Molto è già stato scritto a distanza di pochi giorni dalla morte di Joseph Ratzinger. Senz’altro, si tratta di una personalità destinata a far discutere: da fine intellettuale qual era, è difficile immaginare non abbia previsto almeno in parte gli esiti delle decisioni epocali cui è stato chiamato. Nel tentativo di fare un po’ di chiarezza su chi e che cosa è stato Ratzinger, sgombriamo dunque il campo da ogni ingenuità: al di là degli aspetti intrinseci legati alla rinuncia al pontificato (di cui comunque parleremo), ciò che è necessario capire per penetrare il presente della Chiesa e prepararsi a scenari futuri di indubbio interesse è che i fatti sotto i nostri occhi contengono già molte delle risposte che cerchiamo (se non tutte). Si tratta di mettere a fuoco l’accaduto con uno sguardo libero: il che non è facile, ma è la risorsa principale di cui dispone chi ha davvero la capacità di vedere un attimo prima ciò che è da venire.
Un papa-filosofo sui generis
Quando il giovane Ratzinger ottiene il dottorato in teologia nel 1953, il contesto intellettuale in cui si muove è quello di una Germania particolarmente sensibile alla Nouvelle Theologie francese. Indirizzo di pensiero certamente composito – Chenu stesso dichiarava non esistesse alcun progetto unitario di ricerca – i teologi della Nouvelle aderivano con una coerenza quasi impressionante a tutta una serie di idee e di impostazioni metodologiche molto distanti dall’impianto teologico tradizionale della Chiesa di Roma. Dalla storicizzazione della Rivelazione e dell’esperienza di fede alla critica serrata al neoscolasticismo della Aeterni Patris di Leone XIII, i motivi di incompatibilità con le indicazioni ufficiali del magistero papale erano numerosi (di qui, le più che fondate preoccupazioni di Pio XII). Non è facile stabilire se il contatto con questi motivi di rinnovamento teologico sia stato causa del primo avvicinamento di Ratzinger a Rahner o se piuttosto l’insoddisfazione personale di Ratzinger verso lo scolasticismo fin dai tempi dell’insegnamento di Wilmsen a Frisinga (Ratzinger 1997: 44) abbia portato il futuro pontefice ad esplorare altre vie; in ogni caso, la tesi di abilitazione all’insegnamento universitario fu più sofferta del consueto. In questo senso, Alfred Läpple ha ricordato gli screzi avuti non soltanto da Söhngen (relatore in sede di tesi, ma nel complesso molto più che un semplice maestro per Ratzinger) con l’allora medievalista della facoltà teologica, Schmaus, ma anche l’interdetto che quest’ultimo pose sul lavoro di Ratzinger, giudicato dubbio e incline a simpatie moderniste. La crescita teologica di Ratzinger è però solo all’inizio. Al Vaticano II Ratzinger ha un ruolo determinante, insieme a diversi altri, nel rifiuto del de fontibus revelationis, lo schema preparatorio della Dei Verbum, nel 1962 (Lam 2013). Quella che sembra però ormai una scelta di campo è destinata a cambiare di segno, se si identifica l’ala più innovatrice con i lavori e le vicende di teologi come Küng e Rahner: egli stesso, nella propria Autobiografia, dirà di essersi distaccato dalla «scuola di Rahner» già dai tempi della collaborazione al Concilio, mentre la netta disapprovazione dei moti studenteschi del’68-’69 gli vale da più parti l’etichetta di ‘conservatore’. Come che sia, fondando Communio insieme a von Balthasar e De Lubac, prende decisamente le distanze dal pensiero riformatore post-conciliare che si esprimeva nella rivista Concilium, su cui in precedenza era intervenuto varie volte.
