine è l'equilibrismo fra le ambizioni imperialistiche francesi e la necessità di trovare una "quarta sponda" maghrebina.

Thomas Ligotti è un profeta dell’apocalisse

L’estinzione come redenzione dell’umanità. Per farla finita con noi stessi.

La repressione democratica

Gli ordini liberali contemporanei esercitano un controllo che va avvicinandosi a quello degli ordini autoritari. La via è segnata e nessun rimedio sarà sufficiente.

Fame di mito

Nella crisi attraversata dagli ordini democratici sempre più spesso al cittadino comune viene a mancare il radicamento in un sistema di simboli condiviso: alle istituzioni e ai leader riesce impossibile costruire repertori di immagini forti che facciano da collante sociale. Urge che la politica si accompagni alla costruzione di miti condivisi per contrastare la sua perdita di credibilità.

Gruppo MAGOG