«Ci fu l’epoca dei rivoluzionari, ci fu il tempo dei ribelli. Questa è l’età degli scontenti. Siamo scontenti della vita che facciamo e di noi stessi. Il potere ci vuole insoddisfatti, per generare desideri e dipendenza. Ma qualcosa non è andato come previsto».
Un’eterna estate (metafora perfetta dell’inferno) dello scontento. È questa la metafora perfetta per raccontare il mondo odierno. Un inferno annoiato in cui i ritmi e le regole della vita sono annullate in un lungo sonno senza sogni collettivo in cui gli scontenti vivono come dannati imprigionati in astuti gironi danteschi.
Gli scontenti sono i volti che affollano il presente, facce composte, cuori normali, che vivono una vita insoddisfatta e ricca di distrazioni, insensata, ma piena di impegni. Scontenti sono gli abitanti che vivono al di sotto della Cappa del presente, coloro che vedendo i confini del loro mondo farsi sempre più evanescenti non scelgono la via della rivolta o della ribellione, ma quella dell’amarezza, del piagnisteo, del disagio della civiltà, vivendo un’esistenza che non ha allungato la loro vita, bensì soltanto la loro sopravvivenza. Senza radici, senza ideali, senza speranze gli scontenti si rassegnano a passioni tristi, ma piacevoli, distrazione in cui rifugiarsi, mentre sono ostaggi di una realtà che si dematerializza ogni giorno di più, cullandosi nell’impotenza e nella rassegnazione di chi non sa amarsi, ma solo risparmiarsi.
Ma chi è lo scontento? È l’abitante del secolo XXI (“sciocco come te non c’è nessuno”), che vive in un mondo dominato dallo sradicamento, dall’incertezza, dalla minaccia immanente e permanente dell’emergenza. Frammentato ed atomizzato alla continua ricerca di nuove identità ed intensità, di surrogati del mito e della comunità, di anestesie contro il tragico, contro la durezza della Natura, a cui si preferisce l’impersonalità dell’ambiente, contro il numinoso e le sue estasi, contro la vita in sostanza. Gli scontenti sono i protagonisti dell’ultimo saggio di Marcello Veneziani Scontenti. Perché non ci piace il mondo in cui viviamo (Marsilio), sequel ideale del celebre La Cappa, che dopo aver analizzato l’ideologia del mondo dell’odiernità, analizza i luoghi oscuri dei suoi abitanti, le paludi in cui crollano le loro speranze, diagnosticandone la deriva lenta ed insensata, senza però rassegnarsi all’impossibilità di una futura ribellione contro questa lunga agonia. Poiché anche nell’inferno degli scontenti non ci si può rassegnare alla possibilità di uscire e riveder le stelle. Per comprendere meglio l’eterna estate del nostro scontento abbiamo intervistato Marcello Veneziani.
-Chi sono gli “scontenti” e perché siamo bloccati nella palude della rassegnazione di un mondo che non ci piace?
Gli scontenti sono probabilmente la maggioranza occulta del nostro paese e forse dell’Europa. Ma non trovano sbocchi e allora la loro rassegnazione si fa più acida e rancorosa; o viene sublimata in altre forme, l’ironia, il furbo allinearsi, la sublimazione.
-Come siamo riusciti a passare dall’era dei rivoluzionari e degli agitatori a quella degli scontenti?
La rivoluzione presuppone una certa fiducia nelle rivolte e nei loro esiti. Quando non c’è più la reale convinzione che è possibile rovesciare gli assetti vigenti allora si rientra nella bolla dello scontento, dove ci sono anche forme di insoddisfazione e frustrazione legate alla sfera privata o personale.
-Che legame c’è tra questo libro e La Cappa e come la nebbia neopuritana della cappa genera e indirizza gli scontenti?
C’è uno stretto legame tra i due libri, Scontenti è il seguito de La Cappa: il primo indagava sull’emisfero che sovrasta le nostre teste, il secondo tratta dell’umanità sottostante. Il neopuritanesimo è uno dei tratti salienti della Cappa, insieme al politically correct, alla cancel culture, e alle restrizioni indotte dal regime di sorveglianza e di emergenza che viviamo ormai da alcuni anni.
-La condizione descritta nel suo libro può essere definita come la conseguenza ultima del processo di dematerializzazione del mondo?
Si, il mondo perde concretezza, perde natura, perde identità e solidità, diventa fluido, virtuale, artificiale; e a ciò si aggiungono le strategie per rimuovere gli effetti della realtà, incluso il dolore.
-Ritiene che oggi le grandi emozioni siano surrogate da stati d’animo impersonali? La scontentezza sta alla felicità come il carino sta alla bellezza, come il mito sta al mitoide?
Più che impersonali direi prefabbricati, standardizzati, resi inautentici da riflessi condizionati. La scontentezza è una relazione conflittuale tra noi e il mondo esterno, l’infelicità è invece uno stato d’animo, una condizione interiore.
–Possiamo ancora definirci dei decadenti o abbiamo perso questo privilegio?
Non reputo un privilegio essere e definirsi decadenti, al più può essere uno stato di coscienza di una condizione che oggi viviamo senza nemmeno rendercene conto. Se invece fa riferimento al decadentismo letterario, è un’altra cosa ed era comunque ben più vivo e animato dell’attuale stato dell’arte, che inclina per una depressione senza sbocchi artistici.
–Chi verrà dopo gli scontenti e come accadrà questa transizione?
La scontentezza può diventare una condizione permanente, al punto di tramutarsi in incontentabilità; e può diventare solo una fase di passaggio per accedere a nuove condizioni di vita. Dipende, così come la scontentezza può essere un vizio e un alibi per la propria indolenza, ma può diventare al contrario un’energia che genera ricerca, conoscenza, creazione.
-Possiamo definire l’eco-ansia di cui parla nel libro come l’ultimo gradino di quella cultura del piagnisteo portata avanti dal politically correct?
Si, potrebbe essere un’ulteriore gradino di quel vittimismo e di quella cultura del piagnisteo; ma è soprattutto un modo per non affrontare la realtà ma vivere nel suo incubo, e ingigantire un rischio effettivo, dimenticando poi tutti gli altri. L’ambientalismo senza la natura è finto, ideologico, da passeggio.
-Quali sono le cause di questo disagio della civiltà e come uscirne?
Ci vorrebbe un libro per rispondere, e per questo scrivo libri… Per accennare, direi che quando una civiltà perde il passato e il futuro, il mito e l’eterno va verso la sua estinzione che può coincidere con la disumanizzazione radicale. Per uscire o meglio per cominciare a uscire, si tratta di ripristinare il rapporto con la realtà e la vita, la natura e la storia, il pensiero e il senso del sacro.
-Gli intellettuali che responsabilità hanno in questo stato d’animo e quale è il nuovo “oppio degli intellettuali”?
Naturalmente gli intellettuali hanno responsabilità ma la loro incidenza è così ristretta che non possiamo caricarli di tutti i fallimenti del mondo. Diciamo che sono responsabili quanto più sono dentro questo assetto. Non lo criticano, non cercano di vedere oltre, si allineano, diventano i notai del nichilismo presente.
-Veneziani lei si considera uno scontento?
Si, ho un’indole scontenta e non a caso sono tendenzialmente portato all’opposizione, parteggio per i vinti, reputo retorici l’ottimismo e l’happy end. Ma riesco a governare il mio scontento, e a trarre da esso frutti anziché veleni…