OGGETTO: Israele è sempre più un ostacolo
DATA: 13 Giugno 2025
SEZIONE: Geopolitica
FORMATO: Analisi
Nel cuore di un Medio Oriente in trasformazione, le crescenti divergenze tra Stati Uniti e Israele minacciano di bloccare la regione, mettendo a rischio sia la stabilità locale che la costruzione di un nuovo ordine globale.
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Negli ultimi anni, il Medio Oriente è tornato a essere il crocevia delle tensioni internazionali, ma la crisi che si sta consumando oggi non è una semplice ripetizione delle cicliche ondate di violenza che hanno caratterizzato la regione negli ultimi ottant’anni. Al contrario, si inserisce in una profonda linea di faglia storica, dove le dinamiche locali si intrecciano con la trasformazione dell’ordine globale. L’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023 e la successiva risposta militare israeliana su Gaza hanno rappresentato il punto di non ritorno di una crisi che, pur affondando le radici in decenni di conflitti irrisolti, riflette ora lo scontro tra vecchi equilibri e nuove aspirazioni di potenza. In questa fase di transizione, in gioco non c’è soltanto la stabilità del Medio Oriente: la crisi contribuisce infatti a definire i contorni del nuovo ordine internazionale, ancora privo di regole condivise e di equilibri stabili.

Dalla fine della Guerra Fredda, con la dissoluzione dell’URSS e il conseguente predominio statunitense sulla scena globale, gli Stati Uniti hanno potuto esercitare una significativa influenza in Medio Oriente, imponendo (spesso con la forza) la propria agenda politica e strategica. Oggi, però, si trovano ad affrontare una sfida particolarmente ardua: mantenere tale influenza senza lasciarsi intrappolare nelle sabbie mobili di un coinvolgimento diretto, mentre la competizione con la Cina nell’Indopacifico assorbe sempre più risorse e attenzione. L’obiettivo strategico di Washington è duplice: da un lato, assicurare la sicurezza di Israele e la stabilità della regione, dall’altro, costruire una rete di alleanze locali in grado di contenere l’Iran e di limitare l’influenza di attori extra-regionali come Pechino. Il tentativo è quello di “esternalizzare” la gestione della sicurezza, affidandola a una costellazione di partner regionali che condividano, almeno in parte, la volontà di limitare l’espansionismo iraniano. Tuttavia, la realizzazione di questo progetto si scontra con una realtà complessa, dove le divergenze tra gli attori coinvolti sono spesso più profonde delle convergenze.

Un elemento di frizione crescente è rappresentato dal rapporto tra l’amministrazione statunitense e il governo israeliano. Le relazioni tra Donald Trump e Benjamin Netanyahu, un tempo caratterizzate da una solida intesa, si sono recentemente incrinate a causa di divergenze strategiche emerse negli ultimi mesi. Israele, pur restando il principale alleato regionale degli Stati Uniti, si è progressivamente trasformato nell’ostacolo più rilevante ai piani di Washington, soprattutto per la sua intransigenza nella gestione della crisi di Gaza e nella questione del nucleare iraniano, manifestando una ferma riluttanza a cedere margini di autonomia strategica. 

Questa dinamica ha portato a una crescente distanza tra i due governi, con gli Stati Uniti sempre più determinati a perseguire i propri interessi anche a costo di mettere Israele di fronte a scelte difficili.

Il contesto mediorientale in cui si inserisce questa crisi è profondamente mutato rispetto al passato. L’Iran, principale antagonista di Stati Uniti e Israele, oltre che di altri attori regionali come Turchia e Arabia Saudita, oggi appare più debole rispetto agli anni passati. Le sanzioni economiche, la pressione diplomatica e le difficoltà interne hanno eroso la sua capacità di proiezione, mentre la perdita di influenza in teatri chiave come la Siria e il Libano ha ridimensionato il suo ruolo di perno dell’“asse della resistenza”.

Questa debolezza ha aperto spazi di manovra per altri attori regionali. Turchia e Arabia Saudita, pur animate da ambizioni divergenti, condividono l’interesse a limitare l’influenza di Teheran. Ankara mira a rafforzare la propria proiezione dal Caucaso al Levante, mentre Riyad punta a consolidare la propria leadership nel mondo arabo, anche attraverso una cauta apertura verso Israele e un rilancio della propria politica estera. Gli Emirati Arabi Uniti, con una strategia sempre più assertiva, si propongono come mediatori e investitori, ma non esitano ad intervenire in modo più incisivo quando i loro interessi sono in gioco, come dimostrato in Libia e Yemen. Nonostante la diffidenza reciproca, tutti questi attori riconoscono però nell’Iran il principale fattore di instabilità e sembrano disposti a esplorare forme di cooperazione pragmatica in funzione anti-iraniana.

