Del fatidico Vangelo di Giuda si sapeva già tutto; prima della sua scoperta, prima della traduzione del manoscritto copto del IV secolo, diffuso nel 2006, a brandelli. Da una parte, da sempre, abbiamo il desiderio di una rivelazione arcana, che smuova tutte le altre, risolvendole in un falò. Desideriamo una parola pura, definitiva, complice di ogni nostro desiderio: proprio su questa verità all’eccesso, inseguita e mai agguantata si regge Il Quinto Evangelio di Mario Pomilio (uscito nel 1975), tra i grandi libri del nostro ‘canone’. Il Vangelo di Giuda, cioè, non aggiunge molto a ciò che conosciamo dello gnosticismo grazie ad altri – a volte mirabili – apocrifi (il Vangelo di Tommaso e quello “secondo Filippo”, ad esempio, o la Pistis Sophia). È il ‘personaggio’, però, Giuda, specie di Messia capovolto, ad attrarre, quasi fosse lui l’autentico Pietro, quasi che la storia del cristianesimo, in fondo, non fosse che un gigantesco, sibillino fraintendimento. “Il traditore Giuda ha saputo tutto con esattezza; egli solo tra tutti ha conosciuto la verità ed ha compiuto il mistero del tradimento. Egli ha scomposto così tutto ciò che è terreno e celeste, come dicono”, scrive Ireneo di Lione nell’Adversus Haereses (180 d.C. circa). Ireneo cita il Vangelo di Giuda e afferma di averlo studiato e collezionato per comprendere la natura dei cosiddetti Cainiti – ma il club di chi è connesso a Giuda è vario e comprende: ofiti, sethiani, nicolaiti, carpocraziani –, i quali considerano il mondo, la natura materiale, opera di un dio inferiore, crudele, beffardo. Il mondo, ecco, non va accarezzato con la compassione, ma combattuto, in vista del perfezionamento dello spirito. A ragione di questo, il violento antinomismo dei Cainiti: “In ogni azione peccaminosa e disonorevole c’è un angelo, il quale ascolta le parole di chi agisce e lo sprona a presunzione e impurità”. Come Gesù, anche Giuda ha vissuto la tenebra dell’uomo e un martirio, non corporale ma eterno, sancito dal suicidio come peccato, come colpa, “gravemente contrario al giusto amore di sé” (così il Catechismo della Chiesa Cattolica).
Un legame radicale consegna il Messia al traditore, nel bacio/anello che sigilla le nozze oscure tra i due. Per questo, Giuda ha galvanizzato l’immaginazione dei romanzieri: esiste un Vangelo di Giuda di Roberto Pazzi (1989), un Vangelo secondo Giuda dello scrittore svizzero Maurice Chappaz (pubblicato da Gallimard nel 2001), il Giuda di Lanza del Vasto (1938). Naturalmente, c’è anche il romanzo terminale di Giuseppe Berto, La gloria (1978): “Lui lo sapeva che la sua gloria sarebbe stata dovuta anche a quel che io pagavo in ignominia e dannazione eterna”, dice, in quel monologo serpentino e sublime, Giuda. Prima di costoro, con altra intensità letteraria ma non minore energia, c’è il giovane, rabbioso Alfredo Oriani – l’autore de La rivolta ideale – che nel 1878 pubblica, sulla scia dell’Inno a Satana di Carducci, una Lettera a Giuda Iscariota recentemente tirata fuori dall’oblio (edita da I nipoti dei topi, a fine 2020, per merito di Valerio Ragazzini e con contributi molto interessanti di Mattia Randi e di Davide Bandini). La lettera, appunto, è scritta d’impeto, sorretta dall’indignazione, ribaltando i carismi: Gesù – lo dimostra la storia della Chiesa – ha tradito la sua missione, non ha adempiuto alla promessa; Giuda, invece, è la voce degli oppressi, è l’eroe degli sconfitti, l’angelo sofferente, maciullato.
