Enrico Vanzina naviga nei mari del cinema italiano da oltre cinquant’anni. A tutti sarà capitato – e chi non lo ammette, mente spudoratamente! – di citare battute diventate, negli anni, cult. Chi di voi, tanto per dire, e mi riferisco a tutti i vitelloni d’Italia, non ha sognato, anche solo per un attimo, la Selvaggia di Sapore di Mare? Per certi versi, chi vedeva le sue pellicole, con la regia magari di suo fratello Carlo, storceva il naso, si irrigidiva, puntava il ditino.
E se la storia, sommo e insindacabile giudice, dirà qualcosa di più vero e oggettivo su quanto fatto e prodotto da Vanzina, a noi dissidenti, al di là dell’artista, interessava cogliere altro, conoscere l’uomo, con le sue fragilità e debolezze. Le sue nostalgie, i tanti ricordi, le donne amate e desiderate e, da onnivoro qual è tuttora, le letture, e l’amore per la fotografia, l’arte, la scrittura in latu sensu.
Abbiamo cercato, quindi, un altro Enrico, quello che nei giornali e in televisione non viene fuori mai, o quasi. Ciò che ci ha maggiormente colpito, nonostante le burrasche vissute e i dolori e i conti salatissimi che la vita, inevitabilmente, gli ha presentato, è stata la curiosità, una curiosità fanciullesca, di chi vuole ancora esprimersi, dare, raccontare. Il cinismo e il disincanto non l’hanno minimamente attecchito, così come il successo e le luci del palcoscenico perennemente accese sul suo viso e, adesso, sulla sua chioma argentata.
Il Simenon del cinema italiano – così è parso ai nostri occhi per la sua bulimia pop – ci ha accolto nel cuore dei Parioli e il flusso incontenibile delle sue parole ha affrescato gli ultimi quarant’anni del Belpaese. Chi ha voluto, e vuole tuttora, etichettarlo, come l’agiografo o, peggio ancora, il cantore di un mondo dorato e patinato e frivolo, sbaglia, e di grosso. Enrico Vanzina è un ragazzo che, raggiunti i settant’anni, vuole ancora sognare e, perché no?, farci sognare. Speriamo solo, per chi avrà voglia di leggerci, che questa lunghissima chiacchierata invernale possa contribuire a fotografare i dettagli di una vita irripetibile…
F.M / francesco.melchionda@tiscali.it
* * *
Enrico Vanzina, a leggere le sue interviste sui giornali, con quella faccia così bonaria e disincantata, sembra diventato, ai miei occhi, il grande patriarca del cinema comico italiano. Un grande dispensatore di suggerimenti e consigli e aneddoti. Le piace questo ruolo che, forse, è venuto fuori a sua insaputa?
No, non mi piace perché detesto avere consigli. Penso che nella vita bisogna sbagliare da soli. Non penso di avere l’aria disincantata. Sono pervaso da rabbie furibonde e da momenti di tenerezza spaventosi che m’inquietano. Diceva Hemingway: diventando più vecchi, non si diventa più saggi, ma più attenti. E aveva ragione. La saggezza è una stupidaggine. E’ bellissimo sbagliare con i capelli bianchi in testa, forse è anche più bello. Ho visto tanto nella vita, e quello che racconto viene interpretata come saggezza, ma è, invece, solo cronaca.
A 71 anni tondi tondi, ha mai pensato di mettersi da parte e dedicarsi ad altro o, più semplicemente, a non fare nulla e a godersi la vita?
No, mai!
Il numero delle sue sceneggiature ha toccato il numero 106. Da dove nasce questa bulimia?
Non è affatto bulimia, anzi, avrei potuto farne anche 200. Molti altri, invece, si sono fossilizzati su poco, o su un’opera solo. Balzac diceva che non riusciva a scrivere se non aveva un contratto. Ed è vero. Se mi avessero proposto 200 contratti, avrei scritto, appunto, 200 sceneggiature. Si perde molto tempo, secondo me, a fare le cose solo per sé stessi. Se c’è un’urgenza, una commissione, un obbligo contrattuale, si lavora meglio.
