L’annullamento delle elezioni presidenziali in Romania ha sollevato molto più di una questione costituzionale. Ha messo a nudo una vulnerabilità democratica sistemica in un Paese strategico per la sicurezza euroatlantica. Quando il sistema politico di un membro della NATO diventa il bersaglio – e al contempo il vettore – di operazioni ibride su larga scala, le ripercussioni non sono più confinabili entro i suoi confini. La decisione della Corte costituzionale del 6 dicembre ha cristallizzato una tensione latente: come rispondere a un’elezione inquinata da interferenze straniere senza minare ulteriormente la fiducia nel processo democratico? La risposta rumena – l’annullamento – è stata tanto drastica quanto ambigua. Se da un lato ha fermato l’avanzata istituzionale di Călin Georgescu, un candidato apertamente filorusso e anti-NATO, dall’altro ha aperto una crisi di legittimità e trasparenza che ancora non è stata sanata.
L’interferenza – secondo i rapporti resi pubblici – ha seguito i pattern ormai noti delle guerre ibride: disinformazione capillare, sfruttamento delle piattaforme digitali, mobilitazione di sentimenti anti-sistema già presenti nel corpo sociale. Ma il successo dell’operazione non si misura nel numero di voti ottenuti da Georgescu, bensì nella destabilizzazione del campo democratico.
La campagna di Georgescu ha mostrato quanto fragile sia l’architettura comunicativa dei sistemi politici europei. Su TikTok, Telegram e YouTube, si è costruita una narrativa alternativa che ha unito retoriche populiste, cospiratorie, antisemite e nostalgiche dell’era Ceaușescu. Il tutto, amplificato da network digitali connessi a Mosca e Teheran, secondo quanto indicano le analisi forensi delle agenzie di sicurezza.
Non si è trattato solo di propaganda. È stata una campagna mirata a creare una frattura cognitiva tra la popolazione e le istituzioni. Un’insurrezione algoritmica. La democrazia non è stata aggredita frontalmente, ma progressivamente svuotata di senso.
Il caso ha assunto un rilievo ancora maggiore per via delle reazioni internazionali. Alcuni media statunitensi vicini all’ex presidente Trump hanno denunciato l’annullamento come “un golpe tecnico orchestrato da Bruxelles”. Elon Musk ha parlato apertamente di censura, mentre il vicepresidente americano J.D. Vance ha chiesto una revisione delle relazioni bilaterali con Bucarest. Questi segnali evidenziano un’inedita convergenza di narrazioni tra destra radicale statunitense e interessi russi, che rischia di ridisegnare i rapporti di forza nel mondo atlantico.
Dopo l’esclusione di Georgescu, il testimone dell’estremismo anti-sistema è passato a George Simion, leader dell’Alleanza per l’Unione dei Romeni (AUR). Simion ha capitalizzato il malcontento popolare, accusando le istituzioni di aver manipolato le elezioni per conto di potenze straniere. Il suo messaggio, semplice e diretto, colpisce un elettorato che si sente escluso dalla modernizzazione europeista. Simion rappresenta un nuovo tipo di populismo: nazionalista ma digitale, illiberale ma fluido, ostile all’Occidente ma pronto a usarne i canali per affermarsi. Il suo eventuale successo nel voto di maggio 2025 potrebbe mettere in discussione la permanenza della Romania nel consenso euroatlantico, con ripercussioni su scala continentale.
Nel frattempo, il fronte democratico appare disorientato. I candidati moderati, come Nicușor Dan o Crin Antonescu, non riescono a costruire una narrazione in grado di contrastare l’onda anti-sistema. La crisi non è solo politica, ma epistemica: le istituzioni faticano a parlare un linguaggio comprensibile per ampie fasce della popolazione, soprattutto nei territori rurali e tra i giovani senza prospettive. L’assenza di una strategia inclusiva e proattiva ha lasciato spazio alla radicalizzazione. L’“anello debole” della NATO non è soltanto geografico. È la frattura tra rappresentanza e rappresentati, tra Stato e cittadini.
La squalifica di Georgescu e le restrizioni ai suoi canali digitali sono stati strumenti di contenimento. Ma il contenimento non è soluzione. Le vulnerabilità strutturali della Romania – scarsa alfabetizzazione mediatica, infrastrutture digitali arretrate, polarizzazione sociale, dipendenza energetica – restano intatte. In questo vuoto, le operazioni ibride trovano terreno fertile.
Il caso rumeno non è un’eccezione. È un archetipo. Un esempio di come una democrazia possa essere corrosa dall’interno mentre viene aggredita dall’esterno. In un’epoca in cui la legittimità conta più della mera legalità, la fragilità rumena è un monito per l’intero progetto europeo. Senza una visione condivisa del futuro, l’Europa orientale rischia di diventare il banco di prova – e poi la vittima – di una nuova guerra, non tra eserciti, ma tra modelli di società.