OGGETTO: Tunisi e la fine della storia
DATA: 02 Agosto 2024
SEZIONE: Geopolitica
AREA: Africa
La mitezza dei gelsomini tunisini non deve trarre in inganno: la rivoluzione rimane un fatto violento. Il bias cognitivo porta però in poco tempo ad una nuova dimensione, molto più rigida e complessa, dominata da un uomo enigmatico: Kaïs Saïed. Populismo e dogma si fondono in un crogiolo che, per le prossime elezioni, lascia poco spazio all’immaginazione. La prossimità con la Tunisia non è solo geografica, dimenticarlo sarebbe da incoscienti.
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Maghreb: è lì che venti e fredde acque atlantiche si temperano sedotti dal caldo mediterraneo. È nell’algerina Orano che Camus dà sembiante all’esistenzialismo del flagello della peste, capace di ridestare sentimenti sopiti; è nell’attigua Tunisia che una troppo giovane Italia viene destata dalle sue visioni dallo schiaffo di un Paese aduso all’esercizio di lungo corso del potere. Il Maghreb è un mosaico cangiante, modellato dall’egemone di turno. L’Algeria punta a recuperare centralità internazionale, visti sia il peso acquisito dal Mediterraneo con la guerra libica, maldestramente innescata da transalpini non più così avvezzi alle labirintiche circonvoluzioni del potere, sia il ritorno di attori ricomparsi da nebbie ottomane, sia l’arrivo da oriente di soggetti attratti da acque più temperate e commerci più fruttuosi. È un gioco che, tra Asia centrale, Balcani ed Eurasia si svolge tra concretezza e mitologie, ora vivificate dai significati politici dell’Occidente sahariano, ed in altri tempi funzionali ai diversivi necessari a Londra per deviare le attenzioni dalla gemma imperiale indiana. 

La mitezza dei gelsomini tunisini è un paradosso che mal si concilia con la violenza di una rivolta che depone il regime di Ben Ali e che non attenua le difficoltà politico-economiche successive sfocianti in un’emigrazione che si sta dirigendo verso le destinazioni inedite di MO e Nord America. Il sistema post rivoluzionario è fragile, stasi politica e frammentazione partitica sono persistenti, inflazione e debito pubblico in crescita febbrile, le performance finanziarie impalpabili, con un malcontento alimentato dalle disparità tra costa ed entroterra in una sorta di inedita questione meridionale. Non c’è fragranza floreale che attenui l’afrore degli eventi che, dal 2021, hanno assistito all’involuzione politica del Paese. Il mercato del lavoro è fragile, i programmi di assistenza sociale affollati da una platea sempre più vasta, posto che la disoccupazione investe dimensioni sempre più importanti attinenti al capitale umano. Rimarchevole la distorsione provocata dalla prevalenza del volano pubblico rispetto al privato, con un significativo aumento del tasso di crescita retributivo statale rispetto a quello del PIL.

È su questo sostrato che prende vita politica Kaïs Saïedil califfo che abbraccia il populismo, che predilige la giustizia all’eguaglianza, un outsider libero da lacci, privo di supporto politico di retrovia, dunque necessariamente avvinto agli apparati di sicurezza; un costituzionalista capace sia di mobilitare le masse, assurte al rango di attrici politiche quotidiane con lo slogan al-shaʿb yurid, sia di basarsi su un populismo antipolitico debole nei contenuti, che procede dal basso verso l’alto decentrando il potere legislativo. La dissoluzione delle tematiche post 2011 lascia alla deriva problemi strutturali per i quali non sono contemplate strategie, ma solo accentramento e personalizzazione del potere sussunti nella Presidenza, promotrice dello scioglimento delle autorità amministrative intermedie, retoricamente qualificate come neutralizzandi stati nello stato controllati dagli islamisti di Ennahda. 

