Il grande entusiasmo che aveva accolto inizialmente la candidatura di Roma a Expo 2030 sembra essere rientrato. Tutta colpa dei sauditi. Al Bureau International des Expositions (BIE), l’organo sovranazionale dove si decidono le Nazioni ospitanti, fra i tanti eventi, anche delle Esposizioni Universali, Riad ha cominciato a far sentire tutto il proprio peso geopolitico, e lo ha fatto sfruttando ogni mezzo a sua disposizione. In corsa, al momento, ci sono anche l’ucraina Odessa – che al momento però ha ben altro a cui pensare – e la coreana Busan. Ma dopo l’Expo 2020 a Dubai e quello 2025 a Osaka, l’idea era quella di cambiare Continente. Era, per l’appunto. Perché volere è potere e Riad ci sta mettendo tutta la sua volontà. Per l’Italia sarebbe l’occasione di dare una spinta propulsiva alla propria economia, che ancora non può dirsi del tutto riavviata dopo il doppio colpo devastante dato dal Covid e dalla crisi energetica. Il precedente milanese del 2015, d’altronde, ha fatto scuola. Tirando le somme si sono contate circa diecimila nuove aziende, oltre a tre miliardi di valore aggiunto e simili benefici anche per le casse del fisco. Ma a parte le mere considerazioni quantitative, c’è un’eredità spirituale dell’Expo, immateriale, di cui Milano ancora gode e di cui Roma avrebbe un forte bisogno.
Per Riad vale lo stesso discorso di Doha, che ha recentemente visto concludere i Mondiali 2022. Portare gli occhi del mondo su un evento organizzato entro i propri confini mette al centro della cartina il Paese, con tutte le polemiche che ne possono scaturire. Ma quelle poco contano perché evanescenti, confuse. Anche laddove uno scandalo di portata impressionante come quello che ha coinvolto i vertici del Parlamento Europeo riesca a gettare cattiva luce sul Qatar organizzatore e corruttore, alla fine ciò non riesce a compromettere l’esito dell’operazione. L’immagine di Doha adesso è un pochino più chiara per tutti, si sono viste in televisione le immagini delle sue coste, dei suoi abitanti, dei suoi leader in mondovisione (pur con tutte le sterili polemiche del caso). Doha non è più un mistero e ispira ora curiosità, dove un tempo c’era solo la tipica diffidenza verso ciò che non si conosce. In più è emerso il fatto che il Qatar è a tutti gli effetti un attore di politico di peso della regione, capace di contendere la sua egemonia ad altre potenze più riconosciute. L’Occidente, pur con tutte le rimostranze espresse, si è rispettosamente inchinato ai qatarioti. E, come noto ormai da recenti sviluppi giudiziari, anche venduto. Una dimostrazione di potere prima di tutto nei confronti dei propri vicini di casa mediorientali. Riad vorrebbe ottenere lo stesso. A differenza dell’Italia, che ha obiettivi unicamente economici dietro la propria candidatura, il Regno Saudita sta cercando di solidificare le proprie relazioni geopolitiche, e di crearne di nuove. Mettere Riad sulla cartina vorrebbe dire rendere più conosciuti i connotati del Paese, che al momento vive solamente della cattiva reputazione data dalle modalità sprezzanti di gestire la cosa pubblica, come l’affaire Khashoggi ha dimostrato. Ma alla fine, in definitiva, nel bene o nel male purché se ne parli. Per la riconoscenza geopolitica e la progressione dell’economia del Paese da un modello da rentier State, ad uno più diversificato, e adatto al secolo green – o wannabe green – alle porte, che vi sia pure polemica. Tanto quella, a ben vedere, aiuta.