È difficile, già da questi primi accenni, non notare come l’esperienza intellettuale e l’elaborazione teologica di Ratzinger sembrano muoversi su una specie di doppio binario. Da un lato, l’esigenza intellettuale, fin dai primi studi su Bonaventura, di superare l’impasse neoscolastica nella ferma convinzione che il processo storico nella sua interezza abbia molto da dire anche a chi già possieda una Rivelazione; dall’altro, la volontà di non indulgere a concessioni al riformismo più spinto, pur continuando a frequentare in modo deciso temi piuttosto controversi. E così l’attenzione all’ecumenismo, mai venuta meno nel tempo, è continuamente (e attentamente) ricondotta all’interno di una giusta interpretazione: ne sono senz’altro segno la nota sulla preghiera interreligiosa di Assisi (1986) che scongiura ogni possibile lettura relativistica dell’evento (poi pubblicata in Ratzinger 2003: 112-4), così come la Dominus Iesus sull’unicità del ruolo salvifico di Cristo (2006). Allo stesso modo, la teologia politica di Ratzinger oscilla costantemente fra il ruolo che va riconosciuto alla Chiesa, vista principalmente come consigliera morale, e l’indipendenza che le democrazie liberali dovrebbero sempre e comunque mantenere in ossequio al principio per cui «where there is no dualism there is totalitarism» (Ratzinger 1987: 151, cit. in Nichols 1987: 384).
Se risulta chiara la preoccupazione ratzingeriana di mantenere la propria elaborazione teologica nell’alveo della Tradizione della Chiesa, non sempre è risultato chiaro il modo in cui questa fedeltà potrebbe attuarsi senza ambiguità. Basti considerare in proposito la difficoltà che si sperimenta nell’accostare certi passi dell’Introduzione al cristianesimo, pubblicata sì nel 1968 ma rivista e dotata di una nuova introduzione da Ratzinger stesso nel 2000, all’intervento tenuto nella Basilica Lateranense in occasione dell’emanazione di Fides et Ratio (1998); oppure l’ambiguità che circonda l’uso che Ratzinger fa del concetto di persona. Preparato dalle filosofie spiritualiste dell’ultimo Ottocento e in particolare da quel Martin Buber di cui Ratzinger stesso dirà essere stato «profondamente segnato», il personalismo aveva sedotto la miglior parte dei reduci dal primo naufragio modernista successivo alla Pascendi (Laberthonnière, Murri, Blondel). Ratzinger lega la propria riflessione sul concetto di persona all’agostinismo delle Confessiones, e ancora una volta si produce nel tentativo di sottrarre un tema difficile alle tensioni centrifughe rispetto al pensiero tradizionale della Chiesa; ma resta un fatto che questo stesso tentativo da un lato non va oltre la proposta di una teoria dei valori non negoziabili (con tutte le debolezze teoretiche che questa ha mostrato nel tempo) in campo etico, dall’altro conduce, per quanto si cerchi di edulcorarne le conseguenze, a un primato dell’esistenza rispetto all’essenza, e della storia rispetto alla metafisica.
Un pontificato difficile
Tutto quel che s’è detto, s’è detto perché il pontificato stesso di Ratzinger è perfettamente inquadrabile in questo costante tentativo di mediare tra fronti contrapposti: dal punto di vista teologico, certo, ma anche e soprattutto da quello politico e pastorale. I rilievi sul suo percorso intellettuale in qualche modo suggeriscono proprio questo: gli esiti del pontificato, la rinuncia e le dimissioni costituiscono una prova alquanto suggestiva dell’impossibile sintesi, del tentativo frustrato di portarla a termine tanto da un punto di vista teoretico quanto da quello tecnico-pratico. Proprio in quest’ultimo senso il pontificato di Ratzinger è stato, se vogliamo, ancora più eloquente. Una gestione ardua di molti casi e scandali scoppiati proprio tra le sue mani, un sostegno probabilmente cercato ma mai realmente ottenuto all’interno di una Curia sempre più ostile. Ad aggravare il tutto, l’ostilità esplicita e accanita del mondo extra Ecclesiam, che di Benedetto XVI ha visto sempre e solo un volto, quello rivolto alla conservazione della Chiesa come istituzione nel senso più alto del termine. Difficile negare che, mentre piovevano accuse da ogni dove per Ratisbona, per le esternazioni in materia di morale (AIDS e contraccezione, aborto, eutanasia), per la lotta inesausta contro la «dittatura del relativismo», l’appoggio dall’interno non è mai stato un punto scontato o a priori acquisito. Senza dubbio, anzi, a mettere a dura prova la solidità del pontificato di Benedetto sono stati tradimenti fra le mura amiche (Vatileaks su tutti) e scontri ideologici durati, a conti fatti, fino alla fine. Costanti in questo senso le pressioni e le pretese dell’irrequieta Conferenza Episcopale Tedesca, così come ancora oggi non si riesce a intravedere la fine dello scandalo sugli abusi e la pedofilia all’interno del clero. Inutile ricordare come, anche su questo punto, Benedetto XVI si sia espresso in maniera decisamente forte, dando l’impressione di una autorevolezza che probabilmente più non c’era e di un desiderato peso (anche) politico di cui sicuramente era stata smarrita ogni traccia. Anche in questo caso, le critiche più forti sono arrivate dall’interno della Chiesa, esattamente come accaduto a stretto giro sulla vexata quaestio del celibato ecclesiastico.