Nel 2021 il primo momento schmittiano: il Presidente congela il Parlamento revocando l’immunità dei deputati e dimissionando il Primo Ministro Mechichi, con l’adozione di una Costituzione geneticamente in possesso dell’allelo dell’iperpresidenzialismo che polarizza le opposizioni. Il secondo picco viene raggiunto con le elezioni legislative che, forti di un’astensione che le priva di significato politico, hanno generato un parlamento ridimensionato. In nuce il nocciolo populista, foriero della tattica del divide et impera, mentre la Vecchia Guardia fa quadrato intorno alla Costituzione del 2014, un arrocco che rievoca reminiscenze aventiniane, specie se posto in relazione all’ondata di arresti di oppositori secondo un disegno antiterrorista tipico dell’era Ben Ali. Mentre Ennahda grida al colpo di stato, appoggiata da Turchia e Qatar, Arabia Saudita, Egitto e USA attendono; in particolare gli yankee, più che mai attenti a non reiterare l’errore obamiano di aperture poco meditate alla Fratellanza Musulmana. Una volta di più prevale la necessità di dover privilegiare l’equilibrio geopolitico, anche perché qualsiasi costituzionalismo democratico, immerso nell’azoto della precarietà istituzionale, andrebbe irrimediabilmente in frantumi.

Roma, Maggio 2024. XVIII Martedì di Dissipatio

La repressione del dissenso si accompagna alla discriminazione razziale verso i migranti subsahariani, per Saïed strumenti di un complotto per modificare la composizione demografica della Tunisia offuscandone il carattere arabo-musulmano. Il Presidente invoca la necessità dell’adozione di misure urgenti volte a stroncare l’incessante flusso migratorio, cui far risalire violenze e crimini inaccettabili, una teoria affine a quella cara all’estrema destra francese di Éric Zemmour con il suo grand remplacement. La bassa percentuale di immigrati, circa ventitremila unità, rende ardua anche la sola presunzione dell’esistenza di una cospirazione destinata a ridefinire gli equilibri demografici, ma non abbastanza da impedire episodi xenofobi la cui paternità è stata respinta maldestramente dal MAE tunisino. Ora è necessario comprendere l’entità del sostegno popolare su cui Saïed può contare, oltre all’appoggio degli apparati istituzionali, facendo attenzione al fatto che il Presidente è riuscito a trovare sponda nella deludente politica economica di Ennahda, basata su sistemi di prestiti neoliberisti provenienti da FMI, Banca Mondiale, UE, Washington, dirottati sulle imprese delle élite tunisine anziché su un erigendo sistema di welfare; inevitabile l’ampliamento della faglia tra classi socioeconomiche, accompagnato sia ad una languida nostalgia per la dittatura socialista di Bourguiba, sia al convincimento del fallimento delle istanze democratiche del 2011. 

Ecco che Tunisi negozia con il FMI per un prestito di 1,9 miliardi di dollari, ma sulla base di colloqui sempre più impervi per il rifiuto saiedista di ottemperare alla review richiesta, ritenuta intromissiva ed inaccettabile. Il rifiuto presidenziale pertiene al populismo, evidenziando tuttavia vulnerabilità strategiche quali la mancanza di sostegno politico, variabile determinante per la caduta del regime. Attenzione al più che tangibile rischio default, così percepibile da consigliare all’UE di trattare con la presidenza per negoziare l’accettazione del prestito, fornendo ulteriore sostegno economico vincolato all’accettazione delle condizioni del FMI, cosa che ha indotto Tunisi a cercare supporto altrove, per esempio in Algeria, oppure occhieggiando in campo BRICS, visto che anche gli USA, che non possono permettersi un altro collasso dopo quello libico, attendono di comprendere la portata della svolta impressa da Saïed. Economicamente, povertà del settore privato ed insufficiente differenziazione produttiva, aggravano la dipendenza, posta sotto l’egida del protezionismo, da soggetti evoluti. 

