Negli ultimi mesi due province storicamente controverse della Russia hanno mostrato e mostrano instabilità contingenti. La Transnistria, o preferibilmente per la maggior parte dei locali Pridnestrovie, e l’Abcasia. Seguendo l’ordine cardinale si può cominciare con la periferia orientale di Mosca: l’Abcasia. Le contestazioni e i tafferugli deflagrati il 15 novembre scorso, in quattro giorni hanno deposto il presidente Aslan Bzhania, lasciando ad interim il vice di quest’ultimo Badra Gunba, in attesa delle elezioni presidenziali che si terranno il prossimo 15 febbraio. Come segnala il periodico Abkhazia World, i disordini sono stati innescati sì dall’accordo con Mosca a proposito delle agevolazioni fiscali in cambio d’ingenti investimenti nel settore immobiliare, ma tuttavia si sono inaspriti alla notizia rivelante esagerate spese governative per cene e banchetti di lusso, veicoli e viaggi ed interessi ambiguamente pubblico-privati.
Il Ministero dell’Economia di Sukhumi riporta in data 30 ottobre la relazione dell’accordo russo-abcaso relativo alla stabilizzazione della propria economia, firmato dai rappresentanti delle finanze dei due Paesi: Kristina Ozgan e Maxim Reshetnikov. Cominciando dalla Federazione, il ministro dell’Economia ha dichiarato: «L’accordo attirerà ulteriori investimenti russi nell’economia della repubblica e, quindi, contribuirà allo sviluppo dell’agricoltura, dell’industria, del turismo, delle cure termali e delle attività ricreative». A sua volta l’ospitante Ozgan, sua omologa abcasa, ha replicato: «Il documento è importante anche perché la sua azione è mirata allo sviluppo delle infrastrutture di supporto: fornitura di gas, fornitura di acqua, fornitura di calore, trasporti, infrastrutture sociali e digitali. Recentemente nella repubblica s’è potuta osservare un’elevata attività d’investimento estero. In 4 anni, il volume degli investimenti in capitale fisso è aumentato di oltre 2,5 volte e ha superato gli 11 miliardi di rubli. La dinamica positiva è testimoniata anche dall’aumento del salario medio, dalla crescita del PIL e dalle entrate proprie del bilancio più che raddoppiate. È importante riuscire a dimostrare un approccio qualitativamente nuovo: ridurre il livello di investimenti pubblici e aumentare quello degli investimenti privati. […] Tali progetti di investimento cambieranno radicalmente il quadro generale dell’occupazione nella repubblica».
Asida Shakryl, avvocato molto legato alla dottrina dei diritti umani, ha commentato, sempre per il medesimo periodico: «Perché lo stato [abcaso] dà la priorità agli investitori stranieri rispetto alle aziende locali?» criticando la mancanza di simili opportunità per i titolari di aziende locali. Al coro s’è poi unito anche l’economista Akhra Aristaa, affermando che: «L’accordo minaccia le aziende nazionali e il bilancio del paese. Grandi quantità di capitale straniero opererebbero al di fuori della giurisdizione abcasa, rendendo più difficile per gli imprenditori locali ottenere finanziamenti». Già il 12 di novembre le detenzioni arbitrarie dei maggiori rappresentanti della vita politica, culturale e sociale, e ovviamente afferenti all’opposizione, come Omar Smyr, Garry Kokaya, Almaskhan Ardzinba, Ramaz Dzhopua e Aslan Gvaramia, davano una temperatura da ebollizione. Il presidente Bzhania tentò di calmare la rabbia che montava nell’opinione pubblica definendo le «azioni illegali», quelle degli esponenti dell’opposizione – come spesso avviene – che sarebbero state perseguite a norma di legge.
