Il 28 luglio 2004, tra le montagne di Orsigna, Tiziano Terzani lascia il suo corpo. E da allora, lo scorrere del tempo ha confermato fortemente rara popolarità e continua attualità del grande viaggiatore. Fino al presente ventesimo anniversario dalla morte. Nel moltiplicarsi di commemorazioni, eventi, articoli, podcast, documentari, nuove edizioni delle opere e nuovi libri a lui dedicati. Così, a partire da tali lavori, è facile osservare una rappresentazione dominante: segnata da interviste, elementi biografici, aneddoti colorati, ed esotismo. Nel complesso, ricchezza dei dettagli comodi e mancanza dell’essenziale. Perché Terzani nel percorso e nel messaggio è incompatibile con l’Occidente liberale e con il suo ideale di progresso. Dal giornalista talentuoso, ammiratore di Mao. Allo scrittore oltre i fatti, prossimo a Gandhi.
Anche Tomaso Montanari nella sua bella introduzione all’ultima edizione – tristemente opportuna – delle Lettere contro la guerra (Chiarelettere, 2024) oscilla, tra l’ascrivere il punto di vista dell’opera a una particolare corrente della cultura occidentale e sottolinearne la distanza. Passando vagamente dal mondo multiculturale, alla difesa dell’identità come errore di destra, al dominio maschile sulle donne simile alla guerra. Quando Terzani sostenne l’identità dei popoli contro il colonialismo e la globalizzazione, esortò l’Europa a rifiutare l’immigrazione e deplorò la guerra neofemminista contro il femminile e contro gli uomini.
Del resto, Terzani viaggiò fin da subito in cerca di alternative alla via dell’Occidente. Prima, cercò nel marxismo che reggeva le guerre di liberazione nazionale, e trovò una forma alternativa di omologazione. Quindi, riconobbe capitalismo e comunismo, facce della stessa medaglia. Tra l’uno che distruggeva la Cina. E l’altro che distruggeva il Giappone.
Pertanto, in questo momento editoriale, Gloria Germani ha scritto il saggio più lontano dalla contingenza, Tiziano Terzani contro la guerra (Terra Nuova, 2024). Perché, nonostante il titolo richiami principalmente gli ultimi anni della vita, l’opera è filosofica e percorre tutto l’arco della costruzione di un pensiero profondo. Ritrovando il momento di compimento (amore per la diversità asiatica) e svolta (abbandono del pensiero moderno) nelle esperienze dei periodi cinese (1980-1984), giapponese (1985-1990), e quindi nel viaggio di Buonanotte signor Lenin (Longanesi, 1992). Attraverso cui Terzani riconobbe la Modernità, quale presupposto comune alle grandi ideologie del secolo.
Ovvero, il dualismo cartesiano-newtoniano di mente e materia “permise” al soggetto indipendente di applicare la conoscenza delle scienze naturali e sociali alla tecnica, per manipolare in senso utilitaristico il mondo fuori e “trasformare” la storia in progresso verso il meglio. Al contrario del pensiero antico, dove Tutto è Uno e la storia è ciclo.
Una posizione che Terzani avrebbe espresso in maniera sempre più esplicita e compiuta nei libri del decennio successivo, la cui linea fondamentale è il confronto tra moderno e premoderno, tra Occidente e alterità. Per quanto, già sulla Piazza Rossa, risalti l’errore del marxismo-leninismo, «Lenin credeva davvero che esistessero delle leggi scientifiche che regolano il mondo e che bastasse conoscerle per cambiare […] Si trattava solo di applicarle alla realtà per fare la storia del futuro così come un ingegnere fa i ponti, applicando le leggi della fisica e della geometria […] Lenin, come Mao dopo di lui, era soprattutto un ingegnere sociale e aveva un’assoluta fede nella Scienza» (Buonanotte signor Lenin).
In questo senso, il viaggio del 1993, l’anno senza prendere l’aereo di Un indovino mi disse (Longanesi, 1995) rappresenta non la rottura inspiegabile ma la prosecuzione. Attraverso l’Asia autentica che tentava ancora di sopravvivere, tra l’esplorazione di un sapere non scientifico e la denuncia del colonialismo che sbattuto fuori dalla porta, rientrava dalla finestra, per continuare a distruggere il diverso. Un colonialismo economico, quindi anzitutto dell’immaginario e metapolitico, tanto forte da portare gli asiatici a desiderare la propria omologazione, a interiorizzare le idee di modernità e progresso.