Il popolo tunisino, riarso dalla sete di libertà, non si è avveduto che i coppieri di Ennahda lo hanno inebriato pur con talmente tanto poco nettare da non far avvertire l’avvento di altri e ben più rigidi Ganimedi. Il ritorno della Tunisia all’autoritarismo è stato il frutto di una decantazione politica frutto dell’incapacità dei governi succedutisi dal 2011 a partire dall’avvento dell’islamista Ennahda, incapace di mantenere i buoni propositi economici, con una situazione caotica e foriera di iniqui inasprimenti fiscali. È qui che i partiti hanno perduto il contatto con un elettorato che, secondo un refrain consolidato, ha cercato l’uomo forte; è qui che arriva Saïed, l’homo novus per antonomasia. Con lui una dialettica politica di per sé senza ordito diviene evanescente; costituzionalmente il Presidente diviene il dominus che accompagna il ricordo della Primavera 2011 verso l’oblio, mentre si ripercuote l’eco di un colpo di stato che richiama per tecnica e velocità Malaparte, grazie all’articolo 80 della Costituzione che consente di adottare misure straordinarie in circostanze eccezionali. Saïed si muove tra la dittatura senza egemonia di Gramsci, la sovranità egemonica di Andreas Kalyvas, fino alla dittatura sovrana di Schmitt. Figlia di una crisi egemonica ante 2010, la rivoluzione conduce ad un nuovo ordine che, con Saïed, realizza la rivoluzione conservatrice schmittiana anticipatrice dell’instaurazione di una dittatura d’eccezione interna al sistema,prolungabile fino alla conclusione della legislatura o definibile con un referendum, forse. Con il pretesto emergenziale Saïed ribalta il principio piramidale di Kelsen, risolvendo la contraddizione tra normativismo e decisionismo e legittimando il passaggio da democrazia imperfetta a regime ibrido.

Ed eccoci al clou, alle presidenziali del 6 ottobre, boicottate delle opposizioni che, arbitre di un sicuro astensionismo, lasciano Saïed, che ha preannunciato il divieto di presenza di osservatori elettorali internazionali, senza antagonisti, con una defaillance economica irrisolta ed unoscivolamento verso l’autoritarismo, una limitata libertà di parola e stampa e la reprise della verve anti migratoria. Una crisi multidimensionale in cui qualsiasi elemento esterno torna utile arma di distrazione di massa. Forti le affinità con il regime algerino per il nazionalismo, il radicalismo verso la causa palestinese, i rapporti con Israele, la refrattarietà alle critiche esogene, nonché per il rilancio del progetto di unione maghrebina, altrimenti bloccato dalla querelle del Sahara Occidentale, condizionata dai difficili rapporti con Rabat. Anche la comune radice antimperialistica con Teheran, al netto di ideologie immateriali, conduce alla usuale e frenetica ricerca di finanziamenti. 

Tunisi non ha molte chance e nemmeno le offre. Paese poco appetibile, si divide tra un possibile approdo BRI ed il cappio migratorio per cui l’Europa, e l’Italia, non possono non intervenire portafoglio alla mano. Il problema è politico, ovvero di consentire la permanenza di un regime in fase involutiva, che potrebbe continuare ad elevare il prezzo dei termini negoziali al fine di guadagnare tempo ma preservando uno status quo fallimentare, pericoloso per i riflessi sui Paesi mediterranei, obbligati a considerare il rifiuto saiedista delle condizionalità del FMI, la vulnerabilità della carenza di valuta estera, la difficoltà di ottenere prestiti. Finanziare il disavanzo di bilancio è insormontabile: entro il 2025, in vista di una svalutazione forzata, l’economia potrebbe entrare in recessione; un programma FMI, ancorché rivisto, non porterebbe a riforme tali da trasformare il sistema, salvo che non si invoglino investimenti esterni. In cauda venenum. Nonostante i suoi innegabili difetti, il regime di Ben Ali ha conservato in equilibrio macroeconomia e stabilità, indebolite da pressioni a breve termine e venute meno dopo il 2011, quando la politica ha terminato di erodere l’economia. È proprio vero, i numeri sono capricciosi: non compiacciono mai nessuno.  

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