OGGETTO: Il perpetuo inverno tunisino
DATA: 24 Aprile 2023
SEZIONE: Geopolitica
AREA: Africa
Il Paese pioniere delle "primavere arabe" si trova ancora una volta sull'orlo del baratro. Stavolta senza alcuna speranza di cambiamento.
VIVI NASCOSTO. ENTRA NEL NUCLEO OPERATIVO
Per leggere via mail il Dispaccio in formato PDF
Per ricevere a casa i libri in formato cartaceo della collana editoriale Dissipatio
Per partecipare di persona (o in streaming) agli incontri 'i martedì di Dissipatio'

Il gelsomino è una pianta importata in Europa dalle Indie, dove era conosciuta fin dall’antichità. Secondo le tradizioni culturali asiatiche e arabe questo piccolo fiore a cinque petali simboleggia l’amore divino. Lo stesso che sembra mancare oggi in Tunisia. 

Pioniera della “primavera araba”, con un passato costituzionale e le basi di uno Stato moderno, la Tunisia è l’unico Paese del mondo arabo ad aver avviato un processo di modernizzazione della società e delle istituzioni in grado di evolvere verso il modello democratico, bloccato dal regime di Ben Ali e richiesto a gran voce dalla rivolta del gennaio 2011. Quando sul finire del 2010 Mohamed Bouazizi, giovane della cittadina di Sidi Bouzid, si dà fuoco in piazza per protestare contro le condizioni economiche, Kais Saied è un conosciuto professore universitario.

Samir Kassir, storico e giornalista assassinato nel 2005 a Beirut, così argomentava nel suo saggio L’infelicità araba:

«L’assenza di democrazia non è uno specifico male arabo, ma il mondo arabo rimane l’unico sistema regionale in cui praticamente tutti i paesi condividono questa tara. In nessun Paese arabo la cittadinanza gode di quel minimo di garanzie indispensabili per dare avvio a un cambiamento democratico. Ma sarebbe un errore imputare la crisi del concetto di cittadinanza a una predisposizione culturale, perché essa è l’effetto di un’altra crisi (…) la crisi dello Stato, dello Stato di diritto»

Nel 2023 le cause fondamentali della primavera araba ancora covano sotto la superficie della politica araba. Il Paese nordafricano sembra ormai sull’orlo del tracollo economico dovuto alla crisi politica e, prima, dalla pandemia, oltre che dalla mancanza di generi alimentari, di acqua e di carburante. Gli Stati della regione MENA continuano a trascurare rivendicazioni sociali, economiche e politiche che potrebbero nuovamente seminare instabilità nella regione. Le rivolte del 2011 hanno prodotto quelle del 2019, che sfoceranno in una nuova ondata di proteste, che potrebbe essere meno silmiya (pacifica) e hadhariya (civica) di quelle precedenti. Gli elementi scatenanti di una potenziale terza ondata sono legati a problematiche socioeconomiche immutabili, a problematiche relative al governo e a problematiche inerenti questioni globali, in particolare la crisi alimentare e climatica.

Tra l’altro la Tunisia è, tra quelli nordafricani, il Paese più maturo e strutturato. Nel corso degli anni sia Burghiba che aveva sfidato l’islam passatista facendo della Tunisia la prima repubblica civile senza la sharia sia Ben Ali nella sua prima esperienza avevano condotto il Paese verso una maggiore modernizzazione.

Nel 2011, soprattutto a causa della crescente influenza dei Fratelli Musulmani, la radicalizzazione del Paese è stata profonda e devastante. Soprattutto Ben Ali ha preparato il terreno all’islamismo, ha stimolato il consenso identitario religioso e incoraggiato il ritorno dello “spirito teologico”, cioè per ritrovare il consenso perduto è ricorso al populismo religioso. E per questo ha goduto della condiscendenza dell’Occidente spacciandosi per un baluardo contro l’islamismo. Ma in pratica non ha fatto niente per circoscrivere “la trasformazione degli animi in salafiti”. La rivoluzione cosiddetta dei gelsomini, alba delle “primavere arabe”, è un lontano ricordo.

A livello internazionale, né gli Stati Uniti né l’Europa, a distanza di anni, neppure con il governo Saied in questo momento di grande crisi, sembrano pronti a sostenere la piena realizzazione delle rivolte arabe in autentiche rivoluzioni dall’esito incerto, che rischierebbero di destabilizzare ulteriormente tutta l’area mediterranea e medio‐orientale e di rimettere in questione tutti gli equilibri della geopolitica già messi a dura prova dal sorgere di nuovi poli di potere come la Cina, la Russia e l’India.

A dicembre 2022 il Fmi, dopo mesi di colloqui tra i suoi funzionari e il governo tunisino, ha deciso di congelare il prestito da 1,9 miliardi di dollari che aveva promesso in cambio di politiche di austerità, compreso il taglio ai servizi pubblici e ai sussidi alimentari ed energetici. 

