Dal blackout di Spagna e Portogallo agli allarmi dell’ultimo rapporto del Tony Blair Institute sugli eccessi delle politiche green il tema della transizione energetica e della ben più sottovalutata sicurezza energetica sta prendendo molto spazio nel dibattito europeo e occidentale. In questo senso al di là di retroscena, ipotesi, dietrologie che gravitano su questo evento è opportuno indagare i veri nodi sistemici dell’attuale questione energetica per poter conciliare sostenibilità, sicurezza e buon senso. In questo quadro per approfondire i principali temi dell’energy security a partire dall’attuale blackout fino al maggiore peso che le sfide geopolitiche e strategiche stanno imprimendo sul tema delle fonti energetiche abbiamo intervistato il dottor Gianclaudio Torlizzi, fondatore di T-Commodity, Consigliere per il Ministro della Difesa Guido Crosetto per l’analisi strategica dell’impatto delle materie prime e dei materiali rari sulla supply chain e sul comparto industriale della Difesa, autore di “Materia rara. Come la pandemia e il green deal hanno stravolto il mercato delle materie prime” (Guerini e Associati, 2021).
-Dottor Torlizzi come inquadra il fenomeno del grande blackout che ha colpito Spagna, Portogallo (e in misura molto minore) anche Germania e Groenlandia? E cosa ci rivela quest’evento?
Attualmente non c’è ancora chiarezza su quale sia stato l’evento scatenante di tale fenomeno. Ed anzi credo che probabilmente ci vorrà ancora del tempo per capire che cosa abbia originariamente provocato la catena di eventi poi tradottasi nel blackout. Però possiamo già fare delle riflessioni, a prescindere dalla natura strettamente contingente dell’evento (vuoi che sia stato un errore di calcolo del sistema, vuoi un cyber attacco, o vuoi che siano state altre cause), su come ci può essere stata una condizione di vulnerabilità tale da lasciare più paesi sostanzialmente al buio e su quale significato questo evento possa assumere. Aldilà delle valutazioni contingenti e dei successivi sviluppi, ritengo sia necessario affrontare questo fenomeno sotto il profilo della sicurezza energetica e delle ragioni della vulnerabilità di un sistema come quello spagnolo. Un sistema che negli ultimi anni è stato considerato un modello da seguire per l’Europa (proprio per la sua capacità di spingere in basso i prezzi dell’elettricità e di concentrarsi soprattutto sulle fonti rinnovabili), che però ha evidenziato tutta una serie di punti deboli che hanno contribuito a generare la situazione che si è creata nei giorni scorsi. In questo senso dobbiamo cercare di capire quali sono i principali nodi del modello spagnolo e soprattutto quali sono i principali rischi di sicurezza che un orientamento di questo tipo può produrre.
-Ovvero?
Il sistema energetico spagnolo (principalmente basato su una sovra-produzione di energia solare) in poco tempo è stato considerato un riferimento nel quadro europeo per la sua capacità di mettere in fortissima concorrenza le rinnovabili tra loro. Tale caratteristica, tramite una regolamentazione più “lasca” rispetto, ad esempio, a quella italiana, ha comportato una riduzione del prezzo dell’elettricità che l’anno scorso è arrivata anche a 40 euro a megawatt ora di meno rispetto all’Italia. Un vantaggio competitivo che però non è stato privo di controindicazioni… L’evento di ieri, infatti, ha evidenziato fondamentalmente (almeno a mio avviso) la profonda vulnerabilità che può presentare un sistema che, quando è troppo sbilanciato in favore delle rinnovabili, poi manca di quella capacità di backup che solamente le energie fossili (o comunque anche il nucleare) riescono a dare. In questo senso il vero tema di riflessione per capire i nodi del blackout degli scorsi giorni è quello della sicurezza energetica. Pensiamo, del resto, alla differenza del modello spagnolo con quello italiano. Il modello italiano, infatti, sebbene abbia portato avanti un sistema meno performante dal punto di vista dei prezzi si presenta però sicuramente più tutelante, per la sicurezza energetica. Tale evento deve quindi portarci a delle riflessioni sia sul piano italiano che su quello europeo.
-Che lezione ci viene dal dibattito sulla sicurezza energetica e sul blackout, specie per il nostro Paese?
Credo che l’Italia debba riflettere sull’opportunità di continuare a spingere su un sistema delle rinnovabili che, quando diventa predominante può abbassare i costi dell’elettricità, ma pagando il prezzo di mettere a rischio la sicurezza energetica. L’occasione è, quindi, propizia affinché, come primo passaggio, il governo non spenga le ormai poche centrali a carbone rimaste funzionanti in Italia. Proprio perché questo tema oggi deve essere affrontato alla luce di un contesto di crescenti tensioni geopolitiche, di mineralizzazione dell’energia e anche dei pericoli portati dagli attacchi informatici. Ciò deve far sì che l’interesse nazionale e la sicurezza energetica acquistino un primato rispetto alla convenienza economica o a valutazioni assiologiche. Spero che quello che è successo negli scorsi giorni possa, quindi, servire da lezione a tutta l’Europa per dare il via a un ragionamento un po’ più ampio sui temi dell’energy security.
