Lo vedo dopo molti anni: la barba gli dona il carisma di un maestro corsaro, di un ideatore di rivolte, pare l’architetto di Atlantide. Di mattina, entra in acqua, nel mare, “nuoto sulla scia della luce”, dice, e pare un monito, un motto, un’epigrafe – nel pomeriggio, a una calca di ragazzi, dirà che è inevitabile imbracciare la poesia, la sola ribellione possibile. Fino a notte, mentre brucia la sera, narra del suo tributo all’amare, quel turbine; e – come fosse una conseguenza amorosa – degli incontri con Lawrence Ferlinghetti, Yves Bonnefoy, Czeslaw Milosz, della sua amicizia con Adonis, e di quella volta, era il 1994, in cui guidò un drappello di utopisti a occupare Santa Croce, a Firenze, “fu una rivolta etica, dunque estetica, ricevetti messaggi di solidarietà da Mario Luzi, da Gao Xingjian…”. Una lenta saggezza non rende meno appassionato il dire di Giuseppe Conte – quello vero, continuo a sfotterlo, per sfatare lo specchio borgesiano –, voluttuosamente inattuale, a difesa della natura contro l’ideologia ecologista, delle identità contro l’idolatria globalista, del sacro contro il mercimonio dei nichilisti, della potenza del corpo contro il transumanesimo e l’impero digitale. Ha esordito nel 1975 – con Il processo di comunicazione secondo Sade –, ha scritto libri in contrordine ai diktat novecenteschi, un continuo controcanto alla dittatura del canone: L’ultimo aprile bianco (1979), L’oceano e il ragazzo (1983), Le stagioni (1988), Dialogo del poeta e del messaggero (1992), restano, per anomalia, testi poetici importanti, da attraversare. Ma Conte non si fa imbrigliare in un genere, e non imbroglia con artifici da retore: gioca semmai, un po’ rabbi un po’ mangiafuoco; ha scritto romanzi – Il terzo ufficiale è forse il più noto, L’adultera il più frainteso, I senza cuore l’ultimo –, ha curato l’opera di autori affini, autentici avi, William Blake, Percy Bysshe Shelley, Walt Whitman, D.H. Lawrence. La raccolta La poesia del mondo. Lirica d’Occidente e d’Oriente, curata per Guanda, che raduna, tra la miriade di testi, i “canti delle origini” – dei Boscimani, degli Irochesi, degli Egizi, dei Maya –, Saffo, Juan de la Cruz, Lutero, Goethe, Alfieri, Rilke, Wang Wei e Rumi, ne declina l’indole: esagerata, avventuriera, prona all’impossibile.
L’ultimo libro è l’ennesimo salto nell’incongruo: s’intitola Il mito greco e la manutenzione dell’anima (Giunti, 2021); Conte districa le figure della sacralità classica – da Afrodite a Medea, da Dedalo a Orfeo, da Ermes a Priapo – spingendole a spiegare i moti dello spirito, le nostre singole inclinazioni. Così, per dire, “Pan vive nella natura e nei recessi, nelle grotte della nostra anima. Personifica le esperienze istintuali in cui la natura ci raggiunge ed entra in noi”. Oppure, introducendo la figura di Orfeo, Conte scrive che “Insita tra tutti gli esseri mortali soltanto nell’uomo, l’attrazione della morte diventa sfida alla morte: una pulsione primaria spinge a indagarla, a combatterla, e a negare che sia impenetrabile il suo regno per chi è ancora in vita”. Il libro, “dedicato alla memoria di James Hillman”, ricorda le affascinanti avventatezze di Robert Graves e termina con un Vademecum che è una specie di manuale, di ‘codice’, per riappropriarsi del giorno (esempi: “Non aver paura di cambiare, sii come Proteo, inafferrabile per gli occhi e le mani degli altri”; “Comincia a pensare che ogni pezzo della tua anima è sacro. Anche quelli bui, purulenti, cavernosi, cui tu cerchi con la tua manutenzione di dar luce”; “Beato il Paese che non ha bisogno di antieroi”). Insomma, eresia delle eresie, il poeta, da autentico insipiente, gioca alla sapienza, manda in cenere ogni buoncostume accademico. Conte ne ride, la sua grazia sa essere feroce, dunque lo contatto.
