Erodoto riteneva il viaggio come il primo tra le fonti della conoscenza. Già in tempi a lui antecedenti la saggezza dei greci aveva codificato questa credenza. Se l’Iliade, nelle parole di Simone Weil, è il «poema della forza», il suo superamento, il suo seguito, è il poema che allontana la violenza della guerra mutandosi, attraverso il periplo dell’eroe Ulisse, in un viaggio di conoscenza, il cui esito è il ripristino del legame amoroso, quindi della pace. Conoscere permette di comprendere, di addomesticare la complessità verso un qualcosa di definito, di ricondurre il tutto all’armonia. Più recentemente è stata l’antropologia ad occuparsi di descrivere il viaggio e l’incontro con il “diverso”. Il cosiddetto «giro lungo» secondo Clyde Kluckohn, sarebbe in sostanza l’idea che per capire noi stessi e la nostra ragione occorra ampliare lo sguardo, passare attraverso quanto di meno ci è di famigliare, per concludere che gli usi e le abitudini di vite condotte al capo opposto del mondo non sono né condannabili né spaventose, bensì altre possibilità di essere umani.
Diversamente da quanto affermato da Erodoto, le scoperte geografiche del XVI-XVII secolo hanno contributo a codificare nell’incontro con altre civiltà una forma di ribrezzo, quando non evoluta in sete di dominio, da parte di chi quelle civiltà aveva “scoperto”. Un esempio fra tutti lo estrapola il filosofo Tzvetan Todorov dai diari di bordo di Cristoforo Colombo. Il navigatore genovese si stupiva che gli indios del Mesoamerica scambiassero con facilità il loro oro per il vetro trasportato nelle caravelle spagnole. Per questo motivo Colombo reputava i locali degli stupidi: non comprendeva che i valori sono convenzionali e l’oro di per sé non è più prezioso del vetro, lo era nel sistema di scambio europeo. Gli indios, al contrario, avevano abbondanza di miniere d’oro ma non conoscevano le tecniche di produzione dello specchio o del vetro, pertanto, nel loro sistema di valori, questi materiali divenivano pezzi unici, di pregio superiore al metallo contenuto nelle loro cave. Il passaggio cognitivamente più complesso – e che ancora oggi, come al tempo di Colombo, fatica ad essere fatto, tenendo schiavi del pregiudizio i rapporti nei confronti di chi viene riconosciuto come allogeno – che l’individuo (e pure la società) può compiere dopo che ha conosciuto è quello di accettare la relatività dei valori e degli usi, che proprio in quanto prodotti umani, artificiali, non sono inossidabili ma mutano nello spazio e col tempo. Solo dopo sarà possibile la comunicazione, una dialettica orizzontale.
Per accettare la relatività culturale non si può prescindere da una educazione che parta con la scuola. Ancor di più. Si necessita di una formazione che si compia attraverso i manuali di storia indicati come testi di riferimento dalle scuole italiane. Ad una lettura cursoria dei manuali dell’ultimo triennio delle scuole superiori non è dedicato alcun capitolo autonomo alle vicende storiche, istituzionali, politiche o religiose delle società extraoccidentali. A partire dall’anno mille, nei nostri testi scolastici, le civiltà “esterne” a quella europea sono menzionate solo se funzionali a spiegare la biografia del vecchio continente. Vi sono le Crociate e la lotta al Sultano Saladino durante il Basso Medioevo; la conquista ispano-portoghese delle Americhe con la relativa spiegazione dei sistemi di sottomissione e di evangelizzazione coatta nei confronti dei locali, associata al sistema di organizzazione politica e commerciale esportato in quelle terre; figura poi la battaglia di Lepanto del 1571 contro gli ottomani, che fu la più grande battaglia navale dell’epoca moderna; qualche accenno alla Compagnia delle Indie Orientali inglesi e olandesi nel XVII secolo. Pertanto non stupisce che l’islamologo Giorgio Vercellin, relativamente a questo ampio periodo storico, commenti:
Si incontra solo un enorme, desolante vuoto […]. Agli Ottomani – che pure per cinquecento anni svolsero un ruolo di primo piano nelle vicende del mondo mediterraneo – sono quasi sempre riservate poche righe e oltretutto solo in quanto tali avvenimenti sono funzionali agli sviluppi delle vicende europee. Il vuoto torna a riempirsi arrivando all’Ottocento: ma in questo caso ciò che interessa non è più la storia del mondo musulmano in sé, bensì in quanto oggetto delle mire e delle rivalità coloniali europee.
– G. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, Torino, Einaudi, pp. XII-XIII
Se nell’Ottocento la storia di altri continenti compare come riflesso del potere occidentale, anche per quanto riguarda il lungo Novecento la narrazione non cambia. Per questo secolo i libri di testo dedicano dei capitoli autosufficienti ad altre aree del mondo ma con un taglio squisitamente derivativo, come se la loro storia fosse un prodotto secondario della madre storia europea. Ne sono un esempio titoli di capitoli o paragrafi come: «I mondi postcoloniali», «I primi passi dell’India indipendente», «La decolonizzazione nell’Africa centro-meridionale», «Ai margini della globalizzazione».
Diversamente, i testi scolastici del primo biennio sono per necessità intrinseche più generosi. Vi sono capitoli dedicati, per l’antichità, a babilonesi, ebrei, fenici, alle lotte di Alessandro il Macedone contro i persiani; per l’Alto Medioevo si spazia spiegando – questa volta concedendo una certa autonomia storiografica – la nascita della religione musulmana, i suoi cinque pilastri e la figura di Maometto, senza dimenticare le conquiste che nel bacino del Mediterraneo e in Medio Oriente hanno condotto i califfati degli Omayyadi e Abbasidi, e senza le quali peraltro non sarebbe possibile capire l’origine di architetture e tradizioni radicate in Andalusia come in Sicilia. Ciononostante, a depotenziare parzialmente la consolazione per una narrazione storiografica più chiara di quella dedicata ad altri secoli, si può citare ancora Vercellin:
In sostanza dunque il mondo musulmano, e in particolare il Vicino Oriente islamico […], viene descritto come dotato di una storia autonoma e degna di attenzione solo in un passato remoto. […] L’Islam e il mondo musulmano vengono cioè presentati su uno stesso piano «archeologico» (e perciò privo di evoluzioni fino a oggi) alla pari degli antichi Greci e Romani.
– G. Vercellin, Istituzioni, cit., p. XIII
Dove è finita la storia dell’Africa? Del Sudamerica? Dell’Indocina? Se nel corso della storia le civiltà hanno sempre travalicato le loro permeabili frontiere per parlarsi, anche senza riconoscersi come simili, per scambiarsi idiomi, tecniche costruttive o sistemi filosofici, oggi più che mai serve un cambio di marcia nel cammino che conduce alla reciproca comprensione. Il mondo è sempre più anarchico, le maglie della globalizzazione – ossia il tentativo di omologazione alla cultura occidentale – di matrice statunitense vanno collassando; le migrazioni, i disastri climatici, o più semplicemente la volontà di affermazione di stati e popoli che non hanno mai avuto la possibilità scegliere, si fanno sentire oggi più che mai. Per questi motivi libri di storia rinnovati in sinergia ad una formazione scolastica che dia voce alle vicende storiche, culturali e istituzionali degli “altri” potranno, almeno per una minima parte, forgiare nuove generazioni che non si spaventano di fronte alla forma prismatica del tessuto umano, ma che anzi saranno in grado di chiudere, con gli attrezzi propri del dialogo, quel “giro lungo” che sta alla base della conoscenza reciproca.