Mi aggiravo famelico per la metropoli. Ne ho metrato l’inconsistenza bibliografica. Avrò razziato, credo, una decina di librerie, in ogni rivolo di periferia. All’epoca non funzionava il commercio digitale – d’altronde, ora, mi rifiuto di farmi sua preda. Cercavo un libro. Uno e trino. “Valis”.
Non sono un fan di Philip K. Dick. Voglio dire. È un archivio di ossessioni e di intuizioni formidabili, d’inesausta energia. Preferisco altra scrittura. Diciamo che mi figuro l’incontro tra Philip K. Dick e Jorge Luis Borges sul lago di Ginevra, a discorrere come esseri fuori dal tempo di una Bisanzio su Venere. Eppure, per quel libro di Dick ho varcato Milano, sciacallo dei libri, da un lato all’altro.
Come sanno i fan, nel 1974 PKD è folgorato da una visione – quei giorni tra marzo e febbraio sono la sua Patmo, il suo Bodh Gaya, l’albero di fico e il roveto ardente, l’angelologia e lo scudo di Achille. PKD crede di essere stato ‘visitato’, finalmente, e con fierezza denuncia ciò che per i mistici è abbecedario minimo: “Ho fatto esperienza di una invasione della mente da parte di una intelligenza razionale e trascendente, come se fossi stato pazzo per tutta la vita, mi sono scoperto improvvisamente sano”. L’esito primo di questa esperienza mistica è un libro, imperfetto, Radio Free Albemuth, scritto nel 1976 e pubblicato postumo, nel 1985. Di fatto, è il canovaccio di “Valis”, opera inclassificabile, più vangelo che romanzo, più teologia che letteratura, più eresia che eremitaggio nel linguaggio. Il ciclo, pubblico tra 1981 e 1982, è costituito da Valis (1978; l’acronimo sta per “Vast Active Living Intelligence System”), Divina invasione (1980), La trasmigrazione di Timothy Archer (1981). Il ciclo, come “Trilogia di Valis”, è stato pubblicato da Mondadori nel 1993, la mia edizione è quella del 2000, per la ‘Piccola Biblioteca Oscar Mondadori’ (e la cura di Vittorio Curtoni); ora lo pubblica Fanucci.
Le emanazioni della luce, essendo pure, non hanno bisogno dei misteri; ne ha invece bisogno il genere umano poiché gli uomini sono tutti resti materiali
Pistis Sophia
Su “Valis” s’è detto tutto – per alcuni è il progetto letterario di un malato (ma senza malattia non si dà grande libro), per altri un capolavoro. Kim Stanley Robinson, nell’introduzione al libro mondadoriano, trova conforto citando William Blake: “Valis è il monumento di una mente che si è rimessa in sesto, dopo essere giunta sull’orlo del precipizio”. Ted Gioia fa la critica ai critici, parla del ciclo come di “una distorsione del Tractatus di Wittgenstein, riformato in incubo”, che, insomma, “questo lavoro regge il confronto con Pynchon, Heller, Vonnegut, e tutti quelli che hanno ridefinito i confini della narrativa americana degli anni Sessanta e Settanta”. D’altra parte, non c’è nulla di sconcertante in Dick: dal 2009 pure “Valis”, la trilogia, è stata installata nell’edizione sontuosa delle opere di PKD, presso la collana della “Library of America”. Come Melville, Hawthorne, Henry James e William Faulkner, anche PKD è uno dei cardini della letteratura – cioè, dell’immaginario – americana. “Viviamo, ora, nell’universo ideato da Dick allora: abitiamo nel suo cervello, in un certo senso”, ha detto Jonathan Lethem, che ha curato le opere di Dick per la “Library of America”. Sostanzialmente, ha ragione. In verità, qui siamo un passo in là.
La trama del ciclo la trovate in rete, non è essenziale. Il romanzo di Dick – eccolo, il passo in là, nell’al di là della narrazione – non è sapienziale né gnoseologico. Non c’è nulla da conoscere, semmai da disconoscere; si assembla un’enciclopedia di maestri e di testi – da Eraclito ai Dogon, dal pensiero degli Esseni a quello taoista – per annientarli, per ucciderli citando (“le citazioni sono quindi la sintesi di un processo analitico frammentario, non verificabile, non omologabile – schizofrenico”, scrive Curtoni). Gli eroi dei romanzi, sgangherati, da Horselover Fat a Manny Asher a Angel Archer, cercano l’altro mondo oltre la crosta di questo, la parola vera che si nasconde sotto la custodia alfabetica di quella reale, la vita autentica al di là di questa, scalfita dalla menzogna, aggiogata al male.
