OGGETTO: Angelo Guglielmi, un’anomalia
DATA: 13 Luglio 2022
SEZIONE: Media
FORMATO: Analisi
AREA: Italia
Per un momento la Rai è stata un laboratorio di idee e sperimentazioni, ma quella che sarebbe potuta essere una strada da seguire è naufragata davanti alla voracità della politica.
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Per la RAI era un momento difficile, aveva appena perso colonne come Pippo Baudo e Raffaella Carrà, passati alla Fininvest di Berlusconi. Lo schema bernabeiano di un solo uomo al comando era già stato fatto saltare alla metà dei Settanta, ma solo nel 1987, con la riforma che equiparava la programmazione di RaiTre a quelle degli altri due canali Rai, e la divisione del Tg3 in due testate indipendenti (nazionale e regionale, con il compito di gestire tutte le redazioni giornalistiche regionali con i rispettivi telegiornali e giornali radio) il modello lottizzatorio governava indisturbato. I buoni nemici potevano spartirsi il bottino televisivo: la rete 1 alla DC, la 2 al PSI, la nuova rete 3 al PCI, che aveva in Veltroni il suo responsabile “culturale”. Il democristianissimo Biagio Agnes era il direttore generale, il craxiano Enrico Manca presidente obbediente a un segretario la cui rivalità con De Mita era al massimo dell’ebollizione. Nessuno ancora – per la decenza c’era ancora un certo rispetto – aveva il coraggio di gridare “fuori i partiti dalla RAI”, nessuno parlava di “società civile” (semmai di maggioranza silenziosa), nessuno si scandalizzava della tripartizione tutta politica della televisione di Stato e la famosa “questione morale” evocata da Berlinguer nessuno credeva veramente. Era l’epoca del famigerato CAF (Craxi-Andreotti-Forlani) e di un Andreotti presidente del consiglio capace di imporre con la fiducia la tanto contestata legge Mammì (legge che si limitava a fotografare lo stato delle cose senza alcuna regolamentazione del settore privato della comunicazione consolidando così il predominio di Berlusconi); scelta che porterà, nell’estate del 1990, a una clamorosa rottura interna, con le dimissioni di tutti e cinque i ministri della sinistra democristiana, Martinazzoli, Mannino, Fracanzani, Misasi e Mattarella, all’epoca ministro della Pubblica istruzione.

Alla testata giornalistica (tradizionalmente la più appetita) della terza rete viene installato un tipo da mimetica come Sandro Curzi, già tra i cofondatori di Radio Praga, l’emittente del Pci trasmettente da oltre cortina. Alla rete invece salta fuori il nome di un intellettuale, un critico letterario di area, certo, ma privo di tessera PCI, noto per la sua appartenenza al Gruppo 63, composito miniclub d’avanguardia dispensante disprezzo per l’ultimo neorealismo e con lo sguardo rivolto a esperienze francesi tipo “Tel quel” e “Nouveau roman”: Angelo Guglielmi. Un intellettuale che di televisione non solo non sapeva nulla ma che fino ad allora non aveva mai voluto sapere nulla. Più che potere dell’ignoranza, potere dell’intelligenza. Perché sotto la sua direzione la più piccola delle reti RAI sbocciò nel modo più imprevedibile si potesse immaginare, sfornando programmi che fecero di quegli anni (1987-1994) la stagione nel complesso più felice e più creativa la tv pubblica abbia conosciuto nell’ultimo mezzo secolo: “Telefono giallo”, “Samarcanda”, “Un giorno in pretura”, “La Tv delle ragazze”, “Blob”, “Chi l’ha visto?”,  “Avanzi”, “Quelli che il calcio” (passato nel 1998 su Rai 2), “Tunnel” e “Storie maledette”. 

La missione di portare Rai tre tra il 2 e il 3,5% di ascolti fu in breve tempo superata, anzi raddoppiata in bellezza: 6%. In quella manciata d’anni quel settore dell’azienda pubblica diventò un vero laboratorio di idee e sperimentazioni, una specie di polveriera di culto, contornato da scene di panico per contratti annullati improvvisamente ed entusiasmi per successi oltre previsione, con le parodie di Teletango che, sulle orme del Beppe Grillo sospeso dalla RAI, insistevano sui socialisti “ladri” che tanto fecero incavolare Manca e le apparizioni senza veli a “Fuori orario” di Moana Pozzi che a loro volta causarono il niet di Agnes.    

