La messa in scena di questo dramma, la cui mole occuperebbe, secondo misure terrestri, circa dieci serate, è concepita per un teatro di Marte. I frequentatori dei teatri di questo mondo non saprebbero reggervi. Perché è sangue del loro sangue e sostanza della sostanza di quegli anni irreali, inconcepibili, irraggiungibili da qualsiasi vigile intelletto, inaccessibili a qualsiasi ricordo e conservati soltanto in un sogno cruento, di quegli anni in cui personaggi da operetta recitarono la tragedia dell’umanità.
Più della marxiana trasformazione della tragedia in farsa, il tragico e il comico si trovano, in percentuali variabili, dentro ogni evento della storia: i nostri, quelli moderni, tendono fortemente al ridicolo. Difficile prendere davvero sul serio le democrazie liberali, che sono antiepiche per vocazione e perciò, per ristrettezza semantica, resistenti alle narrative autoritarie – Blut und Boden, Deus vult e così via. Difficile, anche, riconoscere il morbido, silenzioso autoritarismo delle democrazie, che non si irradia dal centro alla periferia attraverso la polizia segreta, ma sussiste in cloud, parcellizzato fra la gente, mimetizzato. Matteo Salvini, l’uomo politico più ingenuamente autoritario in Italia, spaccia la storiella del buon senso; oltre lui e la sua destra, per trovare il fascio nascosto bisogna brandire la torcia di Hannah Arendt:
L’estraniazione non è solitudine. La solitudine richiede che si sia soli, mentre l’estraniazione si fa sentire sempre più acutamente in compagnia di altri. […] Quel che rende l’estraniazione così insopportabile è la perdita del proprio io […]. È l’intima coercizione, il cui unico contenuto consiste nell’evitare rigorosamente le contraddizioni che sembrano confermare l’identità di uomo al di fuori di ogni rapporto con altri. […] Distruggendo ogni spazio fra gli individui, comprimendoli l’uno contro l’altro, si annientano anche le potenzialità creative dell’isolamento.
Se il totalitarismo di cui parla Arendt è un fenomeno politico peculiare rispetto alla tirannide precedente, nella democrazia si realizza un totalitarismo senza terrore e senza forma. C’è una contrapposizione netta fra la fabula lineare della democrazia, che è proprio l’operetta spalmata sopra la tragedia, e il rumore metallico degli ingranaggi sociali, invisibili dall’esterno. È cambiata la tecnologia del potere: alle vecchie società autoritarie, scrive Deleuze, corrispondono macchine semplici, leve, orologi; la società di controllo assomiglia al computer per l’enormità di dati che gestisce, cataloga, ammassa, riduce a statistica. Il processo sociostorico è ovvio: dall’oppressione diretta alle istituzioni disciplinari – famiglia, scuola, fabbrica, galera – e infine alla disciplina per via aerea, senza luoghi, che insegue l’individuo e ovunque lo rende una folla, lo comprime agli altri. Il paradosso, contro cui si infrange il sogno individualista dei liberali, è che le moderne società di massa non potrebbero funzionare se fossero oneste: devono, invece, mettere in scena la libertà e tenere in moto meccanismi complessi perché non venga esercitata. Le tecniche, ricorda Ellul, richiedono prevedibilità e dunque “nessuna tecnica è possibile dove gli uomini sono liberi”.
Allora, i meccanismi repressivi delle democrazie si nascondono dietro due storie, apparentemente contrapposte ma complementari: una è l’interesse sociale e l’altra la difesa dell’individuo. Due narrazioni che si incontrano nella “hybris del punto-zero”, per usare le parole di Santiago Castro-Gomez, tipiche degli studi postcoloniali. In effetti, è l’ottica giusta per decifrare il fenomeno: le democrazie occidentali realizzano una sorta di colonialismo interno, diretto a soffocare i nuclei epistemici alternativi a una verità che si presenta come centro neutrale. Cinzia Sciuto, l’autrice di un Manifesto laico contro il multiculturalismo, nella sua intervista a Rai Cultura rivela, senza volerlo, l’immagine perfetta di questa hybris: la politica culturale delle democrazie occidentali, ci dice, deve avere come fine l’autodeterminazione dell’individuo rispetto alle proprie origini. Facile smascherare il meccanismo: l’individuo inteso come punto-zero è, necessariamente, l’uomo occidentale; quando l’immigrato “si emancipa”, toglie il velo, comincia a bere, ha soltanto sostituito, psicoticamente, la propria storia personale con una storia fittizia.