I mezzi con cui Riad sta cercando di ottenere ciò che vuole Roma se li può solamente sognare. Ed è questa la notizia. Per costringere Busan alla resa, i sauditi sembra abbiano offerto affari per oltre cinquecento miliardi di dollari a Neom, una città affacciata sul Mar Rosso ancora da costruire che dovrebbe, sulla carta, ospitare nove milioni di persone. Un’intera città da costruire a disposizione per le imprese coreane, un’offerta difficile da rifiutare. Ma qualora il governo di Seul decidesse testardamente di continuare con la propria candidatura – e conseguentemente mancare di sostenere Riad – allora niente più affari, né quelli futuri, né quelli correnti. Qui sta il punto, i sauditi hanno leve economiche che possono permettere loro di ottenere ciò che vogliono, con buona pace degli europei e dei loro desideri di riconquistare la centralità di un mondo che sta invece virando da tutt’altra parte. In Africa, ad esempio, sono già due gli attori che hanno promesso il loro sostegno, Sudafrica e Sud Sudan. Quest’ultimo, un Paese da costruire funestato dalla guerra civile e da fazioni interne, ha tutti gli interessi a schierarsi con Riad, proprio per via di quegli investimenti promessi per costruire le infrastrutture necessarie a dotare il Paese di una propria economia, indipendente da quella dei vicini.
L’ondata d’indignazione per Khashoggi appare così lontana, che sembra quasi un sogno ormai dimenticato. Così lontana da rompere il fronte comune europeo, che avrebbe tutti gli interessi ad agire unitariamente per promuovere l’idea della propria centralità. Invece sembra che anche la Francia sia pronta a sostenere la candidatura saudita. Per promessa, pare, dello stesso Emmanuel Macron, l’uomo che vuole chiudere a riccio l’Unione Europea per renderla quanto più possibile indipendente dagli scossoni portati dagli eccessi della globalizzazione. L’uomo che su questo punto sta giocando una partita decisiva con Berlino. Ecco anche Macron sembra intenzionato a dare il proprio voto a Bin Salman, stando a quanto riportato da Arab News sul finire di luglio 2022. Parigi per Riad ha un significato simbolico, oltre a essere la capitale del classicismo delle relazioni internazionali e sede pertanto di un gran numero di organizzazioni sovranazionali, come il già citato BIE. La Belle Époque ebbe origine proprio dopo un’esposizione universale, quella di Parigi del 1889, dove venne mostrata al mondo per la prima volta la Tour Eiffel. Simbolo di quel dominio occidentale oggi molto distante.
Alla conta dei voti provvisoria, Riad sostiene di avere già il sostegno di circa 60 dei 170 Paesi che nel novembre dell’anno prossimo decideranno la sede ospitante di Expo 2030. Di tempo per raccoglierne altri 26 ce n’è in abbondanza. E questo non è un bene per l’Italia. Se paesi come il Sud Sudan o Tonga hanno lo stesso peso nella votazione finale di Nazioni come Stati Uniti e Cina, allora c’è da dormire sonni poco tranquilli. Dopo il Qatargate, e i suoi effetti a valanga ancora tutti da vagliare, non c’è dubbio che la monarchia saudita abbia subìto e subirà un contraccolpo non indifferente alla propria candidatura. Aleggeranno sospetti di corruzione, i quali non è detto non trovino riscontro nella realtà. Nonostante la reticenza di alcuni Paesi europei – oltre alla Francia anche Norvegia e Grecia hanno già annunciato il loro sostegno ai sauditi – è difficile pensare che i governi democratici a conti fatti scelgano di correre il rischio di veder associato il proprio nome a eventuali, futuri, scandali che seguano la falsa riga di quello qatariota. Ma i Paesi non vincolati da un’opinione pubblica pressante probabilmente potrebbero scegliere di non comportarsi allo stesso modo. La carne è debole e l’animo umano corruttibile, specie davanti a Stati che agiscono in maniera inedita, essendo loro stessi, nella loro interezza, diventati corruttori. Così almeno li ha definiti Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della Sera dello scorso 20 dicembre. Resta da capire se la carne sarà debole anche in Europa, o se l’interesse del Continente prevarrà.