Molti anni dopo la sua morte gli economisti continuano ad interrogarsi sui paradossi di Joseph Schumpeter. In una delle sue opere più conosciute, Schumpeter si chiedeva retoricamente: “può sopravvivere il Capitalismo?” e la sua risposta lasciava spazio a pochi dubbi: “no, non credo che possa”. Un’idea tutt’altro che originale, ma a differenza di altri critici del Sistema, Schumpeter non nutriva alcun dubbio sull’efficienza economica del capitalismo, ne ammirava in realtà la capacità di realizzare il massimo potenziale grazie alle continue innovazioni tecnologiche che autoalimentava.
Da molti considerato insieme a John Maynard Keynes uno degli economisti più importanti del ventesimo secolo, a differenza dell’inglese Schumpeter non è mai riuscito ad avere una significativa influenza sul grande pubblico. Le sue idee hanno avuto relativamente poca presa tra i giovani intellettuali della sua epoca, e ancora oggi riceve meno considerazione di quanto la sua analisi del sistema capitalista meriterebbe.
Joseph Alois Schumpeter nasce nel febbraio 1883 a Triesch in Moravia, oggi Repubblica Ceca, ma allora parte dell’impero Austro Ungarico. Cattolico e di buona famiglia, si trasferisce da piccolo a Graz in seguito alla morte del padre. Da subito si notano le sue capacità da studente, tanto che la madre, nutrendo progetti ambiziosi per il piccolo “Jozsi”, convola a nuove nozze con il nobile Sigismund Von Keler, in modo da assicurare al figlio la possibilità di frequentare le migliori scuole. Trasferitosi a Vienna Schumpeter segue i corsi al “Theresianum”, la prestigiosa istituzione delle élites austriache, ed in seguito all’Università di Vienna, dove studierà giurisprudenza.
Proprio durante il periodo universitario Schumpeter rimane affascinato dagli studi economici e allaccia rapporti con alcuni grandi economisti, tra cui Carl Menger, il fondatore della “scuola austriaca”, famosa per aver contribuito ad introdurre il concetto rivoluzionario di utilità marginale, in aperto contrasto con le impostazioni classiche di Smith e Ricardo. Durante quegli anni ha modo di frequentare altri grandi economisti, tra cui Friedrich von Wieser, Eugen von Böhm-Bawerk e Ludwig von Mises.
Dopo la laurea si sposta in Gran Bretagna, dove convola a nozze con Gladys Ricarde Seaver nel 1907 e con lei si trasferisce al Cairo, dove svolge la professione di avvocato. Il suo interesse per l’economia prosegue e arrivano i suoi primi lavori, articoli dove appare chiara la sua aspirazione allo studio e soprattutto all’insegnamento di questa materia.
Il problema è che Joseph Schumpeter è una persona difficilmente catalogabile. Sebbene influenzato dalla scuola economia austriaca, non si considera, né può essere considerato, allievo di nessuno, mantenendo una grande indipendenza di pensiero. Questo non faciliterà il suo ingresso nell’ambiente accademico, da sempre avverso agli spiriti liberi.Nonostante questo e grazie all’intercessione di Böhm-Bawerk, Schumpeter ottiene la cattedra di Economia Politica all’Università di Czernowitz nel 1909 e poi, sempre grazie a Böhm-Bawerk, all’Università di Graz.
Con lo scoppio della Prima guerra mondiale si incrinano i rapporti con la moglie, restia ad abbandonare l’Inghilterra per raggiungerlo. Per questo motivo i due divorzieranno alla fine del conflitto.Con l’elezione del primo Parlamento della Repubblica Austrica, Schumpeter riceve a sorpresa nel 1919 la carica di Ministro delle Finanze. La situazione in cui si trova la neocostituita repubblica è drammatica, la disgregazione dell’impero e la sconfitta della guerra richiedono misure straordinarie per uscire dalla profondissima crisi economica. La ricetta di Schumpeter è basata su un’elevata imposta patrimoniale, ed in generale su un aumento delle imposte indirette volto a facilitare il risanamento del bilancio pubblico; ma anche sulla creazione di una Banca Centrale completamente indipendente. In realtà il suo incarico durò solo sette mesi e la sua riforma non venne attuata. Ma proprio grazie al prestigioso incarico ministeriale diventa presidente della Biedermann Bank. Sfortunatamente anche questa avventura non finirà bene, e a seguito della crisi finanziaria del 1924 viene destituito dalla sua carica e si ritrova disoccupato e con una montagna di debiti sulle spalle, dovuti a diversi investimenti andati malissimo.
Torna così nel 1925 all’insegnamento presso l’Università di Bonn e in questa città conosce quello che considererà il grande amore della sua vita, Anna “Annie” Reisinger, di umili origini e di venti anni più giovane, che diventerà la sua seconda moglie.