Il multiculturalismo non è, come si lascia intendere, un’ideologia, ma solo un momento nel processo coloniale: il momento dell’apartheid, dello sfruttamento meccanico, a cui si affianca lo scardinamento progressivo delle matrici identitarie. Uno spazio laico in cui dimori l’individuo puro, semplicemente, non esiste: l’Occidente democratico è una madre vorace che ruba i figli degli altri. Se, poi, la molla compressa dell’identità scatta verso il radicalismo, allora bisogna difendere la società: l’Austria di Sebastian Kurz, per esempio, non si limita alla linea dura nei confronti del fondamentalismo islamico, vagheggiata da altri governi europei, ma introduce nel diritto positivo il concetto di “Islam politico”. Un principio meno confuso di quel che sembra, anzi emblematico: perché non è pensabile un Islam, o una qualsiasi altra religione, che non sia politica. Hasan al-Basri che, da asceta, accusa il governatore dell’Iraq compie un atto politico, così come sono politiche le lettere di Caterina da Siena ai potenti del suo tempo. Oltre la dissacrazione del mondo, che è l’unico modo in cui si realizza la laicità nella prassi storica, la democrazia liberale pretende anche una dissacrazione personale. L’integrazione si realizza solo in questa dissonanza, la separazione chirurgica dell’individuo pubblico dalla sua identità personale: credete in cosa vi pare, ma fate i sacrifici all’imperatore; credete in cosa vi pare, basta che non conti niente. Relativismo dell’irrilevanza, piuttosto che relativismo della tolleranza.
Gli stessi strumenti di dominio coloniale possono essere diretti contro tutte le forme di alterità. Di recente, Facebook ha annunciato che rimuoverà attivamente le notizie false sui vaccini anti-Covid: come l’Islam politico, anche il concetto di “notizia falsa” è fluido, ed emblematico. Non si censura tanto ciò che non rientra in una narrazione ufficiale – perché la narrazione ufficiale è essa stessa polifonica, diffusa – quanto la deviazione dalla norma statistica. Ad essere interessante non è, ovviamente, la batracomiomachia fra no-vax e anti-no-vax, quando piuttosto il meccanismo attraverso cui si saldano politica, mercato, accademia e società civile. Il centro, con la sua potenza repressiva, si trova ugualmente dappertutto: non è un governo a controllare il mercato, ma il mercato che riceve dall’accademia la verità, la distribuisce ai cittadini finché, attraverso i cittadini, diventa la norma, il buon senso, la cultura dominante su cui costruire la politica. Il dibattito sull’obbligatorietà del vaccino è un discorso marginale: rivela soltanto che le democrazie conservano ancora, da qualche parte in magazzino, la vecchia macchina disciplinare.
La società del controllo agisce perché diventi superflua, come le armi atomiche hanno causato l’obsolescenza degli eserciti tradizionali – la società del controllo agisce perché ciascuno si opprima da solo. Qui, i personaggi da operetta di Kraus assumono connotazioni sinistre: sono le molteplici ombre proiettate sui muri da un solo fuoco. Si annullano le distanze concettuali, non solo fra i diversi volti della politica, anche fra autorità e suddito: l’archetipo del cittadino, nelle moderne democrazie occidentali, è in ogni caso l’immigrato, il convertito, l’indigeno che lascia il villaggio per la metropoli che gli è estranea – troppo grande, inumana, universale. Nell’atto di recidere il legame con ciò che rimane nel bosco – religione, tradizione, alterità intellettuale – lascia che i suoi dittatori vengano ad abitare lo spazio vuoto, li accoglie dentro, smette di distinguerli. Appare, in effetti, capovolto il discorso di Jünger, invertito il percorso che procede dalla massa al ribelle; anestetizzata la rivolta, perché implica la distruzione di sé:
Il sistema assorbe quelli che pensano di poterlo utilizzare. Non si può trovare un modus vivendi o ottenere attenuanti. È stato dimostrato come lo stato liberale diventa uno stato autoritario. La via è segnata e nessun rimedio sarà sufficiente. Di fronte al potere assoluto, solo l’assoluta negazione è valida.
(originariamente pubblicato il 9 dicembre 2020)