Il mito greco è ingresso nelle contraddizioni. Amore & Morte, certo, ma, soprattutto, alla luce dell’oggi, Logos vs. Mania. Ecco, la mania, la mantica, pare ce la siamo dimenticata. Anche il sacro, ora, ormai, pare smerciato in norme, ambisce al quieto vivere. È così?
Certamente il mito contiene il senso di tutte le contraddizioni presenti nella nostra vita interiore, niente è lineare nel mito, lo stesso Amore viene declinato in varie facce, alcune dotate della più intensa forza di creazione, altre invece votate alla più cupa delle distruzioni. Nel mito greco, Atena, Estia e Artemide, che incarnano la saggezza costruttiva e strategica, l’attaccamento al focolare, la selvatichezza ritrosa, sono nemiche di Afrodite. E allo stesso tempo nella nostra anima le pulsioni verso il sapere ordinato, la famiglia, la ritrosia si scontrano con il potere anarchico, confuso, libero, coinvolgente in massimo grado delle pulsioni erotiche. Della contraddizione, del contrasto tra logos e quella che tu chiami mania o mantica, e che può definirsi “entusiasmo”, “invasamento religioso”, potenza divinatoria, è oggi quanto mai attuale parlarne. Il logos ha preso il potere assoluto declinandosi come razionalità economica, utilitaristica, materialista. Non era mai stato così, nella storia degli esseri umani. Non si era mai visto che una attività in sé essenziale e necessaria come l’economia si proponesse anche come metro supremo di tutti i valori, come principio di ogni legittimazione, come assoluto. Politica e democrazia, in mano sempre ad incolti e spesso a mestatori e a pagliacci, non contano più niente di fronte all’economia. L’entusiasmo, questa meravigliosa e sempre più rara qualità umana, le visioni, il fuoco, la follia platonica sono stati cancellati, messi al bando, dichiarati psicopatologici. Il sacro cosa è diventato? Un insieme di norme, una stanca, ripetitiva pratica chiesastica, per i cristiani, per chi ama il quieto vivere? O al contrario una esaltata scelta omicida-suicida per i combattenti islamici? Ah no, non c’è niente di sacro in tutto ciò. Il sacro si è ritirato nelle anime che lo cercano. Che cercano il contatto con il mistero terribile ma dolcissimo del mondo e di Dio. Il sacro è in chi prega e crede davvero che alla fine saremo salvati. È nella natura deturpata non, come si dice genericamente, dall’uomo, ma da forze disumanizzanti che hanno fatto del profitto massimo e a ogni costo la loro bandiera. Il sacro è nella primavera che ritorna mentre impazza la pandemia, nel sorriso di un bambino ammalato, in un giardino scosso da ondate di vento, in un’opera d’arte che mescola buio e luce. Il sacro è nella poesia, la grande reietta del nostro tempo, et pour cause. Del sacro, del senso del sacro, delle manifestazioni del sacro, è il mito che ci parla. Che, senza essere loro nemico, viene prima della religione, della scienza, della storia.
Giochiamo agli dèi. Qual è quello che ha guidato la tua vita; quale quello da cui ti fai guidare? (E perché).
Certo, giochiamo a questo gioco deliziosamente goethiano. È Goethe che diceva che i Greci non umanizzavano gli dei, ma divinizzavano l’uomo. In una intera sezione di un mio libro , Le stagioni (1988), Ermes appare come “un giovane bellissimo, dall’abito/ di Messaggero, un sorriso indecifrabile,/ straniero, come di chi ha viaggiato/oltre cielo”. E la sua presenza si manifesta in diversi momenti e movimenti dell’anima. O semplicemente di una biografia. L’Insegnante. Il Poeta. Il Viaggiatore. L’Amante. In tutti questi diversi aspetti della mia vita, ho avuto a che fare con Ermes, dio della leggerezza metamorfica, ambasciatore del divino nell’umano e viceversa, guida delle anime ma anche autore di gesti volgari e di furti, anche di furti d’amore. So, da quando il grande poeta svedese Jesper Svenbro mi chiese a bruciapelo e poi mi spiegò il rapporto tra il poeta e la tartaruga, che Ermes, che si costruì la lira con il carapace di una di queste creature del Tartaro, è il vero inventore della poesia, di cui in seguito si fecero patroni Apollo e le Muse. Ma non ho seguito Ermes con continuità. C’è un pantheon in noi, e dentro di noi gli dei si combattono più che gli eroi dell’Iliade. Io sono sicuramente stato abitato da Apollo, un Apollo superbo e crudele, quando nella prima adolescenza cercavo un superiore equilibrio aristocratico, io, nipote di un capomastro siciliano, un atteggiamento statico che mi portava a detestare la carne, la civiltà di massa, gli operai. Sono stato abitato da Atena, quando mi sono impegnato in uno studio senza scampo, alla ricerca del sapere dei libri, prima di quello della vita. Poi finalmente è arrivata lei, Afrodite, la passione amorosa. Lei ha fatto giustizia. L’adolescente presuntuoso lei lo ha ridicolizzato. Il giovane studioso lei lo ha gettato nel turbinio dell’esistenza. Afrodite mi ha guidato sempre: amore che crea, amore condiviso, amore cosmico, amore senza pregiudizi e senza limiti. Le prime fugaci visite di Venere sono state ragazze inglesi, conosciute in Inghilterra e in Riviera. Poi Venere, in una ragazza bianca, lentigginosa, castana, magrissima ha preso possesso di me. Ha messo in movimento il mio essere, e da allora non ho cessato di amare, di dare spazio all’amore, sempre e innanzi tutto.