Dal punto di vista formale, PKD sconfina nell’altro lato del narrare. Crea trame che s’insidiano a vicenda e testi apocrifi, come il Tractatus: Cryptica scriptura che costituisce il ‘negativo’ di Valis. “La materia è plasmabile di fronte alla Mente”; “Uno a uno, egli ci estrae dal mondo”; “Se i secoli di tempo spurio venissero asportati, la data vera non sarebbe il 1978 ma il 103 a.C. Perciò il Nuovo Testamento dice che il Regno dello Spirito giungerà ‘prima che taluni di coloro che adesso vivono siano morti’. Dunque noi viviamo nei tempi apostolici”; “La Mente non parla a noi, ma per mezzo di noi. La sua parola ci attraversa e il suo dolore ci infonde di irrazionalità”. Il romanzo, Valis, è il commento al Tractatus. Non tanto la ricerca di Dio – il mostruoso, l’ignoto – ma il recupero dei frammenti. Suturare il patto – snaturare la follia in fede.
Nel ciclo si discetta dello Zohar, della Prima lettera ai Corinzi di San Paolo, dei manoscritti di Nag Hammadi: PKD opera congiungendo l’invenzione al fatto, l’apocrifo all’apolide, perché la teologia, appunto, è la punta estrema della fantascienza. Tra i testi remoti che possono aver costituito lo schema del ‘romanzo teologico’ di PKD cito Il libro dei segreti di Enoch. Testo del I secolo, pubblicato per esteso nel 1880, racconta il viaggio celeste del patriarca biblico. “Il Signore chiamò Vereveil uno dei suoi arcangeli che era abile a scrivere tutte le opere del Signore. Il Signore disse a Vereveil: ‘Prendi dei libri dai depositi e consegna un calamo a Enoc e dettaglia i libri’. Vereveil si affrettò e mi portò dei libri screziati di smirnio e mi consegnò un calamo dalla sua mano. Mi diceva tutte le opere del cielo e della terra e del mare e i movimenti e le vite di tutti gli elementi e il cambiamento degli anni e i movimenti e le modificazioni dei giorni… e ogni lingua dei canti delle milizie armate” (cito dagli Apocrifi dell’Antico Testamento, a cura di Paolo Sacchi, Utet 1989). Scrivere significa accusare il potere di un altro, condividerlo, risignificare l’angelico.
Non soltanto vivo da solo; non sono mai stato sposato, né ho mai visto questa donna. Eppure nel sogno provo un amore profondo, piacevole, familiare per lei, il genere di amore che si forma solo con il passare di molti anni
Philip K. Dick
L’altro testo necessario è il poema gnostico, Pistis Sophia, sgorgato da Alessandria nel III secolo, noto dal Settecento. Il testo è, a tratti, una spiegazione dei detti evangelici di Gesù con lo scopo di elevare gli adepti/eletti al “regno della luce”, liberandosi dalla lordura materiale. “Rinunziate a tutto il mondo e a tutta la sua materia, per non assommare altra materia alla vostra”; “le emanazioni della luce, essendo pure, non hanno bisogno dei misteri; ne ha invece bisogno il genere umano poiché gli uomini sono tutti resti materiali” (cito da Pistis Sophia, a cura di Luigi Moraldi, Adelphi 1999). Il mondo è un enigma inviolabile, grave di violenza, perché la materia, lurida, rende ciechi. Scopo, attraverso la parola cifrata, di cui solo i pochi fanno pasto – PKD, d’altronde, è scrittore pop con scrittura esoterica – è slegarsi dallo schifo che ci impania, dalla ‘ragione’ e dalla ‘materia’ che ci appesantisce, nuotando verso la luce. Altra vita – la vita, in sé – è inutile, è ritorno al gorgo del fango.
“Ho sognato di un altro luogo, un lago a nord con delle villette e piccole fattorie… Dove esiste in realtà questo lago, e le case e le strade attorno a esso? Un’infinità di volte l’ho sognato… Nei sogni sono sposato. Nella vita reale, vivo da solo. Cosa ancora più strana, mia moglie è una donna che non ho mai visto nella realtà. In un sogno, noi due siamo nel giardino posteriore, intenti ad annaffiare le rose e a potarle… Chi è questa moglie? Non soltanto vivo da solo; non sono mai stato sposato, né ho mai visto questa donna. Eppure nel sogno provo un amore profondo, piacevole, familiare per lei, il genere di amore che si forma solo con il passare di molti anni”. La dolce ferocia di PKD, qui, sembra la stessa che avvertiamo in una scaglia di Eraclito – viviamo dormienti, viviamo dormendo –, nella nostalgia di Gesù provata da Giacomo, nel verso abissale di Pindaro – “Sogno d’un’ombra, l’uomo” – nella poesia di Yeats, nel gergo di Shakespeare. Percepiamo, tutti, di avere avuto in premio un’altra vita, che qualcuno sta vivendo per noi, che siamo nel sogno di un altro, sinistro e dispari, nel sogno sbagliato, che hanno giocato a dadi con le culle, con le cronologie, con i pianeti, forse.