E a quel punto fu difficile tornare dalla foresta sull’autostrada. L’anno successivo Terzani prese dimora in India. Tre anni dopo abbandonò il giornalismo, assieme alla ricerca della verità nella cronaca e nei fatti che, anzi, spesso la nascondono, al modo delle matriosche e in altri. Ormai prossimi, l’incontro con il Vecchio e la Filosofia Perenne, il ritiro sull’Himalaya, le notti vigili a fissare la fiammella della candela, a distruggere l’io e l’eterno ritorno dei desideri.
Davvero, passati vent’anni, Terzani è tanto popolare come figura e “difficile” da rappresentare nel messaggio e nelle posizioni. In quanto la narrazione progressista dominante promuove lo scientismo, l’individualismo utilitarista, l’unipolarismo statunitense, il neoliberismo della crescita economica, in definitiva l’occidentalizzazione del mondo. Quando il giornalista subito dal suo arrivo in Vietnam deplorò tali processi storici, approfondendo poi la critica, fino alle origini del pensiero moderno. In questo senso, la linea è più continua di quanto suggerisca la prima impressione. Soltanto l’attenzione verso gli eccessi della scienza e della tecnica va – coerentemente – ad aggiungersi. E l’amore per l’alterità precede ogni viaggio.
Bene inteso, senza la pretesa occidentale di “accettare” l’alterità, selezionando nella cultura altrui cosa vada preservato e cosa no. Come spiegheranno bene le Lettere contro la guerra (Longanesi, 2022), «in Afghanistan, una bambina non gioca a fare la grande andando a giro per la casa con le scarpe della mamma, ma indossando il suo burqa e sognando il giorno in cui, donna, avrà diritto al proprio. Cosa penseremmo noi se un giorno la nostra società fosse conquistata dai naturisti e noi tutti dovessimo celebrare la nostra «liberazione» andando improvvisamente a giro nudi bruchi?» (Lettere contro la guerra).
Ma forse ancor più, proprio la New York di Un altro giro di giostra (Longanesi, 2004) è immagine esemplare della distanza tra Terzani e gli ideali del progresso. Città bellissima e schiaffo in faccia all’immaginario. Con la follia del mondo moderno, il palazzo delle Nazioni Unite, i famosi alberghi dei film e le sedi di tutte le multinazionali concentrati in pochi chilometri, tra il fiume Hudson e lo stretto marino dell’Est River. Il cuore della globalizzazione.
Attorno a Wall Street, dirigenti eleganti con le valigette e i piani d’investimento, per fabbriche inquinanti, centrali nucleari, reti televisive destinate ai paesi da omologare. O peggio, i piani allora estremi, della tecnica e del consumismo, «Alcune aziende si specializzeranno nella produzione di embrioni capaci di soddisfare le richieste dell’ultima trovata consumistica: bambini su ordinazione… Le immaginabili e inimmaginabili conseguenze della combinazione di questa nuova scienza genetica con l’uso sempre più sofisticato di potenti computer mi fanno paura […] Abbiamo l’intelligenza e non la mettiamo a frutto. Anzi, facciamo di tutto ora per produrne una artificiale. Che orrore!».
Terzani domandava, se fossero loro i veri terroristi. Mentre oggi, intelligenza artificiale e utero in affitto risultano normalizzati, almeno nella discussione pubblica. In una società segnata dalla sfiducia verso il prossimo. Con le persone sempre più sole, senza la famiglia tradizionale fondata sul rito, e più di corsa per il lavoro; dalle piccole chiacchere gentili al litigio improvviso per strada, o l’appellativo di «bimbo» rivolto al cagnolino. Dove senza valori comuni, gli avvocati fanno fortuna. Amore, amicizia, visite mediche: tra i documenti da firmare come precauzione, «un nuovo, americanissimo modo per far soldi è denunciare una grande azienda per discriminazione razziale, il proprio capo per molestie sessuali, il proprio amante per stupro, il proprio medico per negligenza» (Un altro giro di giostra).
Nel ventesimo anniversario, Tiziano Terzani è presente in modo forte. Mentre, “paradossalmente”, il riconoscimento filosofico del Tutto è Uno, assieme alle conseguenti prese di posizione sui singoli “progressi”, trova poco spazio.
Del resto già Franco Cardini, nella prefazione all’opera omnia (Mondadori, 2011), riconobbe i tratti del bodhisattva che sceglie di rinunciare al nirvana, restare indietro e aiutare gli altri esseri. Malato di cancro, negli ultimi mesi, con il figlio Folco per le registrazioni che sono diventate La fine è il mio inizio (Longanesi, 2006) o, a maggio, nell’ultima fatica irragionevole con il regista Mario Zanot per le riprese di Anam il senzanome (Storyteller Rti, 2005). E soprattutto nel messaggio dei suoi libri. Così, quando il 28 luglio 2004, «Anam uscì dalla sua vecchia logora veste […] Da allora Anam-ji è sempre con noi».