Il mito greco è pieno di mostri, da Idra alla Sfinge a Minotauro – spesso perturbanti, a volte incolpevoli. Oggi ci pare, semplicemente, di vivere in un mondo ‘mostruoso’ (e non nel senso della ‘meraviglia’), dominato dall’uomo che (ma già ce lo diceva Sofocle) è l’autentico ‘mostro’. È così?
I mostri del mito greco raccontano quel momento dell’evoluzione in cui non era ancora ben chiaro il confine tra la bestia e l’essere umano, tra il caos delle origini e l’ordine da costruire in noi e fuori di noi. Minotauro, Sfinge, Centauri, Arpie, Sirene… Spesso sono innocenti, come la ragazza dai bellissimi capelli chiamata Medusa, che subisce due affronti divini, il primo da Poseidone, che la stupra, il secondo da Atena, che la trasforma in mostro dai capelli di serpente perché lo stupro è avvenuto in un suo tempio, così profanato. Terribile la logica degli dei. Ma una volta mostro, Medusa si vendica e, con il potere di pietrificare, diventa la più terrificante assassina di esseri viventi. Nel mito greco c’è l’antidoto: gli eroi che combattono i mostri, e li spazzano via: Perseo, Teseo, Eracle, Edipo… Oggi però la mostruosità del mondo è creata dall’uomo stesso. È spenta ogni meraviglia, ogni possibilità di incanto, e ogni eroismo, ogni possibilità di liberazione. Il mostruoso è nel presente, nelle guerre devastatrici, nelle diseguaglianze feroci, nella miseria sempre più diffusa, nel dominio dell’effimero e del nichilismo materialista, in un attacco alla natura che ha rotto gli equilibri della Madre Terra sino a produrre pandemie sconosciute e non governabili sconvolgimenti climatici. Mostruoso non è più quello che abbiamo alle spalle, il caos e la bestia primordiale, ma quello che presentiamo nel futuro, un ordine tirannico da lager e un innestarsi sull’umano di apparati tecnico-scientifici che ne snaturano l’essenza. Studiando le meduse per scrivere un mio romanzo, ho scoperto che in un laboratorio cinese è stato creato un maiale fosforescente transgenico, innestandogli cellule di medusa. Qualcuno può dirmi a cosa serve un esperimento come questo, se non a celebrare un potere assoluto della tecnica, sino ad arrivare a creare esseri chimerici, cioè mostri?
Nel tuo libro, riabiliti Pan e bastoni Prometeo, pure idolatrato dai Romantici. Come mai?