Cogliendo l’opportunità offerta da questa convergenza di interessi, gli Stati Uniti hanno lavorato per dare vita a una cintura di sicurezza regionale. Il tentativo è quello di costruire una rete che, dalla Turchia al Golfo Persico, possa contenere l’influenza di Teheran e garantire un assetto favorevole agli interessi americani. La Casa Bianca ha saputo sfruttare il bisogno di sicurezza dei partner regionali, offrendo soprattutto garanzie di tipo politico, economico e militare, in cambio di una maggiore cooperazione. La sospensione delle sanzioni contro la Siria, ad esempio, è stata accolta positivamente sia da Ankara che da Riyad, che considerano la stabilizzazione del paese fondamentale per la sicurezza dei propri confini e per rafforzare la propria influenza a scapito delle forze filo-iraniane.

Tuttavia, proprio mentre gli Stati Uniti lavoravano per costruire questa intesa regionale, Israele si è trasformato nel principale ostacolo. La gestione della crisi di Gaza ha radicalizzato la posizione israeliana, rendendo Tel Aviv sempre meno incline a compromessi e sempre più determinata a perseguire la propria sicurezza attraverso la forza militare. La memoria storica delle minacce esistenziali e la percezione di un ambiente regionale ostile hanno rafforzato la convinzione, all’interno della leadership israeliana, che solo la fermezza possa garantire la sopravvivenza del paese. La campagna militare su Gaza, con il suo pesante bilancio di vittime civili e distruzioni, ha alimentato una crescente ondata di critiche internazionali, mentre l’assenza di una soluzione politica credibile ha rafforzato il risentimento delle opinioni pubbliche arabe e la pressione sulle monarchie del Golfo e sulla Turchia.

Sul piano delle relazioni con gli Stati Uniti, Israele ha assunto una posizione sempre più rigida, e le tensioni con Washington sono emerse in modo evidente su tre dossier fondamentali: il nucleare iraniano, la gestione di Gaza e la situazione nel sud della Siria. Sul primo punto, Israele non ha mai nascosto la propria contrarietà a qualsiasi accordo tra Stati Uniti e Iran, temendo che un’intesa diplomatica lasci a Teheran margini per proseguire clandestinamente il proprio programma atomico. La leadership israeliana sembra preferire una soluzione militare, ritenendo che solo la minaccia di un intervento armato possa dissuadere l’Iran. Sulla questione di Gaza, la radicalizzazione israeliana rende assai più ardua la costruzione di una cintura di sicurezza regionale, poiché mina il consenso dei regimi arabi e rischia di alimentare nuove ondate di radicalizzazione. Infine, sul fronte siriano, Israele guarda con estrema diffidenza alle forze islamiste sostenute dalla Turchia che hanno preso il controllo della Siria dopo la cacciata di Assad, e ha esteso la propria influenza nel sud del paese, creando una zona cuscinetto a protezione delle alture del Golan. Questa mossa ha acuito le tensioni con Ankara e complicato ulteriormente il quadro regionale.

La crescente rigidità israeliana si è manifestata anche sul piano diplomatico, come dimostra il rifiuto di autorizzare l’accesso in Cisgiordania a una delegazione di ministri degli Esteri arabi intenzionati a incontrare il presidente dell’Autorità Palestinese. Questo gesto ha reso evidente la determinazione di Israele ad agire unilateralmente, anche a costo di un progressivo isolamento internazionale.

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A partire dalla primavera del 2025, questa postura intransigente ha contribuito ad alimentare una crescente insofferenza negli Stati Uniti, dove hanno cominciato a circolare indiscrezioni sulle tensioni sempre più marcate tra l’amministrazione Trump e il governo Netanyahu. Il rapporto bilaterale, già segnato da divergenze strategiche, si è così incrinato ulteriormente, spingendo Washington ad adottare un approccio più autonomo nella gestione del dossier mediorientale. Da qui la decisione di portare avanti iniziative come la tregua con gli Houthi, gli accordi con Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar, il rafforzamento dei rapporti con la Turchia e il riconoscimento implicito del nuovo governo siriano oltre all’annuncio della revoca delle sanzioni, tutte mosse concepite senza il diretto coinvolgimento di Israele.