Pensa ancora di poter fare e raccontare ancora qualcosa che veramente non già abbia sceneggiato?
Penso di sì, perché mi stupisco sempre di più rispetto a quello che mi stupiva prima. Chi fa cinema, si deve stupire e guardarsi sempre intorno. E non è facile riuscire a farlo, perché si è indolenti, o presi dal sentimentalismo e dalle beghe d’amore.
Mi sono sempre chiesto, guardando i suoi film, il motivo che l’ha spinta, in tutti questi anni, a raccontare, in maniera quasi ossessiva, un certo tipo di mondo, il generone romano, i soldi, la vanità, i frizzi e i lazzi di una gioventù dorata lontana anni luce dal mondo reale. Come mai? Invidia, curiosità, voglia, anche solo idealmente, di farne parte?
E’ una domanda sbagliata, la sua. Negli anni, con mio fratello Carlo, ma anche da solo, abbiamo descritto tanti mondi, non solo quello legato al mondo dorato di cui parlava lei nella domanda. Abbiamo fatto film gialli, melò, politici. È un pregiudizio che non mi sta bene!
Perché, ad esempio, non spostare il suo binocolo sulla gente povera, sui quartieri di periferia, sulle borgate? Non l’attrae l’uomo comune? Eppure ce n’è di comicità tra le persone povere…
Io credo che abbiamo fatto più film sulla classe popolare che non sulla classe ‘alta’. Febbre da Cavallo, i film con le rapine, o quelli con Abantantuono, o le pellicole dove parlavamo dei ricchi, i veri protagonisti, in realtà, sono quelli della classe popolare. Anche questo mi sembra un pregiudizio ideologico. E lo trovo stolto. E quando c’è un pregiudizio, non si vede la realtà per quello che è. Ad esempio, ho raccontato il mondo degli Ottanta, e quello che mi stava attorno. E siccome quella fase storica del nostro Paese è stata molto criticata, sono passato come un cantore, quando, invece, nei miei film c’erano grosse prese per il culo! Chi non lo vede non ha il senso dell’umorismo. E’moralista. E Dio me ne liberi!
Se si distaccasse, anche solo per un momento, dai film che ha scritto, e si mettesse dalla parte di uno spettatore, considererebbe i suoi film, più pop, o cinici?
I nostri film hanno avuto una grande fortuna: sono stati aiutati dal tempo. Per anni, e succede ancora oggi, le nostre pellicole, oltreché al cinema, sono stati proiettati sul piccolo schermo, e questo ha attraversato tutte le generazioni. Nel bene e nel male, se mi mettessi dalla parte dello spettatore, il nostro cinema lo considererei pop, senza ombra di dubbio. E poi, io, anche più di Carlo, sono una persona pop, perché la mia curiosità mi ha sempre portato alla comprensione dei fenomeni popolari, cercando di raccontarli con un minimo di stile e delicatezza. Secondo me, lo sguardo pop negli ultimi decenni ha raccontato benissimo la nostra realtà. E mi fa piacere essere considerato un piccolo rappresentante pop della storia culturale italiana. Piccolo piccolo.
Le è mai capitato, in maniera inconscia, di calarsi, nella vita reale, in uno dei personaggi inventati?
No, ho un distacco totale dall’autobiografia.
Se potesse, oggi, quale film riscriverebbe daccapo?
Nessuno. Perché quando si sbaglia, si sbaglia, e non si può mettere nessuna pezza come rimedio.
Qual è, secondo lei, la pellicola meno riuscita della sua carriera?
Sembrerà strano quello che dico, ma sicuramente Sapore di Mare. E’ un film bello, ma poteva venire molto più bello.
Perché, cos’è che non ha funzionato?
Eravamo troppo giovani, e non ci stavamo rendendo conto di quello che stavamo facendo. Se lo rifacessi oggi, sarebbe sicuramente più profondo e curato. Ma forse la sua acerbità giovanile lo rende quello che poteva essere. Quindi va bene così.
