Storicamente, l’essere umano forgia la propria visione del mondo attraverso il confronto plurale tra le idee di sinistra e di destra. Nel panorama odierno, questa contrapposizione binaria ha subito una profonda evoluzione: un fatto cruciale da ribadire per individuare quei punti di riferimento da cui oggi, in un mondo che sembra averli persi tutti, è necessario ripartire per ridefinire il proprio posto nella realtà.
I profondi mutamenti politici della nostra epoca hanno messo in crisi le tradizionali categorie liberal-democratiche alle quali, nel corso degli ultimi decenni, ci eravamo abituati. L’ascesa al potere di politici di “destra” non può essere ridotta a semplice sintomo delle costanti crisi politiche che caratterizzano i nostri tempi.
Sebbene la crisi della dicotomia “destra-sinistra” sia stata discussa anche da intellettuali di sinistra come Norberto Bobbio (si pensi al suo saggio “Destra e sinistra” del 1994), la rinnovata attualità di tale schema interpretativo è dimostratata, almeno in parte, dalle note tesi sulla “fine della storia” di Fukuyama che non a caso costituiscono la base teorica comune del modello politico-sociale oggi egemone.
Infatti, molti studiosi e pensatori continuano a riconoscere la persistenza di questa suddivisione. Ad esempio, lo storico francese M. Gauchet (di sinistra) afferma che questa dicotomia esiste esclusivamente all’interno del modello politico occidentale e sparirebbe solo con la sua fine.
Proprio per questo, è necessario ribadire nuovamente un fatto apparentemente ovvio: destra e sinistra esistono ancora e tra queste prosegue uno scontro che, però, si è spostato su un altro livello, quello prepolitico, intellettuale e filosofico. Ciò che oggi conta davvero non è la competizione tra partiti, ma il conflitto tra identità e autorappresentazioni individuali che a loro volta plasmano profondamente lo spazio prettamente politico.
La teoria gramsciana dell’“egemonia” è ormai patrimonio non solo della sinistra, ma anche degli intellettuali di destra che con la loro “battaglia culturale” sembrano esserne diventati i veri eredi. Tale ipotesi è altresì confermata dai successi dei conservatori americani e dalla svolta a destra verificatasi in diversi paesi europei seguti ai processi di riorganizzazione delle forze conservatrici occidentali impegnate nell’elaborazione di un pensiero originale e consapevole degli errori del passato. Già A. Romualdi nel suo saggio “Perché non esiste una cultura di destra?” (1965) aveva individuato la principale debolezza teorica del proprio campo politico: “mentre la destra brancolava nell’incertezza, divisa tra patriottismo risorgimentale, liberalismo nazionale e statalismo corporativo, la sinistra, nonostante le sue varie contraddizioni, sulla base del marxismo seppe costruire una matrice comune materialista, democratica e progressista”.
Oggi questo problema è stato risolto solo in parte: ciò è dimostrato dal fatto che molti abbiano intrapreso un ripensamento generale del pensiero di destra.
Da questo punto di vista, suscitano un certo interesse le idee di Giuseppe Prezzolini, le cui osservazioni sul conservatorismo sono in realtà assai attuali.
Da uomo novecentesco qual era, per tutta la sua vita ha formato e difeso la propria indipendenza intellettuale non dando il proprio pieno sostegno a nessuna delle forze e dei regimi politici di cui fu contemporaneo ma, allo stesso tempo, accettando molto prosaicamente la necessità dell’esistenza dello stato: «Lo Stato mi par utile, anzi necessario, come è necessaria la latrina di casa». Una posizione veramente scomoda per i sostenitori delle tendenze centraliste caldeggiate da diversi poli politici del secolo scorso.
Proprio per questo, una delle «etichette» con cui è catalogato è quella di “conservatore anarchico”. Mussolini, con cui Prezzolini ebbe rapporti di amicizia, dopo l’emigrazione di quest’ultimo negli Stati Uniti scrisse: «Prezzolini è l’uomo che rischia di tutto per salvare l’amico in pericolo, ma che non muove un dito o un passo per garantirsi la riconoscenza del fratello prossimo al successo. In venti anni di potere Prezzolini ha chiesto solo un favore: liberare un amico incappato nella rete della Polizia di Stato. Accogliemmo, e solo in parte, la sua istanza di clemenza».