Pan è il gran dio della natura vivente. Della natura animale, prima di tutto, e in una sezione del mio libro Le stagioni (il più organicamente mitico che abbia scritto) lo vedo in gabbiani sperduti su una piazza di città, in un geco finito nella nostra cassetta delle lettere, negli scoiattoli di Central Park, in una cavalletta ferma su uno scalino. Ma è anche il gran dio della natura vegetale, di tutto quello che rifiorisce, e quello dell’istinto dell’uomo a provare piacere attraverso l’esercizio della carne. Chi crede che l’avvento di Cristo abbia detronizzato Pan, da una parte ha ragione, perché gli insegnamenti di Cristo si collocano su una sfera più alta, che include un’etica della pietà, del perdono, del sacrificio. Ma da un’altra parte ha torto, perché tutto il mondo istintuale e naturale di Pan rimane, nascosto, inconfessato, inespresso dentro di noi. Siamo noi che dobbiamo tenerlo a bada, depotenziarne la parte violenta e buia e portarla verso la luce. Soltanto uno scrittore profetico, perciò inattuale e inascoltato, come D.H. Lawrence poteva nel secolo scorso vedere Pan tra i Nativi Americani, nel loro residuale culto cosmico della natura. E oggi, per me, Pan, il grande dio Pan, è in tutto ciò che ci muove verso l’idea e la sensazione che la natura vada salvata dalla mostruosità dell’uomo. Pan è un dio perdente, demonizzato, vilipeso. L’unico di cui si dichiarò la morte. Per questo lo riabilito. Perché oggi si ha bisogno di lui. Invece Prometeo fu la figura prediletta dai Romantici, e in particolare da due autori verso i quali la mia devozione è infinita: Goethe e Shelley. Il primo gli dedicò un inno, il secondo un intero poema drammatico. E allora come mi sono permesso di bastonarlo? Prometeo ruba il fuoco agli dei per darlo agli uomini: dal fuoco celeste, eternamente splendente, ricava quello terreno, che trasforma la materia sulla terra. È un costruttore, un benefattore, un filantropo. È un ribelle. E insieme un iniziatore di civiltà. Paga un prezzo altissimo di sofferenza per la sua azione. La sua figura è stata esaltante, per millenni. L’uomo prometeico ha sfidato il cielo, Dio, la natura per affermare il suo pieno dominio sulle cose. Si è liberato, ha lottato, conquistato, edificato. Poi, nei secoli, il pieno dominio sulle cose è diventato bieco sfruttamento, riduzione dell’organico a inorganico, cemento intorno a noi e dentro di noi. L’uomo prometeico, quello adombrato dai personaggi di Ayn Rand, dai magnati texani, dai fondatori delle grandi industrie, non giganteggia più. Ha fatto della natura un magazzino di approvvigionamenti. E poi man mano di rifiuti. Oggi la plastica invade gli oceani. I veleni l’aria. L’equilibrio si è rotto. Il fuoco dell’uomo fabbro ora è quello della bomba nucleare, il cui fungo di morte cancella il cielo. Ho cominciato a rifletterci negli anni Settanta del secolo scorso, quando ho sentito per la prima volta i fondamenti della nostra civiltà vacillare. Sia lode a Prometeo, ma sino a un certo punto. Poi basta. Oggi lui, con la sua potenza manipolatrice, con la sua industria pesante, con la sua ansia di dominare e possedere, non ci serve più. E anche se sembra paradossale, o colpevole, o da pazzi affermarlo, oggi ci serve un “fuoco celeste”, da accendere innanzi tutto dentro di noi. Vedi che alla fine parlo sempre del primato spirituale della poesia, che Ungaretti dichiarò alla metà del secolo scorso, preveggente come sempre i poeti.
Come nasce l’idea del Vademecum finale, specie di codice per orientare la propria vita? Attraverso quali assi si sviluppa? Pare di intuire che senza una ‘regola’ l’uomo non può esistere, mera ombra morsa dal caos…
Guarda, l’idea del vademecum è nata così, come tante volte capita, per caso, sotto una spinta incontrollabile, e sotto l’influenza della lettura delle Massime di La Rochefoucauld e di quelle di Goethe. Sono testi che ho sempre tra le mani, sul comodino, sul tavolo. Come I frammenti di un vangelo apocrifo di Borges, in Elogio dell’ombra. Un giorno, sul quadernone dove crescevano lentamente e a dismisura appunti sulle figure di dee e dei, eroine e eroi, le prime massime sono zampillate come se fosse il resto del libro a produrle, come piccole foglie su un grosso ramo. Le ho scritte di getto in pochi giorni, poi le ho divise secondo i momenti del giorno in cui le avevo scritte. Qualcuna l’ho aggiunta dopo, ma poche. Per esempio, dopo aver assistito alla Messa del 15 agosto in una chiesa in campagna, nelle Langhe, io che avevo dimenticato che quel giorno è una festa del calendario religioso e celebra l’Assunzione della Vergine, ho pensato e poi dettato direttamente al mio editor, che la inserisse nel libro ormai in bozze: “Tutti hanno bisogno di una madre, anche Dio”. Una massima di cui sono leggermente fiero, non so perché. Mi sono avvitato sul tema della madre, da quando l’ho persa, cioè da poco, due anni, quasi centenaria lei e ultrasettantenne io, figlio sino ad allora. E da sempre, sin da bambino, sono ossessionato dal tema di dove è e che cosa è Dio. Qualche volta mi hanno definito “cacciatore di simboli”. Ma lo sono diventato in quanto cercatore di Dio. Mi chiedi se senza una regola l’uomo possa esistere. Direi che l’uomo ha bisogno di regole intime di saggezza, prima che di leggi esteriori. Ha bisogno di orientare da sé la propria vita, ricorrendo alla sapienza che ha alle spalle, che ha ereditato. Le mie massime sono per una manutenzione quotidiana dell’anima che orienti verso quanto di pienezza di vita ci è concesso, verso un provvisorio barlume di felicità.