Successe così che il fautore della famosa avanguardia alternativa che, per dirla con Freak Antoni, non doveva fare sconti comitiva, riuscì a farla en masse, inventando aria nuova e nuovi personaggi e prendendone lui stesso, in certo senso, le distanze, come l’idea di mettere in bianco e nero e fra virgolette rosse le annunciatrici dei programmi sembrò sibillinamente significare… Fu quello senza dubbio il frutto più succoso nato nel regno della lottizzazione, abituata a premiare, come si sa, la squallida affidabilità politica rispetto alla competenza. Un frutto nato e morto per lottizzazione, se è vero che con la presidenza di Letizia Moratti si concluse il mandato “guglielmino” (poi proseguito fuori sede: dal 1995 al 2000 presidente e amministratore delegato dell’Istituto Luce, dal 2004 al 2009 chiamato da Sergio Cofferati nella giunta comunale di Bologna in qualità di assessore alla cultura, ad accompagnare l’attività di critico letterario per vari quotidiani, La stampa in particolare).

Fin troppo facile capire perché ora siano tanti a rimpiangerlo in questi tempi televisivamente poveri di idee e sperimenti. Quello seminato e innaffiato da Guglielmi poteva essere l’annuncio arrivato per caso di una strada da seguire, che si prendeva bellamente gioco dei tanti burocrati abituati ad affollare i piani alti della RAI, sempre pronti ad adeguarsi a ciò che più conviene.  È rimasto invece un frutto proibito, in un’ azienda che resta la più veritiera cartina tornasole della nostra povera politica. Povera ma vorace vista la riforma con cui il premier Renzi aumentò a dismisura i poteri dell’ex direttore generale (ora amministratore delegato); povera, vorace e anche ipocrita, visto che quella riforma si provò a farla passare – tanto per cambiare – come scelta contro i partiti (“fuori i partiti dalla RAI”): lo era, ma solo per consegnare più potere al governo.  

Fu sulla RAI, su quella riforma in particolare, che si poteva leggere in tutta la sua chiarezza l’incerto e contraddittorio, per non dir peggio, futuro del Movimento cinque stelle, tanto convinto nel contestarla (fin dai tempi del raid di Beppe Grillo e Roberto Fico, allora presidente della commissione vigilanza, in viale Mazzini) da lasciare immaginare, una volta insediatosi al governo col Conte 1, di voler mettere il suo disinnesco tra i primi obiettivi del nuovo corso. Niente di più sbagliato: su quella riforma i Cinque stelle ci si accomodarono alla grande, sfruttando (male, peraltro) le solite, immarcescibili regole di quella lottizzazione (“fuori i partiti dalla RAI”) che tanto dicevano di deprecare. Poi però dagli stessi giochi lottizzatori si videro bellamente ignorati nell’ultima tornata di nomine del governo Draghi nel novembre 2021, quando ad essere premiata (come direttrice di Rai tre, poi sostituita da Orfeo) fu solo Simona Sala; non in quota Conte, oltretutto, ma Di Maio (a quel Di Maio al quale i maligni di Saxa Rubra raccontano abbia aggiunto, in occasione di un discorso, un applauso posticcio…). Sulla RAI si smascherarono i Cinque stelle del ministro degli esteri allora capo politico, sulla RAI si capì benissimo la considerazione in cui Draghi, sponsor di Fuortes, teneva il partito che pure era di maggioranza, la stessa manifestata nei presunti colloqui avuti, secondo De Masi, dal premier (smentiti con netto ritardo) con Grillo: scarsa, scarsissima, praticamente zero. Proprio il deficit di considerazione di cui Conte si sente più che mai prigioniero, e che ora potrebbe aver raggiunto, perfino per lui che di rimandi e incassi si può definire un campione, il massimo del consentito. 

Angelo Guglielmi, nei suoi articoli successivi, indicava proprio il deficit di realismo come uno dei mali della nostra letteratura. Quasi un paradosso per il critico che tanto aveva avversato il realismo in nome dell’avanguardia ma che si era fatto universalmente apprezzare come direttore di rete proprio per aver portato la realtà in televisione. Ma sempre nulla in confronto ai tanti, troppi, che continuano a gridare come fossero sul pianeta Papalla “fuori i partiti dalla RAI”.

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