Flaiano, che tutti citano, ma che pochi hanno letto e compreso realmente, era un amico di famiglia; secondo lei, sarebbe stato felice, da sceneggiatore sublime qual era, dei suoi film?
Penso che sarebbe stato contento di aver trovato qualcuno che, immodestamente, ha cercato di seguire quella sua linea di pensiero. Mi sono ispirato moltissimo a Flaiano, e non solo quando ho scritto le sceneggiature ma, anche, quando scrivo sui giornali o i libri. E’ il mio idolo assoluto, forse anche per via della nostra conoscenza.
Qual era il pregio che apprezzava di più in Flaiano?
L’intelligenza, sicuramente. Un’intelligenza assolutamente italiana, assolutamente fuori dal coro, anticonformista.
Cosa intende per intelligenza italiana?
Saper miscelare l’alto e il basso, la cultura raffinata e le battute rubate in giro.
Era cinico Flaiano?
Uno che ama scrivere non è mai cinico.
Di attori e attrici, in tutti questi anni, ne ha visti tanti. Quali sono stati quelli che l’hanno delusa più, e umanamente e professionalmente?
Non sono molto attratto dagli attori in generale. Mi piacciono le cassiere, gli avvocati, i meccanici.
Perché proprio gli avvocati?
Perché gli avvocati sono i veri attori, mentre gli attori spesso sono degli avvocati mancati. I quali perorano la loro causa. Tornando alla sua domanda, le dico che essere deluso dagli attori fa parte del contratto iniziale. Sai già in partenza, che ti tradiranno. Sono dei Giuda, però come Giuda ha accresciuto il mito di Cristo, gli attori, direttamente e indirettamente, ti aiutano a crescere. Mi hanno tradito in tanti, facendomi delle porcate inenarrabili.
Quali sono le peggiori porcate che ha subito?
Quando nei loro libri, ad esempio, scrivono delle cose false. O dimenticano. Che è anche peggio.
Ci faccia un esempio, così per capire meglio di cosa stiamo parlando…
No, non mi va. Finirei per recitare anche io.
A quale attore, oggi, metterebbe in bocca le battute e le sguaiataggini che le vengono in mente quanto scrive la storia di un film?
A tutti gli attori giovani e bravi, ma non è facile. Siamo nell’antidivismo e questo non mi piace. Un tempo gli attori conservavano un loro mistero perché apparivano raramente. Oggi, come lei ben sa, questo non accade perché gli attori sono sempre in vetrina. I veri divi del cinema, oggi, sono i registi.
Qual è stata, secondo lei, la più grande maschera del cinema italiano?
Sordi e Totò, senza ombra di dubbio. Banale?. Però è così.
Con quale produttore cinematografico ha litigato di più, e per soldi e per le idee?
Non ho lavorato con tanti produttori. Ho avuto un’accesissima discussione, agli inizi della mia carriera, con Goffredo Lombardo; ma lo ringrazierò sempre perché mi ha fatto esordire. E, nel recente passato, con Aurelio De Laurentiis, perché non la vedevamo allo stesso modo su alcune cose legate ad un film. Ma voglio molto bene anche a lui.
Il dissidio da dove nasceva?
Il dissidio, se così possiamo definirlo, nasceva sulle idee, su come sviluppare un progetto, una scena. Ma fa parte tutto del gioco, anzi ben vengano le discussioni che aiutano a far crescere un film. I produttori un tempo magari non erano molto colti, ma avevano una grande sapienza popolare e, quindi, vuoi o non vuoi, dovevi stare lì ad ascoltarli e capire perché ti facevano un appunto. Tutto il contrario di oggi.
Perché?
Perché il cinema è finito nelle mani di manager che spesso conoscono poco cosa voglia dire fare un film. Manager spesso stranieri, che stanno all’estero, e che fanno cinema con soldi che non solo i loro.
E con quali soldi, scusi?
Quelli delle loro grandi compagnie.
Cosa pensa della dinastia dei Cecchi Gori?
