Forse tutti hanno il loro Eden su questa terra. Un barlume, per lo meno, uno scintillio di ciglia. In mezzo agli inferi – più o meno accurati, ma ovunque è assedio di ombre e di cannibali – ognuno ha la sua fetta di Eden. Un sogno sfilettato, azzurro; un desiderio, la candela dell’infanzia perduta, un cerchio di giorni, quel giorno che lei ti ha abbracciato, eravate una sfera, potevi svanire. Ecco. Quella fibbia di Eden è ciò che vorresti riscuotere nel Giorno dei Giorni, al cospetto del Creatore – conficcato nel Caos. Gloria la chiamavano i greci, uomini mentali che credevano nel corpo e nella sua fuga; Kavod, è scritto nella Bibbia, è la Gloria di Dio.
Tutto comincia – e finisce – con un uomo, arso dal tramonto, pura ombra, che parla alla tomba della moglie. La lapide è di legno, le lettere, sghembe, tradiscono un dolore cupo. La tomba è sotto un albero, l’unico, che sembra un candeliere. La pianura, intorno, è oceanica: infinito che costeggia il tremendo. Ogni apparizione d’uomo è un monito, il passato dissepolto, l’antica colpa che torna a braccarti, dopo anni.
Di Clint Eastwood preferisco i film eschilei, come Mystic River, quelli dove la poesia si contorce in tragedia, come Million Dollar Baby, ma Gli spietati è il capolavoro, l’epopea depurata, l’opera al nero, la nigredo del West, la putrefazione dei miti, degli eroi. Il film è narrativamente perfetto – merito di David Webb Peoples, sceneggiatore, tra l’altro, di Blade Runner, Ladyhawke, L’esercito delle 12 scimmie. Di ‘Will’ Munny (Clint Eastwood) non si raccontano le gesta criminali, l’indifferenza ubriaca con cui ha ammazzato e violato il mondo. E non si narrano gli anni della redenzione, della rinascita per mano della moglie, “una giovane donna attraente e non senza prospettive”, che sceglie di unirsi a “un noto ladro ed assassino, un uomo conosciuto per la famigerata brutalità e sregolatezza del suo temperamento”. Munny, vedovo, con due figli troppo piccoli, ma già intagliati nella solitudine, rotola nel fango dei maiali, all’inizio del film: l’antico texano dagli occhi di ghiaccio, ora, è un vecchio che non sa più maneggiare la pistola né salire a cavallo. Ha preso a sassate il passato, fino a scordarsene: ma la vita è una liturgia che non ammette deroghe. Quando gli viene offerto, dopo anni, di vendicare l’onore di una prostituta sfregiata, più per rassegnazione che per cavalleria, ‘Will’ s’imbarca nell’ultima impresa, che odora di disastro. Non possiamo vivere la terza vita come replica della prima: non lo ammette la teoria delle rinascite.
Eastwood, nel film, è un Don Chisciotte spettrale, braccato dal fantasma dell’assassinio. La morte dell’amico (Morgan Freeman), ormai devoto per uccidere, massacrato dallo sceriffo (Gene Hackman, emblema della giustizia omicida), risveglia in ‘Will’ l’ultimo estro da pistolero. Così la vendetta, nel bagliore di una notte torturata dalla pioggia, prende il posto dell’amore. Sempre, tra le tenebre, un vendicatore che cavalca un cavallo bianco cerca di rimediare ai danni creati dal diavolo, dall’ingiuria dell’uomo.
Nel film non ci sono i buoni e i cattivi, ma i pavidi e i violenti; la brutalità regna insieme al misticismo dell’abbandono, della vita sul margine del mondo. Spietati sono tutti, perché tutti siamo rosi da demoni che ci fanno avidi, violenti, prevaricatori, vigliacchi, bastardi. La salvezza non è di questo mondo né dell’altro: nessuno merita di morire, dice ‘Will’ al ragazzo, Kid Schofield, che simula una vita da cowboy (ravvedendosi, perché la vita ‘libera’, autentica e indipendente, si paga in metri di sangue); tutti meritano la morte, dice ‘Will’ quando spara in faccia a Gene Hackman. Uno – Gene – crede nell’inferno, nella pena eterna, l’altro – Clint – crede che tutto si sconti sul muso scabro della terra, che il solo frammento di Eden te lo conquisti qui, che le speculazioni sono per i manichei, i sofisti, gli impuri di cuore. Chi ha cuore ama, ha rabbia, seppellisce il cuore nel fango.
L’uomo che crede che i segreti del mondo resteranno nascosti per sempre vive nel mistero e nella paura. La superstizione lo trascinerà in basso. La pioggia eroderà gli atti della sua vita. Ma l’uomo che si assume il compito di individuare nell’arazzo il filo che tutto ordisce, in virtù di questa sola decisione si fa carico del mondo, ed è soltanto facendosene carico che egli può trovare il modo di dettare i termini del proprio destino
Cormac McCarthy, “Meridiano di sangue”
Il titolo originario del film, Unforgiven, rimanda, piuttosto, al perdono, a ciò che è imperdonabile. I sepolcri sono sempre aperti, con l’eleganza scabra del leone, i cadaveri dissotterrati: i secoli raffinano la colpa in sentenza. Una vita, in fondo, ha sempre natura penale. Una innocenza ammanta la colpa.
I colori del film – la luce, lignea, costantemente erosa dall’ombra, come se i raggi del sole fossero lucertole – e gli ambienti – il bordello, le case inghiottite dalla pianura, l’ufficio dello sceriffo che diventa mattatoio – l’etica, la storia caina, la musica, ricordano le atmosfere di Meridiano di sangue, il grande romanzo di Cormac McCarthy, il congedo della letteratura dal mito del West, specie di Iliade capovolta, epos della irredenta ferocia. Eppure, Gli spietati è ancora più crudo: pure i demoni sono sterminati, qui. In Meridiano di sangue il Giudice Holden, figura di Lucifero, può dire, “L’uomo che crede che i segreti del mondo resteranno nascosti per sempre vive nel mistero e nella paura. La superstizione lo trascinerà in basso. La pioggia eroderà gli atti della sua vita. Ma l’uomo che si assume il compito di individuare nell’arazzo il filo che tutto ordisce, in virtù di questa sola decisione si fa carico del mondo, ed è soltanto facendosene carico che egli può trovare il modo di dettare i termini del proprio destino”. Quello, insomma, pur intriso di violenza, è un romanzo sapienziale, gnostico. Qui, la sola sapienza è la morte: i legami recisi, le parole che non sanno incatenare – si dice ciò che scioglie, ogni alchimia è per la dissoluzione.
Clint, qui, non è portavoce di alcun valore, manca la petraia di una ‘visione del mondo’, non lo pietrifichi in formule – già aggiogarsi al giorno è grazia. L’unico avvenire si configura tra un bacio e uno sparo, tra rapina e rammarico. Non possiamo mungere una buona novella, la cara beltà di un codice che ci dica come vivere, a quale disciplina votarci. Una casa che sorge nel nulla, alla mercé dei venti, in esilio dagli umani, lasciando dilagare gli anni, come acqua sporca. Pregare su una tomba, dimentichi di tutti gli altri morti, dei moribondi. Essere vergini a una promessa. Nient’altro.