Il 1926 diventa un anno terribile per Schumpeter che perde la madre a cui era legatissimo e subito dopo la giovane moglie a causa di una gravidanza difficile. Si trasferisce così negli Stati Uniti, prima ad Harvard dove svolge l’attività di Tutor, e poi a Cleveland dove presiederà la neonata Econometric Society. Tornerà ad Harvard nel 1932 e dal 1935 potrà ottenere la cattedra di Teoria Economica al prestigioso ateneo statunitense.Non viene considerato un insegnante particolarmente brillante, ma può annoverare tra i suoi studenti economisti che poi ricopriranno ruoli importanti, come Paul Samuelson, Richard Goodwin e James Tobin.
Nel 1936 Keynes pubblica la sua Teoria Generale dando vita alla rivoluzione keynesiana che in qualche modo sconvolgerà Schumpeter, che pur ammirando l’economista di Cambridge, non ne condivideva le conclusioni. Si mise così a lavorare alacremente, dedicando cinque anni di tempo a quella che nelle intenzioni doveva diventare la sua risposta a Keynes nonché la sua opera principale: “Business Cycles: A Theoretical, Historical, And Statistical Analysis of the Capitalist Process”.
In realtà la pubblicazione del libro fu un clamoroso insuccesso: pochissime copie vendute e un impatto molto relativo nella comunità accademica. In un certo senso questa delusione portò Schumpeter, che nel frattempo si era risposato per la terza volta con l’economista Elizabeth Boody, a dedicarsi ad analizzare il futuro del sistema capitalistico, teorizzato nel libro “Capitalism, Socialism and Democracy”, uscito nel 1942, che sarà invece un successo inatteso ed è il contributo più originale ed acuto di Schumpeter alla teoria economica. Joseph Schumpeter muore a Taconic, nel Connecticut, l’8 gennaio 1950.
L’originalità del pensiero di Schumpeter consiste nel pensare al crollo del capitalismo non a causa del suo fallimento economico, bensì dal suo enorme successo, che andrà inevitabilmente a minare le istituzioni che proteggono il sistema capitalista, creando delle condizioni che gli impediranno di sopravvivere e favoriranno l’ascesa del socialismo.
Il capitalismo è per Schumpeter un sistema estremamente dinamico e tendente all’innovazione. Per la teoria classica le economie di mercato sono sistemi statici, in cui le imprese producono gli stessi beni utilizzando le stesse tecnologie. La battaglia per la concorrenza si svolge quindi sul fronte dei prezzi. Ma nel mondo reale Schumpeter osserva che le imprese introducono nuovi prodotti o migliorano quelli esistenti, così come implementano nuove tecnologie. La concorrenza si sposta quindi dal piano dei prezzi a quello dell’innovazione, nuovi prodotti resi più appetibili con specifiche tecniche di marketing.
La visione del capitalismo di Schumpeter viene sintetizzata con il termine Distruzione Creatrice ed ha per protagonista l’imprenditore. Nel tentativo di espandere le sue quote di mercato, l’imprenditore è alla costante ricerca di nuovi prodotti o nuovi metodi per produrli in maniera più efficiente. Se questo sforzo ha successo, l’imprenditore ha di fatto modificato lo scenario economico, facendo sorgere un nuovo mercato o introducendo nuovi sistemi di produzione. Ma se vi è il lato creativo dell’innovazione, occorre guardare anche al lato distruttivo. Se l’innovazione porta profitti a chi la mette in pratica, genererà però copiose perdite a chi ne subisce le conseguenze negative, ovvero quelle imprese le cui merci sono soppiantate e che spesso sono destinate al fallimento.
Anche Karl Marx ha parlato diffusamente di distruzione creatrice del capitalismo, ma mentre per Marx l’enfasi sulla distruzione portava a condannare il capitalismo come sistema, per Schumpeter la creazione era l’aspetto fondamentale, la distruzione diventava un mero dato di fatto, scevro da considerazioni filosofiche sull’etica di questo processo: una semplice questione di efficienza.
Secondo Schumpeter la distruzione creatrice ridefiniva anche il modello concorrenziale. Mentre per i classici la concorrenza era rappresentata dal numero di operatori su un dato mercato, per l’economista austriaco la concorrenza effettiva doveva tener conto delle minacce potenziali da parte di nuovi soggetti, che proprio a causa dell’innovazione potrebbero distruggere anche le più robuste posizioni monopolistiche. Di conseguenza anche il monopolista viene costretto ad avere una costante spinta innovativa, per prevenire ed anticipare potenziali concorrenti.