Erano entrambi geniali, sia Mario che Vittorio, anche se quest’ultimo è stato visto e raccontato dalla stampa come uno che non capiva nulla. E chi lo dice, sbaglia. Vittorio ha avuto intuizioni pazzesche, ha fatto fare il salto di qualità alla sua casa di produzione, ha vinto Oscar, ha intravisto il potenziale del cinema oltre i nostri confini, ha capito l’importanza del connubio cinema-televisione.
Dove ha sbagliato, allora, Vittorio Cecchi Gori?
Dove sbagliamo tutti: ha permesso che il suo carattere prendesse il sopravvento sulla sua intelligenza.
Il successo, la fama, i soldi, la vetrina, la prima pagina, l’hanno mai fatta sentire un megalomane, travolto dal delirio di onnipotenza?
Ma cosa dice?!…No, mai, perché mio padre mi ha spiegato subito che se avessi sbagliato due film di seguito, la mia carriera sarebbe finita. Il successo è qualcosa di semplice. Se non cadi nelle piccole trappole legate al successo, ti salvi, e anche facilmente. Anche l’insuccesso, e l’ho conosciuto, aiuta a non cadere.
Qual è stato il più grande insuccesso o i film sbagliati?
Il film più brutto è stato Banzai, con Paolo Villaggio. Ci siamo cullati in fesserie assurde, e abbiamo fatto un film orrendo. Il lato positivo di quell’esperienza, per certi versi meravigliosa e formidabile, è che abbiamo conosciuto il Giappone come nessuno avrebbe potuto fare.
Quali sarebbero le fesserie assurde di cui parla?
Scrivere cose in malafede. E’ il peccato più grande che può commettere uno scrittore.
Chi era il produttore di quel film?
Fulvio Lucisano. Un grande produttore. Una persona perbene.
Come la prese, Lucisano, il fallimento anche economico di quel film?
Da grande produttore. Si dimentica e si va avanti.
Cosa disprezza di più, la prostituzione del corpo o quella cerebrale?
Tutt’e due. Le ho viste entrambe, e spesso, e fanno parte dell’animo umano. Affrontare questo argomento con moralismo, è assolutamente inutile. Spesso, le persone che vivono in quel modo hanno però una vita interiore meravigliosa e più ricca rispetto a chi, magari, non si è mai prostituito. Fare i conti con la morale alla mia età è molto complicato.
Perché?
Perché anche la mia ha spesso vacillato e non posso far finta che questo non capiti nella vita, e chi si spinge su quel terreno, cioè del moralismo, è, per me, insopportabile.
Quando ha vacillato? Ci faccia un esempio…
Quando ho pensato di essere più furbo degli altri. Non lo sono. Mi viene male.
Quanta prostituzione c’è nel cinema italiano?
Poca, pochissima. Perché il cinema italiano non esiste, o quasi. Oramai girano pochi soldi. E chi si prostituisce lo sa. Va altrove.
In che senso non esiste?
Vale poco. Sia in termini economici che di stima da parte degli italiani. Sono tutti incollati alle serie straniere.
È mai stato adulato, da attori e attrici, per avere una parte o, peggio ancora, una particina?
Adulato mai. Poi, che qualche ragazza mi abbia fatto intendere che ci poteva essere una scorciatoia, sicuramente non lo posso negare. Ma questo, penso, capita in qualsiasi luogo di lavoro.
Nomi?
Vuole che faccia la spia? Nemmeno sotto tortura, fare la spia fa schifo. Più di Banzai..
Quanti compromessi ha dovuto costruire, se così possiamo dire, con i produttori e distributori per fare in modo che i suoi soggetti e le sue storie potessero vedere la luce?
Nessuno, mai. Ma non sono l’unico. Per cui non me ne vanto affatto.