Ubi Petrus
Crediamo il contesto appena tratteggiato permetta un migliore accesso all’evento che più di tutti ha caratterizzato l’esperienza da pontefice di Ratzinger, le dimissioni del’11 febbraio 2013. Un gesto che, non a caso, mons. Gänswein ha proprio in queste ore collegato all’azione demoniaca contro Ratzinger, dall’interno del Vaticano stesso. Al di là delle preoccupazioni teologiche, gli elementi per comprendere il genere di tensioni fra le quali Benedetto XVI in buona parte ha contribuito a nutrire ma che sono risultate esiziali, ci sono tutti e sono stati forniti. C’è per questo motivo quasi una certa ironia nell’osservare che il rapporto tra Benedetto e Francesco, tra emerito e regnante, può riassumere con efficacia la parabola terrena di Ratzinger: contraddistinto da intrinseche incomprensioni e da ineliminabili distanze (sempre di queste ore è l’ammissione di Gänswein a proposito del dolore che la vicenda legata al Summorum Pontificum prima e alla Traditionis custodes poi avrebbe provocato all’emerito), di fatto il disagio giuridico, teologico, spirituale e pastorale del ‘papato emerito’ è stato causato in buona parte, se non interamente, da Benedetto XVI, per quanto duro possa apparire a un esame superficiale questo giudizio.
Tracciare un bilancio non è impossibile. L’incapacità di rileggere l’esperienza cristiana attraverso le categorie aristotelico-tomiste in un mondo che cambiava sempre più rapidamente non ha aperto grandi prospettive teologiche nella direzione auspicata, mentre ha di fatto contribuito alla decostruzione delle categorie teologiche tipiche del linguaggio e del pensiero tradizionale. L’insistenza su una possibile terza via rappresentata dall’ermeneutica della continuità che conciliasse le opposte anime del post-concilio non ha prodotto il risultato sperato, insinuando anzi il ragionevole dubbio che una certa tendenza dissolutoria contraddistingua buona parte dell’andamento del Concilio stesso. Se il compito del critico è quello di cogliere l’esplicito tanto quanto l’implicito in un pensatore, allora va detto che il pontificato di Benedetto XVI costituisce un precedente grave e obbliga alla riflessione su quanto abbia indebolito la Chiesa dal punto di vista istituzionale. Ma poiché non di solo foro esterno si vive, e poiché la riflessione è tanto più pura quanto più si fa intensiva e teoreticamente acuta, resta negli scritti e nei tanti interventi di Benedetto XVI la grandiosità del tentativo, la profondità della speranza, la lucidità del metodo. E se è vero che l’esperienza umana necessariamente incontra cadute e da esse trae maggior forza per rialzarsi, l’immagine che di Ratzinger è giusto divenga immortale nel tempo è quella di un grandioso il tentativo, nella convinzione che fra le acque tempestose che ogni autentica teologia della storia sa di dover ricomprendere in sé, rimane serena la promessa: et portae inferi non praevalebunt adversus eam.