“Il mondo è ancora diviso in due grandi classi, come il giorno fra la luce e le tenebre, i ricchi ed i poveri, gli sventurati ed i felici; ancora la miseria strappa dalle cune i rattoppati lenzuoli perché i superbi, che hanno letti dorati, li vendano come cenci ed arricchiscano: i bambini hanno freddo ancora, hanno fame, crescono alla brutalità ed al delitto… Fratello, tu lo sapevo e tutti lo sanno: non si nasce uomo, lo si diventa. Ma dovrà la moltitudine essere immolata per l’allevamento di pochi? La storia lo dice e la scienza d’oggi conferma colla fredda alterigia della necessità. La moltitudine umana sarà come pietre dell’edificio della vita, che alcuni abiteranno; la sua brutalità sarà il fango sul quale fiorisca l’idea del genio, il suo dolore diverrà alimento alla felicità degli eletti e dei forti, giacché l’esistenza nell’universo si sviluppa in una lotta fatale, nella quale taluni afferrano un pane ed altri appena una briciola e per tutti non vi sono pani”.
L’eterna ripetizione del dolore, la ruota chiodata del divenire opprime l’uomo e i piani quinquennali della speranza, della rivolta. Certo, Oriani non è Dostoevskij, viene dalla Romagna furibonda e anticlericale, ma il testo ha una sua ingenua potenza: “Ecco l’uguaglianza. Gli schiavi ebbero ancora fame, ancora freddo; ancora abbracciati agli altari del nuovo Dio lo supplicarono di farli uomini e di corregge il mondo… invano! Perché occuparsi del mondo quando il paradiso era alle sue porte, e la morte le apriva? Anche Cristo era stato oppresso: beati i poveri, beati gli oppressi! Così Dio fu sempre tiranno o stette coi tiranni”. Il cristianesimo è letto come fenomeno sociale – “Come a’ tuoi tempi i deboli sono oppressi e i forti oppressori” – e non sapienziale, che pertiene al mondo e al tempo e non al sacro e al rito, perciò Giuda è l’eroe oscuro di una ribellione di massa, nel secolo (“Giuda, prosegui: la lotta è degna di tutti i dolori, di tutto l’odio della terra, è degna di te”).
Giocando con il dogma del caso: Oriani muore nel 1909 e nel 1909 Nils Runeberg, protagonista di Tre versioni di Giuda, il racconto che Jorge Luis Borges inscatola in Finzioni, “pubblicò il suo libro fondamentale Den hemlige Frälsarem”. In quell’opera – ovviamente fittizia – il neo-gnostico Runeberg suppone che “Dio si fece totalmente uomo, ma uomo fino all’infamia, ma uomo fino alla riprovazione e all’abisso. Per salvarci, avrebbe potuto scegliere qualunque dei destini che ordiscono la complessa rete della storia; avrebbe potuto essere Alessandro o Pitagora o Rurik o Gesù; scelse un destino spregevole: fu Giuda”.
Nel 1958 don Primo Mazzolari dedica una celebre omelia a nostro fratello Giuda, “uno dei personaggi più misteriosi che noi troviamo nella Passione del Signore. Non cercherò neanche di spiegarvelo, mi accontento di domandarvi un po’ di pietà per il nostro povero fratello Giuda. Non vergognatevi di assumere questa fratellanza. Io non me ne vergogno, perché so quante volte ho tradito il Signore; e credo che nessuno di voi debba vergognarsi di lui. E chiamandolo fratello, noi siamo nel linguaggio del Signore. Quando ha ricevuto il bacio del tradimento, nel Getsemani, il Signore gli ha risposto con quelle parole che non dobbiamo dimenticare: ‘Amico, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo!’. Amico! Questa parola che vi dice l’infinita tenerezza della carità del Signore, vi fa’ anche capire perché io l’ho chiamato in questo momento fratello”. Secondo l’evangelista Matteo, Giuda si uccide quando Gesù è consegnato a Pilato: con i suoi soldi, restituiti, “prezzo di sangue”, i sacerdoti comprano un campo “per la sepoltura degli stranieri”. I soldi del tradimento si convertono, così, in opera pia: gli stranieri, altrimenti privi di un cimitero, nell’indifferenza della fossa, ora hanno dimora eterna. Questi ignoti stranieri, uomini anonimi ed estranei, sono riscattati dal gesto estremo di Giuda. Matteo scrive che Giuda si impicca; per gli Atti degli Apostoli “si squarciò il ventre, e si sparsero le viscere”, quasi che il traditore voglia svestirsi di sé, spogliarsi della propria iniquità. Secondo una tradizione spuria, dall’albero su cui si è impiccato Giuda è fabbricata la croce su cui è inchiodato il Nazareno.