Iniziò per gioco: alla Marina serviva un nuovo teatro in cui ambientare le sue esercitazioni — “giochi”, li si chiama appunto in ambiente militare — che trascendesse gli ormai angusti confini fisici e concettuali del Mare Nostrum. Lungo il corso dei mesi successivi, sulle carte lo specchio d’acqua nazionale arrivò così a bagnare dapprima le sabbie del Nord Africa e del Medio Oriente; poi, aldilà delle dune sahariane, la fascia equatoriale del Continente Nero; infine, il Corno e le vecchie colonie dell’AOI, in corrispondenza delle quali si fuse in un unicum con la metà occidentale dell’Oceano Indiano. Quasi senza che nessuno se ne accorgesse, negli anonimi uffici romani dell’arma navale era nato il Mediterraneo Allargato.
Tra i suoi padri c’era Roberto Domini. Entrato in quiescenza nel 2012 col grado di contrammiraglio, nella sua carriera ha ricoperto incarichi di comando in Italia e durante missioni all’estero; dopo un periodo da docente di strategia e storia militare, ha concluso il suo servizio fungendo da addetto alla Difesa per la legazione italiana in Croazia. Oggi dirige il Centro Studi di Geopolitica e Strategia Marittima (CeSMar): ed è proprio tramite quest’ultimo che l’Ammiraglio promuove la visione di un Mediterraneo senza limiti, infinito, che rimpiazzi quello allargato in funzione dell’inedito scenario globale in cui il nostro Paese si trova a muoversi.
–L’attuale esecutivo sembra deciso a portare il bilancio della difesa in linea con la quota NATO del 2% del PIL: come si inserisce la Marina Militare — destinataria del grosso dei fondi — in questo nuovo budget, e cosa può aspettarsi dall’incremento delle spese militari?
Anzitutto, non è vero che alla Marina spetta la maggior parte del bilancio della Difesa, che — a differenza di quanto avviene, per esempio, nel Regno Unito — è suddiviso in maniera non equa tra le varie armi secondo le esigenze del momento: così, ad oggi la Marina dovrebbe disporre di circa il 19% degli stanziamenti totali. È una somma decisamente esigua; questo perché il nostro Paese ed i suoi interessi, sebbene siano del tutto inseriti nel Mediterraneo, manca di una propensione marittima sentita dalla popolazione o dalla classe politica. Eppure, ogni volta che abbiamo investito sul mare ci siamo arricchiti e abbiamo vissuto momenti di grande sviluppo artistico, culturale e democratico, come ben dimostra la storia delle nostre repubbliche marinare. La centralità strategica dell’Italia è sempre stata poco sfruttata: siamo un hub portuale e logistico, ma la nostra negligenza e i difficili rapporti con l’Oriente ci hanno impedito di far leva su questo fatto. I Paesi dell’ex Patto di Varsavia, pur integrati nell’Unione Europea, cercano un loro ruolo nel mondo anche a nostro discapito, e la Turchia, nostra alleata nella NATO, rappresenta oggi un concorrente ed un ostacolo alle nostre capacità. Esiste, in sostanza, un problema di rapporti tra Europa ed Africa ed Europa e Centro Asia; questo governo sta cercando di coltivarli, ma agiamo in ritardo e con forti limiti in termini di finanze e personale, anche per la Marina. Soprattutto, occorre definire con chiarezza i nostri obiettivi strategici, cui la Marina è funzionale specie nel contesto attuale.
–La guerra in Ucraina rappresenta al momento il focus dell’interesse di tutti i principali attori politici e militari mondiali. Cosa ha imparato la Marina da oltre un anno e mezzo di conflitto aperto, sul mare e non?
L’insegnamento di questa guerra è che le nuove tecnologie, sia per quanto riguarda i droni aerei e marittimi, sia per quel che concerne la dimensione cyber e delle telecomunicazioni, ha messo in luce come l’impiego della Marina debba essere gestito con grande attenzione, proprio a causa dell’abbondanza di questi elementi di disturbo. Sono rimasto molto colpito dal fatto che mezzi navali automatizzati abbiano causato danni notevoli alla flotta Russa; non è il caso del Moskva, ma è un fatto che la serenità delle navi — se mai sono state serene — è in parte venuta meno, anche per via delle dimensioni ristrette del Mar Nero e della sottovalutazione di questo triplice pericolo aereo, di superficie e subacqueo da parte del Cremlino. Ancora, l’importanza della propaganda e delle comunicazioni: la guerra è fatta anche di questo, e l’impiego della propaganda sul proprio schieramento e su quello avversario ha un impatto determinante sull’andamento degli eventi.
–Quale pensa sia il modo migliore per riportare l’Italia al centro del Mediterraneo Allargato e preparare il passaggio, nei prossimi decenni, all’Infinito Mediterraneo?