Senti ma… quali sono, piuttosto, i tuoi rapporti con il Dio cristiano? Preghi? Cosa preghi? Nel libro non sei tenero verso la Chiesa cattolica, verso il Cristo che ha decapitato gli antichi dèi.
È la domanda più difficile. Definendomi prima “cercatore di Dio” ho in qualche modo dato una povera risposta, la più sincera. Sono stato panteista. Sulla tomba di D.H. Lawrence nelle Montagne rocciose, sul vecchio sdrucito quadernetto per un ricordo dei visitatori ho scritto: “tutto è fatto di Dio e Luce”. Sono stato politeista. Poi ho capito che il politeismo è la religione della poesia, delle forme multiple, della bellezza. Avevo bisogno di una religione della vita. Mi sono riavvicinato al monoteismo, anche a quello islamico. Ma il monoteismo cristiano è quello in cui sono nato, con cui devo fare i conti. Ho riletto molto i Vangeli, in questi ultimi anni, da quando ho scritto L’adultera sull’episodio narrato da Giovanni, un romanzo cui il gesuita Ferdinando Castelli dedicò un saggio benevolo su “La Civiltà Cattolica”. Non ho visto nei Vangeli i segni di quella persecuzione dei sensi e del sesso durata per tanti secoli, sino alla mia generazione, si può dire. Curiosamente, due episodi della vita di Cristo vengono citati molto meno di altri: la sua reazione violenta, l’unica, contro i mercanti e i cambiavalute del tempio – i cambiavalute, i progenitori degli speculatori finanziari che dal 2008 hanno creato povertà e rovina – e quella contro Satana quando gli mostra dall’alto di un monte il potere e la ricchezza del mondo dicendo che quelle appartengono a lui. Cristo rifiuta di cedere la propria anima in cambio. Quanti contemporanei lo fanno di fronte alle lusinghe di potere e ricchezza? Sì, prego, al mattino appena sveglio, alla notte prima di dormire, ogni giorno dialogo con i miei Lari. Prego un Dio che sia Amore e Soffio di Vita. E che sia pietà per chi soffre, e luce per chi non è più sulla terra. Ricorro alle parole delle preghiere cristiane, perché non ne saprei altre. E perché sono legate al mistero della vita e della morte. Devo essere cambiato negli anni. Al funerale di mio padre, nel 1986, l’unica cosa che mi sembrò significativa, rituale, fu il picchetto d’onore della Guardia di Finanza, le parole del sacerdote non mi diedero nessun conforto. Invece al funerale di mia madre, 2019, ho pianto sulla spalla del parroco di Porto Maurizio, ringraziandolo per le preghiere, l’aspersione dell’incenso, la vicinanza. Dunque, vedi che posso anche essere tenero verso la Chiesa Cattolica. E ti assicuro che verso Cristo, verso il suo messaggio d’amore e di speranza, ho una devozione crescente.
…ma cos’è poi questa anima? “Una fitta di rimorso”, come cantava Vittorio Sereni?
Fitta di rimorso, e perché? Ah, questi poeti novecenteschi… Per me l’anima il soffio della vita, in noi e nell’universo, il legame tra la materia e lo spirito, il corpo e la mente, la memoria e i desideri, l’anello che tiene l’individuo solo nel cosmo legato al Dio d’Amore che muove tutto, Omero, il mare, il sole, e noi stessi.