-Come questo evento può essere anche letto come uno dei tanti nodi che vengono al pettine di una sorta di disarmo anche della sicurezza energetica che è stato portato avanti con il Green Deal?
Negli ultimi due anni, in realtà, sono tanti i nodi che sono venuti al pettine su questo tema… permettendoci di vedere al meglio la distanza tra il Green Deal e le istanze di sicurezza energetica. In questo senso la bussola delle grandi transizioni, nonostante le sue intenzioni, ci ha allontanato da un serio ragionamento sulla energy security, anche perché ha portato avanti principalmente il discorso delle fonti rinnovabili tralasciando quello dell’energia fossile e trascurando anche quello del nucleare (che però richiede tempo per essere sviluppato nei paesi dove oggi non c’è). La convinzione di poter sostituire l’energia fossile con le energie rinnovabili sta già comportando da anni fondamentalmente degli squilibri nel sistema energetico i cui effetti sono innanzitutto una enorme volatilità dei prezzi. Andiamo da fasi in cui il prezzo del gas nel 2022 intraprende dei picchi a rialzo per incapacità delle rinnovabili di generare sufficiente energia (anche se già nel 2021, prima della guerra in Ucraina, stavano emergendo le crescenti tensioni nel mercato energetico europeo), a fasi in cui il prezzo si trasforma di nuovo, ma in negativo. Come è il caso dell’ultima settimana. Un fattore che chiaramente anche lì non avvantaggia il mercato perché allontana poi gli operatori. Quindi mi sembra che la principale conseguenza che possiamo trarre da anni di marcata applicazione di una bussola orientata al primato indiscutibile delle rinnovabili nel sistema energetico europeo è quello della forte volatilità dei prezzi. E la volatilità dei prezzi non va a braccetto con la sicurezza energetica. Anzi. Tanto che oggi si aggiunge, come nel caso del blackout, a tali fattori una vulnerabilità del sistema che non fa altro che acuire profondamente le criticità del modello europeo.
-Secondo lei oggi come si inserisce il tema della sicurezza energetica nell’attuale dibattito comunitario?
Il tema della sicurezza energetica in realtà non è stato mai affrontato in maniera strutturale in Europa, preferendo spesso delle soluzioni per il breve periodo, a dei progetti di sicurezza energetica a medio-lungo termine. Ciò è dato dal fatto che permane nell’UE, infatti, una concezione che vede solo nelle rinnovabili il riferimento di tutte le politiche climatiche.
-Cosa bisognerebbe fare?
Occorrerebbe innanzitutto tornare a mio avviso a estrarre gas nei giacimenti europei, grande tema politicamente molto in bilico, e poi rimuovere i target climatici, finché il mondo non sarà tornato in equilibrio. Questo a mio avviso è il passaggio da fare per evitare che i target di diluizione della CO2 possano andare a nuocere sull’approvvigionamento di gas, che per i prossimi almeno 20 anni sarà ancora indispensabile. Basti pensare che il giorno stesso in cui il mondo è cambiato, con l’invasione russa dell’Ucraina, se l’Unione Europea fosse stata veramente un attore geopolitico avrebbe immediatamente sospeso i target climatici. Mentre invece anche oggi l’impostazione dell’attuale Commissione è quella di mantenere questi target quasi con un atteggiamento fideistico se non surreale, che mostra una totale sottovalutazione dei veri nodi del quadro geopolitico internazionale.
-In questo quadro geopolitico ed economico internazionale, quali sono i veri piani strategici di Trump per quanto riguarda i dossier dell’economia, della difesa e soprattutto dell’energia?
Io penso che la questione dei dazi in realtà non sia quella predominante agli occhi degli americani. L’obiettivo ultimo dell’amministrazione Trump è salvaguardare e ripristinare l’egemonia statunitense sull’economia globale. C’è un tema di egemonia che noi come Europa non capiamo perché vittima di una falsata interpretazione del mito del libero mercato leggiamo tutti gli eventi in chiave economica; quindi, se una cosa non conviene non la consideriamo fattibile. Una narrazione che si è scontrata con la realtà specie con l’aggressione russa dell’Ucraina. Tutti dicevano che Putin non avrebbe mai invaso Kyiv, perché in una chiave economicista ciò avrebbe isolato la Russia sul piano commerciale ed economico. Sappiamo bene, invece, come è andata a finire… Questo perché assistiamo ormai ad un contesto in cui le potenze si stanno riaffermando sulla scacchiera internazionale e la questione egemonica, la questione della conquista di nuove aree di influenza è tornata al suo centro. In questo quadro l’amministrazione americana cerca di proteggere, salvaguardare l’egemonia utilizzando i dazi per costringere il maggior numero di paesi a entrare a fare parte di un nuovo circuito commerciale americano che continui a fornire la copertura di Washington su vari aspetti: sulla difesa, sulla finanza, sull’energia, sul commercio. Ciò a patto che però i paesi decidano di entrare a fare parte di tale circuito, tagliando il proprio cordone con la Cina e probabilmente acconsentendo ad acquistare con cadenze a lungo termine i titoli di stato americani.