A Paolo Bricco, del Sole 24 Ore, ha detto: «La domenica cenavamo tutti insieme da Suso Cecchi D’Amico, nella casa di Via Paisiello. Eravamo sempre una quarantina. Tutte le volte si componeva la grande famiglia del cinema italiano. I registi e gli sceneggiatori, musicisti, i produttori e gli attori. Era qualcosa di speciale. Nessuno parlava di soldi, a differenza di quello che fanno quelli del cinema oggi, che parlano in continuazione di incassi e ingaggi, una cosa molto cafona. Nessuno, allora, diceva male degli altri. Tutti si rispettavano”. Io non penso sia così. Se lei legge Ritratti Italiani di Arbasino, ad esempio, viene fuori una realtà una completamente diversa, fatta di capricci, invidie, dicerie, arroganza, sgarbi. Mi viene da chiederle: è solo la nostalgia, la sua? Perché idealizza un mondo a colori che, nella realtà, aveva tante sfumature verso il nero?
No, ma quel gruppo che frequentavo io era fatto così. Scarpelli, Monicelli, tanto per fare due nomi, non avevano invidie, così come gli altri. Vivevano il lavoro e il successo con grande rilassatezza e tranquillità. C’era un rispetto totale, eravamo davvero una grande famiglia.
Le è mai pesato essere considerato figlio di papà, soprattutto agli inizi della sua carriera?
E’ stata un’arma a doppio taglio; da un lato il vantaggio di vivere in un contesto familiare molto stimolante, dove si respirava cinema tutti i giorni; dall’altro lato, invece, è una grossa fregatura. Se non sei all’altezza del nome che porti, poi, la tua carriera può finire all’istante.
Come mai, nel tempo, la sua scrittura ha preso anche la strada della narrativa?
Perché doveva essere quello che volevo fare sin dall’inizio della mia carriera. Ci sono arrivato tardi, alla narrativa, perché non avevo trovato il passo del narratore e poi perché, probabilmente, non ero maturo per cimentarmi in questo genere letterario. Crescendo e lavorando anche per i giornali, sono riuscito a trovare la strada per scrivere libri come, ad esempio, Una sera a Roma.
Perché ha deciso, con Una sera a Roma, di mettersi a nudo? E’, per certi versi, una sorta di autobiografia…
Ho soltanto seguito la storia. Era una storia mia e il romanzo è diventato un po’ me…
Si sente uno scrittore vero o un mero raccontatore di storie?
Vorrei essere, ad essere sincero, più un mero raccontatore di storie. Ma, qualche volta, anche uno scrittore vero. Il problema è riuscirci…
Il critico D’Orrico l’ha paragonata, per certi versi, a Chandler. Si sente lusingato o pensa, piuttosto, che il giornalista di Sette sia partito in un panegirico senza senso?
D’Orrico non lo conoscevo, e quando ho scritto Il gigante sfregiato, glielo mandai, per avere semplicemente un parere. Alla lettera, lui non rispose. Tempo dopo, scrisse una recensione lusinghiera sul mio libro. Anche Una sera a Roma, tanto per dire, è stato recensito due volte di seguito sul settimanale Sette, il che mi ha attirato non poche antipatie da parte degli scrittori, invidiosi. Quindi, sono assolutamente lusingato da D’Orrico, che considero un grande critico.
Se Dostoevskij e Balzac scrivevano perché rincorsi dai creditori, qual è la molla che la spinge a mettersi davanti ad un pc e a scrivere un libro?
Come diceva Flaiano: uno scrive nel tentativo di sconfiggere la morte. Di solito, però, si perde.
Quale letture l’hanno segnata, e non per la carriera, ma, piuttosto, per la vita che poi ha condotto?
Kerouac è stato un grande amore; e poi Proust (il mio preferito), Balzac, Scott Fitzgerald, Flaiano, Natalia Ginzsburg (la più brava a scrivere), Tolstoj (Guerra e Pace il più bel romanzo della storia della letteratura) su tutti. Lo scrittore che, poi, considero inarrivabile è Borges: fa della metaletteratura e farla è ancora più complicato.
Nel fare lo sceneggiatore, la lettura dei libri le è tornata utile?