Già molto prima Bobbio, Prezzolini aveva colto la limitatezza del termine “destra”, sottolineandone il carattere artificioso e strumentale, incapace di cogliere l’essenza del fenomeno in questione: «Userò il termine di “conservatori” invece di quello di “destra”, perché il nome di “destra” ha soltanto un significato di luogo, ed è accidentale. Infatti si riferisce alla posizione “a destra della presidenza” che presero nell’assemblea francese del 1791 i deputati non rivoluzionari. Invece la parola “conservatore” ha un significato che corrisponde ad un contenuto politico e filosofico e proviene da una radice antichissima indoeuropea che fornisce già un’immagine di quello che la tendenza “conservatrice” è stata sempre nel mondo occidentale».
Per l’intellettuale, ogni movimento politico diventa inevitabilmente di destra se conserva cio che si è riuscito a conquistare nel corso delle precedenti perturbazioni sociali. Applicando tale definizione, si può affermare che nella storia italiana vi sono state molteplici “destre”: la destra storica (сavouriana), che mirava a sostenere le acquisizioni liberali subito dopo l’unificazione del paese, la destra reazionaria (agraria e aristocratica), la destra nazionalista (Papini, Corradini, D’Annunzio), la destra fascista e molte altre. Quindi destra e conservatorismo in questo caso non sono sinonimi.
Secondo il pensatore, il vero conservatore “vuole conservare quelle istituzioni che hanno un carattere permanente, cioè che sono esistite in tutti i tempi e in tutte le società”. Nonostante alcuni di questi principi possano scioccare l’individuo contemporaneo o quantomeno lasciarlo attonito, per Prezzolini essi riflettono nettamente la realtà delle cose. I più importanti sono il diritto alla proprietà privata, l’insormontabile “disuguaglianza” tra gli uomini che va accettata come un dato di fatto e, infine, l’originaria e incontrollata inclinazione dell’individuo verso il bene e il male.
Tale visione può sembrare troppo pessimista o controproducente, se confrontata con l’idea “positivista” del futuro sostenuta dai progressisti. È veramente difficile immaginare qualcuno disposto ad abbandonare il mito de “l’età d’oro che verrà” in favore di una visiona “apocalittica” del futuro la quale, secondo molti, costituisce la principale debolezza del sistema prezzoliniano. Ciononostante, la sua posizione ha una logica precisa: il pessimismo e lo scetticismo verso il futuro hanno un carattere permanente, essendo la conseguenza di un mondo duro e permeato dallo spirito del polemos, un principio che, a suo avviso, non può essere rifiutato o eluso, a differenza di quanto tenterebbero di fare i pensatori del “divenire”.
Da un lato, il pessimismo e lo scetticismo esprimono le inclinazioni inevitabili di ogni persona intelligente che, in questo modo, risulta molto cauta nell’accettare le innovazioni mentre, dall’altro, non hanno niente di comune con il pensiero reazionario, rivolto tutto al passato. A suo parere, la sinistra tende a privilegiare una visione ideale della realtà basata su principi come il progresso, l’“elasticità” dell’essere, la plasmabilità dell’individuo e della società. Solo un pensiero attento più al divenire che ai fatti può condurre a quell’ottimismo utopico con cui si cerca invano di rifare il mondo non tenendo conto dei possibili rischi.
Roma, Febbraio 2025. XXIV Martedì di Dissipatio
Al di là dei cliché e dei pregiudizi ormai radicati, l’invito prezzoliniano ad applicare questo punto di vista, considerati i numerosi scenari di crisi di cui siamo tristemente testimoni, merita di essere accolto. In questo modo, sarebbe possibile ridisegnare la linea ormai sfumata tra il “divenire” e il “fatto”, un confine che sembra essersi dissolto, avendo privato le persone dei loro punti di riferimento. Gli scritti di un “rompiscatole” del Novecento non darebbero tanto le risposte immediate a cui anelano gli spiriti erranti della nostra epoca, ma, al contrario, permetterebbero di ancorare, almeno provvisoriamente, il proprio pensiero a nuove basi che a differenza degli approcci di pensiero maggiormente diffusi sono molto “attente” alla propria funzione (neo)fondativa.