“Con la radio accesa e un sapore di antico in bocca” proveremo, momentaneamente “liberi dalle insidie del tempo”, a recensire gli ermetici, paradossalmente ieratici Psycho Kinder. La band, fondata nel 2009, ha sempre avuto come anima occultamente sibillina il poeta Alessandro Camilletti. I brani dell’autore vivono di citazioni sfuggite ai libri per diventare sangue – come già Nietzsche, ombra che si allunga nelle liriche dell’aedo marchigiano, ammoniva:
scrivi col sangue e allora imparerai che il sangue è spirito.
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, 1885
E infatti l’esistenzialismo metafisico di cui i pezzi trasudano non è una teoria anemica o una moda da maglione a collo alto, ma l’autentica disposizione spiritualmente logistica del proprio intimo. Il racconto musicale si dirama in brani dal sapore almeno apparentemente “decadentista” ma anche a tratti dadaista, archeofuturista e dall’afflato ontologizzante. Nei duri suoni dei primi album, nell’incedere cupo e ossessivo del basso, nelle metalliche fughe degli assoli, nelle malinconiche distorsioni dell’onnipresente sintetizzatore e nel marziale martellare della batteria, si percepisce il retroterra musicale dell’autore: Joy Division, Death in June, Bauhaus, ma anche CCCP, i primi Diaframma (ad esempio in Incomunicabile), Battiato, Massimo Volume e tanti altri colossi della scena underground di ieri e di oggi.
Tuffarsi nell’aristocratico abisso dell’antibuonismo tragicista, in cui la speranza è fieramente Polemos e non un astratto ideale da salotto, è un’esperienza jüngeriana, da accampamento militare – e le urla di alcuni pezzi nietzscheani – per esempio in Un uomo – lo testimoniano integralmente smascherando le “democratiche ipocrisie” con le quali l’apolide moderno castra se stesso e le sue elementari energie. La tensione al metatemporale, dunque, non neutralizza la solitudine, il senso soffocante di ingabbiamento, la vacuità livellante del sistema che nelle ipertrofiche normative ci impicca “a reati d’opinione, bugie morali, inganni, cauti servilismi”; malgrado infatti oggettivamente l’angoscia sia la cifra dell’oggi, l’essere edifica il ni-ente che è pur sempre un modo di darsi dello stesso Essere, una terribile voluttà alla quale concedersi, un destino da portare a compimento. In queste sonorità, che sublimano senza abbandonare le avanguardistiche suggestioni postpunk, si allargano radure dove l’aquila dell’io corre con ali intrise di catrame che, a dispetto delle chiassose galline e del deiettivo spettacolo mediatico, non rinunciano ad anelare a un sole rimasto, nonostante tutto, invitto. Sono fughe partorite dal quotidiano, totalizzanti sfide all’assiologia attuale – inattuale dinamite, destinale esplosione.
Camilletti individua con precisione e, visti i tempi, con grande coraggio i nuovi umani: “sono democratici ma anche un po’ fanatici”; tale impietosa fenomenologia non risparmia la standardizzazione annichilente (“l’uomo finisce in protocolli” e si perde nelle “vetrine della banalità”) invitando l’individuo a oltrepassare lo “stato di violenza permanente che chiamano pace”. Cantore nel nulla che avanza ma non ancora incensatore del relativismo nichilistico, Camilletti riesuma, in lirici aforismi che cristallizzano il tempo, l’ingiustamente obliato Michelstaedter (“L’assoluto, non l’ho mai conosciuto, ma lo conosco così come chi soffre d’insonnia conosce il sonno, come chi guarda l’oscurità conosce la luce”); e ancora il Leopardi delle “magnifiche sorti e progressive” nonché Ezra Pound maledicente con la sua stessa, rauca voce dall’eternità la prostituta usura. Geroglifici nel marmo, scritte e spettri come santi, che appaiono da un aldilà-sostrato accompagnati da altri andati-ritornanti: Schopenhauer e Nietzsche; Cioran e Guénon; Heidegger, Severino, Nicolás Gómez Dávila.