Per fare lo sceneggiatore bisogna conoscere la storia della letteratura. E questo vale anche per la pittura e la musica, che ti aiutano a ricreare le immagini, i personaggi e i movimenti.
Attraverso i libri, si sente un uomo migliore?
Certe volte peggiore, perché mi trovo di fronte delle persone che mi fanno arrabbiare perché di gran lunga superiori a me.
Flaiano, Mario Soldati, Leo Longanesi ed Ercole Patti. Chi butterebbe dalla torre?
Forse butterei dalla torre Longanesi perché, per lo smisurato talento che possedeva, ha scritto meno rispetto a quanto avrebbe potuto e dovuto. Speriamo che mio padre non ci legga. Longanesi era il suo idolo assoluto.
I suoi film, per certi versi, hanno incarnato anche un modello di vita, un inno ai piaceri, all’edonismo. Si sente edonista?
No, per niente. Ma mi piace vivere. Sono una persona semplice con una punta di snobismo.
Perché snob?
Perché mi sento leggermente superiore a molti cafoni che spadroneggiano in giro. Gli intelligenti, anche antipatici, possono spadroneggiare. I cafoni, no.
Potesse tornare indietro, sposerebbe più lo stoicismo o l’epicureismo?
Nessuno dei due. Mi piacerebbe essere più profondo da un punto di vista religioso, quindi il fideismo. Riuscire a credere è una conquista definitiva.
Quante volte ha tradito nella sua vita?
Tantissime. Ho tradito le donne, mai gli amici.
Si è mai pentito?
Uno, due volte, sì. Sono sempre stato molto onesto con le persone che ho amato. E ho spiegato loro che sono una persona infedele in partenza. E sempre per curiosità.
Si considera un buon marito?
Nonostante tutto, penso di sì.
Cosa considera più importante, l’amore o l’amicizia?
Ma vogliamo scherzare? L’amicizia. Poi se l’amore trionfa, meglio. Hollywood lo ha capito cento anni fa.
Quali sono state le colonne sonore della sua vita?
Essendo pop, i Beatles, ma anche tanto jazz. Il blues, bellissimo, ma troppo ripetitivo. Negli ultimo anni, invece, mi sono avvicinato all’Opera, e ho scoperto la grandezza di Puccini, più grande anche di Verdi.
Si sente malinconico?
In certi momenti, molto. E considero la mia scrittura fondamentalmente malinconica. Qualche volta, per fortuna azzecco qualcosa di buffo.
Ha conosciuto la depressione?
Non direttamente, ma quella di mia madre, sì. Mia madre è morta di depressione, e per ben due volte l’ho salvata dal suicidio. E temo sempre che mi possa venire perché è una malattia anche ereditaria.
Ogni volta che mi capita di venire ai Parioli, mi vien voglia di scappare subito. Perché ha scelto di lavorare in uno quartiere così triste e omologato?
Per tanti anni, da ragazzino, ho vissuto ai Parioli. E mi trasmette, questo quartiere, una sensazione ambivalente. Da un lato, mi piace perché ogni casa mi ricorda qualcuno del passato – Monicelli, Cortese, Germi, tanto per dire – e poi perché le sue discese e salite le trovo molto belle; dall’altro, mi irrita, nonostante sia considerato il cantore dei Parioli. Una delle tragedie vere della mia vita.
Perché questo quartiere la irrita?
Perché non sono più i Parioli. E’ un luogo triste, noioso. Pieno di uffici. Non ci sono più i giovani. E’ diventato molto qualunque. Un tempo, era un’altra cosa; era un luogo dove c’era tutto il cinema italiano, era liberale, elegante, e l’eleganza è molto importante nella vita.
Quali sono le sue peggiori debolezze?
Mi piaceva molto bere, la vodka, soprattutto. E, per un periodo breve della mia vita, ero molto attratto dal gioco dei cavalli, un mondo orrendo e miserabile. Mia moglie, bravissima, mi ha saputo subito mettere in riga. E’ stata, però, un’esperienza formativa perché poi ho scritto Febbre da Cavallo.