Nel frattempo, anche le principali capitali europee hanno intensificato le critiche verso Tel Aviv, in un crescendo che ha coinciso con le prime indiscrezioni sulle tensioni tra Trump e Netanyahu. L’obiettivo, in piena sintonia con Washington, è quello di aumentare la pressione su Israele affinché accetti di inserirsi in una nuova architettura regionale, in cui la propria sicurezza non dipenda più soltanto dalla forza militare o dal sostegno incondizionato degli Stati Uniti, ma sia garantita dall’integrazione in una rete di alleanze più ampia, capace di tenere conto delle esigenze e delle aspettative degli altri attori coinvolti. In questa prospettiva, l’isolamento diplomatico diventa uno strumento per favorire questo processo di adattamento e spingere Tel Aviv ad abbandonare la pretesa di dettare unilateralmente le condizioni dell’ordine regionale.

Il rafforzamento della pressione internazionale trova riscontro anche nelle dinamiche interne israeliane. La gestione controversa della guerra a Gaza, le tensioni tra le diverse componenti della coalizione di governo e il crescente isolamento diplomatico, alimentano divisioni sempre più profonde nella società e nella politica israeliana. Gli Stati Uniti, pur non potendo fare a meno di Israele per ragioni strategiche e per il forte sostegno interno, dispongono di numerosi strumenti di pressione, dagli aiuti militari alle leve economiche, dal sostegno diplomatico alla capacità di influenzare l’opinione pubblica occidentale. In questo contesto, la Casa Bianca potrebbe anche sfruttare le divisioni interne israeliane per favorire un cambio di rotta.

Il quadro che emerge, dunque, è quello di una crisi in cui Israele, da alleato privilegiato, è progressivamente divenuto il principale ostacolo ai piani degli Stati Uniti. Le divergenze su tre dossier chiave stanno compromettendo, infatti, la possibilità di costruire un’ampia coalizione regionale. Gli Stati Uniti, di fronte all’irrigidimento israeliano, hanno scelto di agire autonomamente, costruendo alleanze e accordi senza attendere il consenso di Tel Aviv e lasciando che sia Israele a dover assumere la responsabilità di eventuali rotture o escalation.

Alla luce delle dinamiche analizzate, la vera posta in gioco nel Medio Oriente contemporaneo non si esaurisce più solo nello scontro tra blocchi regionali o nella semplice dicotomia tra potenze esterne e attori locali. Al contrario, ciò che si sta delineando con sempre maggiore nettezza è una sfida interna all’asse storicamente più saldo dell’area: quello tra Stati Uniti e Israele. Un’alleanza che, sebbene resti fondata su una convergenza di obiettivi strategici di fondo – la stabilizzazione della regione e il contenimento dell’Iran – si trova oggi attraversata da una frattura crescente sulle modalità attraverso cui questi obiettivi dovrebbero essere perseguiti.

Israele, segnato da una memoria storica di minacce esistenziali e da una lunga sequela di accordi traditi o rivelatisi effimeri, sembra aver definitivamente archiviato la stagione delle intese e dei compromessi. La leadership israeliana, in particolare nella sua attuale configurazione, appare convinta che la sola via percorribile per garantire la sicurezza nazionale e, di riflesso, la stabilità regionale sia quella del ritorno a una dottrina del “Muro di ferro” (Vladimir Ze’ev Jabotinsky): una postura fondata sulla deterrenza militare, sull’autosufficienza strategica e sulla riluttanza a condividere la gestione della sicurezza con partner percepiti come inaffidabili o portatori di agende ambigue. In questa visione, la stabilizzazione dell’area non può che essere il risultato di un equilibrio imposto dalla forza, in cui la sicurezza di Israele costituisce la precondizione imprescindibile da cui discende ogni altra considerazione.

Gli Stati Uniti, al contrario, pur continuando a considerare la sicurezza di Israele un interesse strategico, hanno progressivamente ridefinito le proprie priorità. Per Washington, la stabilizzazione del Medio Oriente e il contenimento dell’Iran non sono più obiettivi da perseguire in prima persona e con un coinvolgimento diretto, bensì attraverso la costruzione di una rete di alleanze regionali capace di assumersi la responsabilità della sicurezza collettiva. In questa prospettiva, la sicurezza di Israele non è un fine in sé, ma una componente di un quadro più ampio, nel quale l’obiettivo primario resta la possibilità per gli Stati Uniti di ridurre la propria presenza militare, disimpegnarsi progressivamente dal teatro mediorientale e concentrare risorse e attenzione sulla competizione globale, in particolare nell’Indopacifico.