Ma sono i mesi di dicembre e gennaio a far precipitare la situazione: il 6 dicembre l’accordo con la Russia è già saltato e l’Abcasia si trova con 1,8 miliardi in meno di finanziamento. La deposizione per Mosca è molto pruriginosa, la infastidisce e infatti il Cremlino impone delle sanzioni: fine degli aiuti all’economia di Sukhumi, per un 40% in meno del potere d’acquisto abcaso. Il ministro delle Finanze ad interim Vladimir Delba, ha affermato per Abkhazia World, che «I fondi per sostenere le spese di bilancio, come difesa, forze dell’ordine, forniture sanitarie e investimenti pubblici, non arrivano più». La Federazione ha poi vietato l’importazione dei mandarini, mercato florido per Sukhumi, denunciando il ritrovamento nei frutti d’un insetto nocivo, come riporta il periodico Georgian News. Semplicemente confutabile da parte abcasa e con un tempismo perfetto da parte russa. Successivamente, Mosca ha deciso di bloccare per «misure educative» il flusso di turisti russi verso l’Abcasia. «Finché gli abcasi non accetteranno di adottare le norme che hanno causato le dimissioni del loro presidente, verrà condotto un “lavoro educativo” con essi. Ciò include l’interruzione del flusso turistico dalla Russia, che è la principale fonte di reddito della repubblica», ha dichiarato Artur Muradyan, vicepresidente dell’Associazione tour operator russi a Gazeta.
S’aggiunga poi che l’Abcasia attraversa una feroce siccità che sta inibendo le attività di produzione energetica tramite le centrali idroelettriche, come quella sull’Enguri. Come riporta Abkhazia World, il 9 dicembre il governo è giunto addirittura ad anticipare la sosta natalizia delle scuole per mancanza di riscaldamento e da mezzanotte alle ore sette del mattino, i servizi della Rete sono interrotti per limitare l’attività della gestione delle criptovalute, spesso illegali, piaga del Paese. Il rischio per la popolazione, secondo quanto espresso dal ministro dell’Energia Dzhansukh Nanba, è di dover accettare di ricevere non più di sei ore d’elettricità al giorno. Non serve rammentare che senza l’ausilio russo che in passato permetteva di superare questi momenti, la situazione si manifesta drammatica.
L’acme della crisi politico-parlamentare abcasa s’è toccata il 19 dicembre quando, proprio a causa del dibattito sull’amministrazione delle criptovalute, Adgur Kharaziya, già noto per i propri precedenti con la giustizia, ha sparato al collega opposto Vakhtang Golandziya, uccidendolo, e ferito Kan Kvarchiya. Le elezioni del prossimo 15 febbraio si presentano roventi, con la Russia che desidera Badra Gumba, attuale presidente ad interim, mentre la figura di spicco dell’opposizione all’area filorussa è rappresentata da Adgur Ardzinba, capo del Movimento Popolare Abcaso e guida politica della deposizione di Bzhania. Il tempo delle nomine s’è concluso il 6 gennaio scorso e gli altri candidati sono: Oleg Bartsits, ex rappresentante commerciale a Mosca; Robert Arshba, ex presidente della Corte dei Conti e infine Adgur Khurkhumal, presidente della Banca per lo sviluppo del Mar Nero. Qualunque sarà l’esito, l’Abcasia deve fare i conti con la propria posizione geografica e la propria condizione economica e sociale: se per un verso, con fede incrollabile e risultati mirabili, lotta, da sempre, per l’indipendenza, dall’altro il legame con Mosca risulta in molti segmenti indispensabile e quasi indisputabile, anche per non finire nell’orbita di Tbilisi: nemico capitale. La Russia dal canto suo rischia certamente di perdere un territorio strategico come tutto “lo stretto” del Caucaso: prima linea di difesa per la Federazione e dove essa vorrebbe costruire un porto che, malgrado le acque basse, sarebbe indispensabile per flottiglia e rifornimento nel mar Nero, certo, anche a causa delle perdite subite a Sebastopoli l’estate passata, ma soprattutto per vigilare l’Abcasia e tenere sotto tiro la Georgia, distante di lì pochi chilometri. Nonostante ciò, Mosca è in posizione di evidente vantaggio sul territorio di Sukhumi, non pare a rischio la sua corposa, consistente ed evidente influenza.