Da romanista sfegatato qual è, ha visto il documentario su Totti? Non pensa che il doc abbia sfiorato l’agiografia e che non abbia detto nulla di nuovo? Insomma, una mera operazione commerciale…
Totti non si discute. Si ama.
Si sente più romanista o ‘tottista’?
Romanista. Totti è solo una grandissimo giocatore. La Roma è una fede.
Si sente più provinciale o cosmopolita?
Mi sento romano.
Oggi Roma è periferia, però…
Proprio no. Roma non è mai stata periferia. Roma, in questo momento, è una capitale brutta, ma capitale assoluta.
Dei tanti talenti dell’essere umano, qual è quello che avrebbe voluto possedere e che, invece, scorge in altre persone, magari anche che detesta?
Avrei voluto saper dipingere. La pittura mi entusiasma. Ma non ci riesco.
Chi sono i suoi veri amici? C’è n’è qualcuno non patinato?
Lei mi vede proprio messo male. Ho amici medici, meccanici, matematici, giocatori d’azzardo. Poi, è chiaro, lavorando nel cinema da tanti anni, ho instaurato bellissime amicizie anche con gente del mio ambiente.
Pasolini sosteneva che gli amici veri sono cinque al massimo, gli altri sono lupi. E’ d’accordo?
E’ grave, ogni tanto, non essere d’accordo con Pasolini?
Quanto conta o ha contato il denaro per lei?
Ha contato perché mi ha permesso di fare quello che volevo in assoluta libertà. E senza avere particolari preoccupazioni.
E’ più avaro o generoso?
Ancora? Anche avaro? No, sono generoso. L’avarizia non mi piace affatto. Tornando agli attori, ecco, loro sono spesso molto avari.
Da figlio d’arte, le vigliaccherie e scorrettezze nella sua cinquantennale carriera le ha più prese o, come può banalmente accadere, è stato artefice di comportamenti brutti?
Ho subito perché, forse, me le sono anche cercate, e ciò accade quando ti metti in gioco. Una cosa che, invece, non riesco ancora a perdonarmi accadde quando girammo il film Buona giornata. Tagliammo, all’insaputa di un gruppo di attori giovani del sud, un intero episodio che non s’incastrava con il resto del film. E fu una grande cattiveria nei loro confronti. Credo di averli feriti al cuore e me ne dispiaccio moltissimo, ancora oggi.
Ha mai temuto che il grande gioco del cinema, perché di questo si tratta, di un mero gioco virtuale, potesse finire da un momento all’altro?
Il vero gioco è avere successi e insuccessi, e non ho mai temuto che potesse finire all’improvviso.
Come l’ha vissuto il successo?
Il successo mi ha permesso di incontrare persone formidabili e molto più brave di me, e di imparare tante cose. Il successo non è una fregatura, perché permette di migliorarti, a patto che non ci si metta l’occhiale da sole.
Cosa intende con “occhiale da sole”?
Molti fanno di tutto per diventare famosi poi quando ci riescono si mettono gli occhiali da sole per non essere riconosciuti….
Vanzina, prima di chiudere questa intervista, ci aiuti a capire meglio quello che è successo dopo l’uscita del libro che lei ha scritto in memoria di suo fratello Carlo. Le sue parole, toccanti e delicate e nostalgiche, cozzano contro quelle pronunciate, invece, da sua cognata, Lisa Melidoni. Dov’è la vera verità?
Io saprei dove è. Ma siamo il paese di Pirandello..
Perché sua cognata si è sentita in diritto di ribattere pubblicamente, e anche con una certa ferocia?
Non lo so. Verrà giudicata o dimenticata dal Tempo. Il Tempo è un giudice infallibile.
Soffre per quanto accaduto?
Moltissimo.
I rapporti si sono ricuciti?
Nei romanzi si ricuciono? Quasi mai.
Alla sua età, con il bagaglio di conoscenze ed esperienze accumulati, cosa ha capito della vita?
Che è un viaggio meraviglioso. Anche spostandosi poco da casa.