La distruzione creatrice, stimolata dalla ricerca spasmodica del profitto, diventa così la spinta primaria per l’evoluzione del sistema capitalista.
Ma l’innovazione procede ad ondate, dando vita a rapide espansioni economiche che porteranno a fenomeni inflattivi, i prezzi più elevati rallenteranno l’espansione dei mercati e i nuovi investimenti. L’attività economica si indebolirà, vi sarà un eccesso di capitali e di forza lavoro e ci si avvierà verso una depressione. Per Schumpeter questo non è altro che il processo con il quale il sistema capitalista si adatta alle innovazioni; una volta che lo avrà fatto si tornerà alla piena occupazione, fino a quando una nuova ondata di innovazioni si affermerà.
Il sistema capitalista offre dei premi, in termini di alti profitti, che spingono sempre più persone a perseguire l’attività imprenditoriale, convinte che il successo nella vita non può prescindere da quello negli affari. Il problema per Schumpeter è che non possiamo essere certi che questa tipologia di premi continui ad attirare sempre nuove imprese e quindi a stimolare nuove innovazioni: al contrario, gli imprenditori rischiano di diventare figure obsolete.
Paradossalmente è la razionalità tanto amata dai classici a rovinare lo spirito imprenditoriale. Per Schumpeter essere razionali vuol dire perdere la magia, l’incantesimo che ti spinge ad osare per avere una grande ricompensa. La ricerca del progresso viene quindi lasciata nelle mani di scienziati che lavorano in enormi laboratori, o ancora in team di manager che lavorano per una data organizzazione; il successo di mercato diventa sempre meno personale. La figura del borghese imprenditore-innovatore viene sempre più sostituita dal burocrate alle dipendenze della multinazionale, e diventa così vulnerabile.
Il pericolo della concentrazione delle imprese in grandi agglomerati non è quindi per Schumpeter il rischio di portare ad un monopolio o ad un rallentamento dell’innovazione, bensì quello di separare la borghesia imprenditoriale dal management delle imprese stesse, creando così una classe dirigente che ha solo una remota relazione con gli interessi dei proprietari.
Mentre Marx afferma che il capitalismo verrà sconfitto da una violenta rivoluzione proletaria, Schumpeter crede invece che si indebolirà progressivamente, finendo per crollare su sé stesso. Il capitalismo è così condannato dal suo successo, che porterà a valori ostili al sistema capitalista, specialmente tra gli intellettuali.
La disoccupazione o semplicemente la mancanza di soddisfazione crescente nello svolgere il proprio lavoro, causata dalla progressiva perdita di influenza della borghesia imprenditoriale, porterà ad una critica intellettuale sempre più feroce, a proteste e a manifestazioni di massa. Il clima sociale ed intellettuale necessario per favorire l’imprenditorialità andrà a svanire, venendo sostituito dal “laburismo”, l’ultimo stadio del sistema capitalista, ovvero un sistema caratterizzato da politiche favorevoli al lavoro piuttosto che all’impresa.
Per Schumpeter gli intellettuali sono “persone che esercitano il potere attraverso la parola scritta senza doversi assumere la responsabilità per quello che hanno detto. La loro penna può, infatti, essere più potente della spada”. La sua avversione a questa categoria di persone lo spinge ad affermare che l’intellettuale non è altro che una persona insicura, che sente la mancanza di un lavoro manuale ed ha una immagine distorta del capitalismo: il guaio, tuttavia, è che ha anche il potere di trasmettere queste distorsioni alle masse.
Questa è ovviamente la parte più debole di tutta la teoria di Schumpeter, in quanto in realtà il tipo di intellettuale che aveva in mente si è mostrato molto più devoto al sistema di quanto pensasse l’economista, trovando facilmente spazio nelle università, nelle fondazioni e nelle multinazionali.
Ma questo non può inficiare il pensiero di Schumpeter, che ha trovato grandi conferme negli anni seguenti al secondo conflitto mondiale. Il Capitalismo ha mostrato tutto il suo vigore, ma il corso degli eventi lo ha sicuramente modificato: la funzione imprenditoriale è stata istituzionalizzata e la borghesia ridimensionata.
La studio delle dinamiche del sistema capitalista è probabilmente il suo più grande lascito, profetico nell’ipotizzare sia la totale sostituzione di macchine negli stabilimenti con pacchetti azionari sia lo scenario in cui una proprietà diventa sempre meno presente fisicamente. Queste ricerche lo porteranno ad una triste conclusione:
“Una volta smaterializzata, sfunzionalizzata e assenteista la proprietà non eserciterà più il suo fascino tipico e vitale. Un giorno non ci sarà più nessuno al quale veramente prema di difenderla, nessuno all’interno e nessuno all’esterno dei confini dell’azienda-gigante”