Questa divergenza di fondo si riflette in una contrapposizione sempre più aspra sulle tattiche da adottare. Israele, rifiutando soluzioni diplomatiche che ritiene inefficaci o addirittura pericolose, si mostra indisponibile a cedere margini di autonomia strategica, anche a costo di un crescente isolamento internazionale. Gli Stati Uniti, invece, considerano la rigidità israeliana un ostacolo non solo alla pacificazione della regione, ma anche ai propri disegni di disimpegno e di delega della sicurezza agli attori locali. L’intransigenza di Tel Aviv, infatti, rischia di vanificare gli sforzi statunitensi per costruire una cintura di cooperazione regionale e, soprattutto, di trascinare Washington in scenari di crisi che essa vorrebbe invece evitare: si pensi, ad esempio, al rischio di un conflitto diretto tra Israele e la Turchia, o, in modo ancor più drammatico, a un’escalation incontrollata con l’Iran.

Nonostante la parziale convergenza sugli obiettivi ultimi, la declinazione che ciascun attore ne offre è profondamente diversa. Per Israele, la sicurezza nazionale è il valore supremo e non ammette subordinazioni: ogni iniziativa, ogni scelta di politica estera, ogni apertura diplomatica viene valutata esclusivamente in funzione della sua capacità di rafforzare la posizione israeliana in un ambiente percepito come intrinsecamente ostile. Gli Stati Uniti, invece, guardano alla sicurezza di Israele come a un obiettivo importante, ma subordinato alla necessità di ridisegnare il proprio ruolo globale e di alleggerire il peso dell’impegno mediorientale, affidando la gestione della regione a una pluralità di attori che condividano, almeno in parte, la stessa visione di stabilità e contenimento dell’Iran.

Si delinea così una situazione paradossale: gli obiettivi strategici di fondo – stabilizzazione regionale e contenimento dell’Iran – non sono in sé inconciliabili, ma i metodi attraverso cui si intende perseguirli appaiono sempre più incompatibili. L’ostinazione israeliana nel privilegiare la forza e l’unilateralismo si scontra frontalmente con la strategia statunitense di costruzione di una rete di sicurezza multilaterale. Ne consegue una spirale in cui, invece di rafforzarsi reciprocamente, le due strategie rischiano di neutralizzarsi a vicenda, producendo un effetto di stallo che paralizza l’intera regione.

Il rischio, in assenza di un’intesa capace di ricomporre questa frattura, è che entrambi i piani falliscano nel loro intento. Se Israele dovesse insistere nella sua postura intransigente, potrebbe ritrovarsi sempre più isolato, privo del sostegno internazionale e costretto a fronteggiare da solo una molteplicità di minacce. Al contempo, gli Stati Uniti, se non riusciranno a coinvolgere Israele in una nuova architettura regionale, vedranno compromessi i propri sforzi di disimpegno e rischieranno di essere nuovamente risucchiati nelle sabbie mobili mediorientali, con il pericolo di dover gestire escalation incontrollate tra i propri alleati o addirittura di trovarsi nella scomoda posizione di dover scegliere tra la tutela di Israele e la salvaguardia dei rapporti con altri partner strategici, come la Turchia o i Paesi del Golfo.

In ultima analisi, la crisi attuale si configura come un banco di prova decisivo non solo per la tenuta dell’alleanza tra Stati Uniti e Israele, ma per la possibilità stessa di costruire un nuovo ordine regionale stabile e condiviso. Se la divergenza sulle tattiche dovesse prevalere sulla convergenza degli obiettivi, a farne le spese non sarebbero soltanto Washington e Tel Aviv, ma l’intero Medio Oriente, condannato a rimanere prigioniero di un ciclo di instabilità e conflitti, senza prospettive concrete di pacificazione. La sfida, dunque, non è più soltanto tra potenze o tra blocchi, ma si gioca nel cuore stesso delle alleanze che hanno finora garantito un fragile equilibrio. Il futuro della regione dipenderà dalla capacità – o dall’incapacità – di Stati Uniti e Israele di superare le proprie divergenze tattiche e di riconoscere che, in un’epoca di transizione e di incertezza globale, nessun attore può permettersi il lusso dell’isolamento o dell’unilateralismo. 

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