-In questa maniera cosa spera di ottenere Washington?
Spera di ottenere il crescente isolamento della Cina anche perché la convinzione americana è che l’economia cinese sia un gigante dai piedi d’argilla. E che nel momento in cui si vanno a precludere dei mercati di sblocco all’export, l’economia cinese finirà per collassare. L’acquisto invece di titoli di Stato a lunga scadenza permetterebbe, invece, a Washington di abbassare i costi di finanziamento del debito che, come sappiamo, sono molto alti, al fine di liberare risorse e quindi finanziare il disaccoppiamento con la Cina che comunque produrrà delle forti sofferenze negli Stati Uniti, oltre che nel resto del mondo.
-Come pensa che si muoverà invece la Cina cercando di mantenere il proprio monopolio su vari ambiti e soprattutto anche utilizzando come se vogliamo cavalli di Troia alcuni partner europei?
La Cina farà la stessa cosa che stanno facendo gli americani, cioè, utilizzerà le armi a sua disposizione per costringere i paesi dubbiosi a entrare a fare parte della sua alleanza commerciale.
-Come?
Tramite il suo predominio sulle terre rare, sulle materie prime critiche, sulla componentistica. Così come Washington in questi ultimi anni ha militarizzato la leadership in alcuni ambiti (dai semiconduttori a chiaramente quella del dollaro come valuta globale di riserva), così la Cina militarizzerà la sua leadership sulle materie prime per tenere sotto scacco i paesi da essa più dipendenti. In questo quadro l’Europa, che fino ad ora ha fatto il vaso di coccio in mezzo a queste due super potenze di ben altro materiale, rischia lo sfaldamento. Rischia di dividersi in maniera irreversibile perché, a mio avviso, non capisce la strategia della Casa Bianca. Anche perché, se volesse veramente capire si renderebbe conto che in realtà da ciò ne gioverebbe l’industria europea, perché appoggiare la lotta alla Cina della Casa Bianca vuol dire dotare la BCE della funzione di prestatrice di ultima istanza e soprattutto ridare di nuovo vita all’industria europea che è stata sostanzialmente danneggiata dalle politiche comunitarie. L’Europa non vuole farlo forse perché così facendo dovrebbe abbandonare il proprio modello mercantilistico e dirigistico. E dato che gli Europei non accetteranno di essere parte del circuito nordamericano subiranno nel breve termine delle ritorsioni da parte di Washington sul fronte della finanza, degli scambi commerciali e sul fronte dell’energia.
-Come vede quindi lo scenario della guerra commerciale?
Io credo che ci sia una sottovalutazione complessiva nel considerare serio l’intento americano e questo mi spaventa molto perché c’è una sorta di malriposto senso di controllo, una falsa sicurezza su un ripensamento statunitense che non tiene conto che gli europei non sono gli statunitensi. Questo, infatti, è un errore enorme che stiamo compiendo e tale miscalculation porterà probabilmente ad una possibile spaccatura. Dove ci saranno dei paesi europei che si legheranno agli americani e altri paesi che si legheranno più alla Cina. Uno scenario tanto probabile quanto estremamente preoccupante.
-In questo contesto che ruolo potrà svolgere il governo italiano?
Il governo italiano dovrebbe cercare di mantenere una coesione tra i paesi europei, o almeno tra i paesi fondatori, a mio avviso, e far capire bene la determinazione americana nel portare avanti il processo di disaccoppiamento dalla Cina. Anche perché il vero tema, secondo me, non è adesso cercare di contrastare gli americani, ma negoziare con essi per disinnescare il più possibile quelli che potrebbero essere i contraccolpi da parte del governo di Pechino. Ed in questo credo che il governo italiano possa svolgere un ruolo fondamentale di mediatore tra le istanze degli europei e le richieste degli USA. Ciò mi sembra fondamentale anche perché non vedo un futuro per l’Italia in caso di una appartenenza al circuito cinese che inevitabilmente includerà le altre autocrazie. La scelta, del resto, è tra un futuro di relativa sofferenza, però con un po’ di speranza con gli USA; mentre con Pechino c’è solamente un futuro di depressione economica. Quello però che risulta evidente, secondo me, è che non è più possibile stare nel mezzo, bisogna fare delle scelte o da una parte o dall’altra.