Anche la Georgia non se la passa meglio, soprattutto la “Georgia occidentalistica”. Il 27 ottobre dell’anno passato le elezioni politiche hanno dato la maggioranza parlamentare al partito filorusso Sogno Georgiano, capitanato dall’imprenditore Bidzina Ivanishvili, noto per i propri ingenti capitali alberganti nella Federazione. L’opposizione filo-euroatlantica, insieme alla uscente Presidente della Repubblica Salomé Zourabichvili, ha denunciato aspramente i brogli elettorali che hanno consentito a SG di conquistare l’organo legislativo, come riporta la BBC, ma tuttavia un documento dell’OSCE in proposito non segnala alcuna perversione nel processo.
Il risultato elettorale georgiano dà un momentaneo vantaggio a Mosca poiché comunque preferibile rispetto ai filoccidentali al potere, anche se tuttavia Sogno Georgiano ha un’identità indipendentista e la crisi dell’Abcasia potrebbe offrire il destro tattico-politico a Tbilisi. Dall’inizio delle ostilità in Ucraina, la Georgia ha nuovamente ripreso il faldone atlantico e intensificato le attività politico-diplomatiche per accedere alla Nato, temendo un allungo russo sul Caucaso strategico. Internamente, però, SG ha lavorato più pragmaticamente: muovendosi per garantire l’indipendenza dello Stato, ma tuttavia comprendendo la taglia della Russia e accettandone l’influenza politico-economica, pur sovrastrutturalmente dichiarando la propria disponibilità verso l’Alleanza Atlantica. Un classico, una necessità, dei piccoli Paesi. La Storia dell’Italia post-risorgimentale è gravida di partite giocate su più tavoli: l’alleanza obtorto collo con l’Austria-Ungheria per evitare l’isolamento, ma anche il sabotaggio di Vienna con l’Irredentismo giuliano e trentino, come i sotterfugi con i tedeschi per resistere allo strangolamento mediterraneo ad opera d’inglesi e francesi, ma anche le intese cordiali sul commercio con i transalpini e per evitare frizioni marittime con l’Inghilterra, ne sono un esempio.
In termini etnici, la popolazione di Tbilisi è a maggioranza assoluta georgiana che non prova attrazione per “l’Occidente”, ma gioca necessariamente su più tavoli per evitare d’esser stritolata dal gigante imperiale, ma pure dalla pressione turca che nella regione si sta facendo sentire per tramite, e come risultante, dell’Azerbaigian e la sua ambizione, a braccetto con gli anatolici, di primeggiare nello smistamento energetico e commerciale dell’area caucasica. Proprio questi elementi spingono Sogno Georgiano a tenere la citata condotta, e se a ciò s’aggiungono le frange interne di dissidenti assolutamente antirussi, la posizione del partito appare ancora più lucida.
Dalla guerra dissimulata del Quattordici alla corte di Kiev sono andate ammassandosi schiere di combattenti georgiani che nel 2016 sono poi stati inquadrati nella Legione Georgiana, compagnia aggregata all’esercito regolare ucraino, come sottolineato dagli approfondimenti di Jean-François Ratelle dell’Università di Ottawa, e questo corrobora il livore georgiano, comunque diffuso e rilevante, verso Mosca. La fine della guerra d’Ucraina, qualunque sarà l’esito, rimpatrierà sovversivi intransigenti verso Mosca, insieme con un reducismo turbolento che potrebbe rompere l’equilibrio d’un Paese storicamente, politicamente ed economicamente già precario.
Venendo ora alla Transnistria, essa è regione incastrata fra l’Ucraina meridionale e la Moldavia; lingua di terra che non raggiunge il Nero. Esonimo attribuitole latinamente per il proprio alloggiamento sul fiume Nistro (Dnestr in slavo), ma preferitogli il cirillico Pridnestrovie con editto presidenziale nel 2000. Il titolo di Transnistria è stato poi abrogato e vietato da un decreto presidenziale nel 2024 e la pena per chi lo trasgredisce va dalla sanzione pecuniaria di 350 rubli alla detenzione di 15 giorni.