Quando concepimmo il Mediterraneo Allargato, il nostro intento era di far comprendere alle massime autorità politiche e militari che quella nozione rappresentava un punto di partenza per l’esplicitazione dei nostri obiettivi strategici. Noi siamo legati a due realtà importanti come l’UE e la NATO, ma ciò non significa che l’Italia non debba avere una sua presenza singolare nel contesto mondiale. Dobbiamo sviluppare strategie indipendenti da quelle delle alleanze, e il Mediterraneo Allargato è il luogo ideale per farlo, anche perché ciò ci consentirebbe di rapportarci con queste istituzioni da una posizione di forza. Inoltre, volevamo passasse il messaggio che l’Italia vive del Mediterraneo: per noi il Mediterraneo è un luogo di vita, non di passaggio come per gli Stati Uniti o la Gran Bretagna, e dobbiamo essere pronti a combattere per difenderlo.
–Sembra in ogni caso che l’Italia stia spostando il baricentro della sua politica estera oltre il Mediterraneo: l’incrociatore Morosini è già stato nel Mar Cinese Meridionale, e presto la portaerei Cavour potrebbe seguirlo. Nei prossimi anni possiamo aspettare una Marina con una maggiore vocazione blue water?
La nostra è già una blue water navy, ma questa è una semplificazione. Piuttosto, va sottolineato che la Marina Militare è principalmente finalizzata a funzioni di sea control, cioè al controllo prolungato di una striscia limitata di mare in funzione degli interessi nazionali. Non possiamo permetterci una marina “di supremazia”; dobbiamo concentraci sulla difesa delle nostre linee di comunicazione marittime, e possiamo farlo soltanto con un certo tipo di unità. Quanto poi alle operazioni nel Mar Cinese Meridionale, esse non hanno a che fare solo con questioni di presenza o di diplomazia navale, ma con la preservazione di interessi concreti, seppur distanti dalla madrepatria. Dipendiamo dai Paesi asiatici per i nostri bisogni produttivi, e dobbiamo quindi prestare a quell’area la debita attenzione. Inoltre, c’è una questione politica: gli USA vorrebbero che prendessimo parte al contenimento della Cina, e per quanto questo non rientri direttamente tra i nostri interessi, sostenere le politiche americane può risultare vantaggioso; ricordo ad esempio che all’epoca dei boat people (rifugiati in fuga dal Vietnam postbellico; nel 1979 la Marina Militare inviò in loro soccorso l’Andrea Doria, ndr) fu il Comando in Capo della Squadra Navale a richiedere espressamente di partecipare all’iniziativa statunitense, mettendosi in buona luce con l’alleato e dimostrando così anche la capacità di organizzare un’operazione complessa. La Marina era pronta, ed è d’altronde questa la filosofia delle marine: si cerca sempre di anticipare le esigenze del Paese, perché è questo il solo modo di essere pronti, ancora oggi. Nonostante tutto, quando ci viene ordinato noi partiamo con la massima dedizione, e credo che questo andrebbe premiato. Possiamo andare lontano; siamo presenti fuori area con oltre settanta navi, e questo significa qualcosa.
–A proposito di prontezza. In un’intervista diventata virale, il ministro della Difesa francese Lecornu sosteneva che la Francia è tra le poche democrazie disposte a subire perdite umane in difesa di sé stessa e dei propri interessi. L’Italia, il Paese, gli italiani, sono pronti a fare lo stesso se necessario?
Credo di poter rispondere di sì. L’esperienza di questi ultimi anni, in particolare la perdita nel teatro afghano di importanti risorse umane in sostegno alle attività statunitensi sul terreno, dimostra che siamo preparati a queste evenienze. Vorrei ribaltare la domanda: la Marina italiana è disposta ad avere uno spirito aggressivo tale per cui possa ottenere risultati contro un potenziale avversario e nel contempo accettare la scomparsa di suo personale? Questo è un problema che andrebbe affrontato in maniera molto seria, ma non può essere la Marina a farlo. È la politica a dover stabilire fino a che punto si possono accettare perdite umane, perché se un’operazione è sbagliata a livello politico il nocumento per il Paese è enorme. Il politico italiano deve dunque conoscere bene le capacità, i mezzi, il sistema militare, e avere il coraggio di impiegarli sapendo qual è l’obiettivo da raggiungere… Se abbiamo un obiettivo, possiamo adattarci a tutto; ma se la politica non ha le idee chiare, tutto diventa più complicato, e il nostro ruolo diviene insoddisfacente. È fondamentale perseguire la sinergia tar mondo militare e mondo politico. I due non possono lavorare separati: ogni volta che questo avviene, i danni sono incalcolabili, come nel caso dell’attacco ateniese a Siracusa durante la Guerra del Peloponneso. Qui sta il dilemma politico dell’impiego delle Forze Armate. Bisogna usarle bene, bisogna mettere in conto che ci potrebbero essere dei morti, ma tutto dipende dalla guida a monte: se la guida è buona le cose funzionano, e bene, se è cattiva non funzionano. Ma in ogni caso, la Marina è pronta.