Il 7 marzo scorso la Banca mondiale ha annunciato la sospensione del Country Partnership Framework, dichiarando in una nota la volontà di bloccare la sua cooperazione con Tunisi a seguito dei commenti “razzisti, e persino violenti” che il presidente tunisino Saied aveva lanciato contro i migranti sub-sahariani presenti nel Paese.

Oggi la Tunisia sembra aver perso ogni entusiasmo e forza propulsiva di cambiamento: il capo dello Stato ha sospeso buona parte della Costituzione, di fatto tutti gli articoli relativi al potere legislativo ed esecutivo. Il presidente ha annullato i due capitoli della costituzione relativi all’autorità esecutiva e legislativa e li ha organizzati con misure eccezionali, ma non ha annullato il resto dei capitoli regolanti il potere politico.

Da Saied, giurista ed esperto avvocato, non ci si sarebbe aspettata una deriva dittatoriale culminata con l’arresto del leader dell’opposizione Rached Ghannouchi. In questa fase l’anima tunisina, quella che spinse il Paese ed il Maghreb ad attivarsi per il rinnovamento democratico si è smarrita a causa della fragilità della società, piegata anche da fattori esterni come la crisi economica, la siccità e la carestia. 

«Il genio tunisino sta nella sintesi, fragile ma grandemente riuscita, tra da una parte il radicamento nella nostra complessa identità a dominante arabo‐musulmana, e dall’altra la modernità cioè l’apertura sull’universale, la filosofia dei diritti umani e la tolleranza».

Eppure, dopo le stagioni di Burguiba e Ben Ali, in Saied si intravedeva il nocchiero che avrebbe traghettato il Paese verso la compiuta e matura democrazia. Invece, da promessa di rinnovamento, di “primavera autentica”, Saied si è trasformato nel nuovo rais.

Il contesto tunisino, forse quello maggiormente più vicino al concetto democratico occidentale, non sfugge del tutto alla categorizzazione che molti politologi hanno dato del movimento delle “primavere arabe”. L’aspirazione alla libertà, all’accrescimento dei diritti individuali, alla democrazia sostanziale incarnata da Istituzioni repubblicane sconta il fardello dell’incompiutezza storica dei paesi arabi. Il non aver superato o l’essersi arrestati alle soglie del Medioevo, che come in un limbo ha trattenuto evoluzioni e progressioni, ha portato il mondo arabo a scoprire più tardi, con secoli di distanza rispetto all’Occidente, la secolarizzazione e le idee post illuministiche. Così, mentre fino al 1300 gli Arabi eccellevano in cultura e scienze, dopo le sconfitte militari e la problematica successione dei regni costituiti e l’islamizzazione si è avuta una chiusura ed un confinamento che ne ha spezzato la crescita, emarginandoli nei paesi d’origine. Il contatto e la contaminazione con l’Occidente si è così interrotto e ne è scaturito un allontanamento che solo con le primavere arabe del 2011 ha comportato un risveglio verso forme di convivenza tra democrazia e religione.

I più letti

Per approfondire

Il motore nascosto delle nuove proteste

In “Vent’Anni di Rabbia” (Mondadori, 2024) si trova una chiave fondamentale per comprendere il presente politico. La rabbia, fonte dell’agire umano, è stata a lungo sottovalutata come causa dei fenomeni politici. I moti di protesta contemporanei ruotano attorno ad essa, e perciò non la si può più ignorare. Carlo Invernizzi-Accetti propone al lettore una interpretazione agile e chiara di rivolte postmoderne quali i Gilet Gialli o il MeToo, indecifrabili se affrontate senza coglierne le specificità.

Tunisi e la fine della storia

La mitezza dei gelsomini tunisini non deve trarre in inganno: la rivoluzione rimane un fatto violento. Il bias cognitivo porta però in poco tempo ad una nuova dimensione, molto più rigida e complessa, dominata da un uomo enigmatico: Kaïs Saïed. Populismo e dogma si fondono in un crogiolo che, per le prossime elezioni, lascia poco spazio all’immaginazione. La prossimità con la Tunisia non è solo geografica, dimenticarlo sarebbe da incoscienti.

L’Italia vive nella contea

Le cariche della polizia durante le proteste a favore della popolazione palestinese danno ancora prova di un'Italia stretta tra i necessari dettami dell'Alleanza Atlantica, ai quali sembra essersi volente o nolente asservita. Al di là del fattore umanitario le manifestazione pubbliche non convergono verso alternative credibili, così oggi il Paese ha una collettività svuotata, priva di senso della storia e della realtà. Una Contea di Hobbit che fa fatica a risvegliarsi dal proprio torpore.

Il fattore Mélenchon

Come già altre volte in passato, il leader de La France Insoumise sta cercando di prendere la testa dei tumulti nazionali, cavalcando l'odio anti-Macron.

Contro la geografia della fame

I destini nazionali di Italia e Tunisia sono storicamente accomunati sia da fattori geopolitici, che dalla lotta contro la “trappola del sottosviluppo”.

Gruppo MAGOG