Divenire ed Essere, profano che non si arrende al mondano; nichilismo sì, ma non passivo, eroismo da solitari, da Anarchi – o da Waldgänger. Ipresocratici, il pessimismo salvifico dell’Ecclesiaste, ma anche Andrea Emo e Guido Ceronetti. La ricerca filosofica del poeta rammemorante demolisce le illusioni del progresso e della dea ragione nella consapevolezza che cavalcheremo la menzogna solo finché l’utilità non andrà a scemare. La sradicatezza di cui allora saremo consci, tuttavia, non avrà il potere di esiliarci dall’Essere essendo di per sé gli uomini “inviolabili e sacri”. La darkwave tipica dei primi lavori – da Il tramonto dell’evidente a ExTension – s-fiorisce soprattutto nell’ultimo disco (Epigrafe, 2020) in un profondo e lunare post-industrial radicalmente minimalista che apre alle recondite stanze del dark ambient. Le parole – che in origine si imponevano sulle note accompagnandone con costanza la cadenza – sono ora folgorazioni, squarci di apollinea elettricità nel tetro allestimento dell’impianto tecnico – vibrazione, frammento, tellurismo apocalittico che eleva a cieli ignoti pochi folli.
I versi di Camilletti fanno breccia tra nubi presaghe di vaticini e, come se a sentenziare fosse l’invasata Pizia di Delfi, avvezzano, nel fulminare irretente, al custodente che trascende e ossimoricamente adagia all’u-topia di un ineffabile Oltre. È già da Diario Ermetico che l’artista inaugura un interessante lavoro di sottrazione della parola forse implicitamente preannunciato nei lavori precedenti (“nella ricerca ossessiva di un’origine mi sono cancellato”, Panico, 2014). Tale tecnica di distillazione del semplice-evidente si traduce in quest’album nella de-cantazione di aforismi da cui traluce la forza elementare dell’oscuro maestro Eraclito – e, in un appalesarsi del non-essere-nascosto, del suo “terribile” alter ego: Parmenide. Il lavoro di assottigliamento del palpabile nell’invisibile che ri-vela nel disordine degli alberi l’infantile disegno della brillante φύσις, culmina in Epigrafe, dove l’autore traduce con atavica maestria l’ambizione di spogliare il logos sino al silenzio per liberarsi, per dirla con Cioran, del “cancro della parola” evocando la sub-stantia in un linguaggio metaverbale che possa essere laconica dimora dell’essere, suo epifanico tempo, chiesa dell’occultamento rischiaratore.
Camilletti, forgiando un linguaggio ricco di correlativi oggettivi, allestisce una scenografia che apre il fruitore allo spazio sottile non solo nei suoni, ma anche nelle sequenze dei video, tutti estremamente allusivi, criptici e immaginifici. Affiora pertanto l’occulta forza di registi anch’essi metafisici quali Tarkovskij, Bergman ed Herzog. Sono infine da menzionare le importanti collaborazioni di cui il progetto Psycho Kinder si è avvalso nel tempo e soprattutto nell’ultimo album, frutto dell’incrocio di molteplici, poliedrici talenti: Luca Ormelli, Moreno Padoan, Michele Caserta, Ge-stell, Giovanni “Leo” Leonardi, Valeria Cevolani (Disciplinatha), Celery Price, Deca, Giorgio Mozzicafreddo, Maurizio Bianchi. Ali Salvioni, Luca Barchiesi, Marco “El Topo” Luchetti, Francesco Pirro, Lino Capra Vaccina. Tra i compagni di viaggio menzioniamo inoltre Valerio Zecchini, Andrea Chimenti, Degada Saf, Lisfrank e Miro Snejdr (Death in June). Grazie a queste affinità elettive che si coagulano in un progetto che non si limita al mero spettacolo, Camilletti trascende l’io in un noi che non è massificazione ma elevazione,superamento dell’individualismo, estatico avvicinamento all’Indistinto. La radio è ancora accesa e siamo chiusi a casa, mentre declina con la sera l’Occidente e un sapore di antico è in bocca; fatalmente, dopo il viaggio che ci ha condotto a “fissare le interiora del mondo” accettiamo l’invito dell’augure ultimativo percuotendo, con lo sguardo all’orizzonte, “l’anima fino all’implorazione” in attesa di un segno – di “un amore vasto senza dono”.