Tutto ciò già la dice lunga sull’influenza russa come pure, in buona parte, sulla condivisione della collettività che compone il Paese che si definisce autonomo, ma che non trova riconoscimento da nessuna parte nella comunità internazionale: nemmeno nella Russia. La Transnistria sta attraversando una grave crisi energetica ad opera degli ucraini che il 1° gennaio hanno deciso di chiudere il gasdotto che l’attraversa, l’approvvigiona insieme alla Moldavia, come denuncia Kyiv Independent. Dal 2019 Mosca e Kiev avevano un accordo della durata di 5 anni sul transito del gas che è resistito anche alla guerra del Ventidue, ma sul quale gli ucraini avevano già manifestato negli ultimi mesi la loro volontà di non rinnovare.
La Moldavia non è mai riuscita nell’annessione della Transnistria per almeno due ragioni: la prima è di carattere militare, i russi hanno circa 1500 unità schierate sul confine della repubblica autoproclamatasi, sin dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Soprattutto, però, è la dipendenza dal gas russo che la blinda in quella condizione, nonostante le trattative con l’Unione europea. Chisinau sta in questo momento patendo la chiusura del gasdotto e riduce ancor più il suo ipotetico afflato sulla Transnistria. Nel conflitto cognitivo, è poi interessante sottolineare un aspetto: nell’informazione locale in lingua inglese appaiono soltanto articoli e brani concernenti il Natale ortodosso, piuttosto che le notizie cronistiche. Nella versione cirillica della stessa, la situazione di crisi relativa al rifornimento gasiero è descritta con dovizia di dettagli. La Transnistria consuma circa 220 megawatt di corrente all’ora e senza l’approvvigionamento di Mosca la produzione s’è ridotta alla soglia dei 150. Ciò ha determinato cinque ore di buio e assenza di riscaldamento quotidiane dal 6 dicembre scorso. Va da sé che l’industria sia ridotta al minimo e le scuole abbiano allungato la sosta natalizia similmente a quanto accaduto in Abcasia.
L’inattività della condotta avrebbe poi causato circa ottocento rotture che richiederanno almeno un mese per le riparazioni. Anche in questo caso, forse peggiore, come per Sukhumi, Tiraspol dipende totalmente dall’energia russa della quale ha perennemente beneficiato nel corso dei decenni, in maniera sostanzialmente gratuita. Mosca ha sempre fatturato il materiale a Chisinau che ora non vuol più pagare il conto, come rammentato da Kyiv Independent. A ciò s’aggiungano le attività di sabotaggio ucraine che hanno quasi portato all’arresto dell’altra fornitura regionale, quella eusina: il Turk Stream. Ciò ha generato severa indignazione da parte delle cancellerie ungherese e turca, come ben riportato da Analisi Difesa:
«Szijjarto ha avuto un colloquio telefonico con il ministro dell’Energia turco, Alparslan Bayraktar durante il quale è stato discusso il recente attacco di droni ucraini nella regione russa di Krasnodar che il 13 gennaio ha preso di mira la stazione di compressione Russkaya, cruciale per il funzionamento del gasdotto TurkStream».
Il 24 gennaio scorso, Orban ha ammonito severamente Bruxelles per il sostegno incondizionato a Kiev e ha minacciato di non aderire al nuovo pacchetto di sanzioni se non verrà messo nuovamente in moto il Tiraspoltransgaz e non cesseranno i tentativi ucraini di sabotare l’approvvigionamento, anche, ungherese. La situazione, al di là delle considerazioni di alcuni osservatori inglesi, pare molto più felice per la Russia. È vero che la crisi della Transnistria porta malcontento verso il Cremlino, ma sono altrettanto veri due aspetti: il primo è la totale dipendenza energetica della Transnistria e comunque parziale della Moldavia che però dal canto suo può surrogare con le riserve europee, cosa che non può fare Tiraspol sia per impedimento russo che per posizione geografica. Il secondo, più rilevante ancora sul piano politico, è l’ennesima dimostrazione che l’Europa “politica” rimane divisa da questioni strategiche, e quindi imprescindibili, nazionali.