Esistono opere che non si lasciano classificare facilmente. Opere che travalicano i limiti dei generi letterari e a cui stanno strette le etichette. Dune di Frank Herbert è una di queste opere, apripista di una delle saghe moderne più ambiziose, ma che anche come romanzo autoconclusivo si conferma un indiscusso capolavoro della speculative fiction anglosassone. Nelle sue centinaia di pagine il lettore troverà intrighi politici, avvincenti lotte per il potere, ma soprattutto un sapiente scavo psicologico dei personaggi e un potente messaggio ecologista, il tutto arricchito da un taglio epico che coniuga il meglio degli antichi poemi e delle moderne space operas.
Come un moderno feuilleton, Dune vide la luce (dopo una gestazione di almeno un lustro) tra il 1963 e il 1965 a puntate sulla rivista «Analog». L’edizione in volume, ampliata, uscì nello stesso 1965, dopo una forsennata ricerca di un editore disposto a pubblicarlo e una ventina di rifiuti. L’anno seguente Dune vinse la prima edizione del PremioNebula e il Premio Hugo a pari merito con Io, l’immortale di Roger Zelazny. Tuttora risulta il più venduto romanzo di fantascienza (se si accetta di etichettarlo in questo modo, ovvio).
Difficile dire se Frank Herbert avesse anche solo immaginato tutto questo successo quando scrisse la sua opera più celebre. All’epoca aveva alle spalle già qualche pubblicazione fantascientifica, ma non aveva ancora raggiunto il grande pubblico. Pare che a ispirarlo sia stata la visione delle dune di Florence, una cittadina dell’Oregon: quel paesaggio desolato, arido, sterile dovette solleticare la sua fantasia e spingerlo a imbarcarsi in un’impresa letteraria che anni dopo avrebbe reso immortale il suo nome.
Si è già detto che Dune poco si presta alle facili classificazioni letterarie, e il motivo è presto detto: se non fosse per le astronavi, i viaggi nello spazio e l’ambientazione su più pianeti, sembrerebbe in tutto e per tutto un romanzo fantastorico o fantasy. Magari un precursore della fortunata saga martiniana per la sua attenzione maniacale al contesto politico, agli intrighi e ai giochi di potere. Oppure un precursore di Star Wars, che per stessa ammissione di George Lucas deve molto all’opera herbertiana. L’universo narrativo di Dune è un futuro lontanissimo, ma anche arretratissimo, in cui le macchine pensanti sono state messe al bando, la società è regredita all’età feudale e il potere è nelle mani di aristocratici, imperatori, gilde e ordini religiosi. In questo contesto saltano fuori trovate a dir poco geniali, come l’ordine dei Mentat, uomini addestrati per avere una capacità di calcolo paragonabile a quella di un computer. Certo, anche Asimov si era ispirato all’Impero Romano per plasmare il suo Impero Galattico nel ciclo della Fondazione, ma nelle pagine di Dune si respira davvero l’aria di un Medioevo oscurantista, di un futuro che guarda al passato.
Rispetto alla stragrande maggioranza delle opere di science-fiction, in Dune la (poca) tecnologia non è mai al centro della narrazione, né è trattata con un vero rigore scientifico. Il vero fulcro del romanzo è costituito da un intricato e suggestivo intreccio di vicissitudini politiche, militari, religiose e mistiche. Da un lato la faida millenaria tra le nobili famiglie degli Atreides e degli Harkonnen, degna di una saga medievale o di una tragedia shakespeariana. Dall’altro il percorso che porta il giovane Paul Atreides, rampollo cresciuto fino a quel momento nella bambagia, a diventare un leader militare e religioso.
Paul è il Kwisatz Haderach, una sorta di superuomo selezionato dall’ordine delle Bene Gesserit tramite una politica plurimillenaria di incroci genetici. Tuttavia è forte, nella scrittura di Herbert, l’influenza delle religioni abramitiche: nel corso della narrazione Paul assume anche i connotati del Māšīāḥ ebraico (più che del Messia cristiano) e del Mahdimusulmano, guidando col nome di Mu’adib i Fremen in una battaglia che è insieme un riscatto politico-sociale e una guerra santa a sfondo religioso. Non è un caso che Herbert arrivi a parlare, a un certo punto della saga, di una vera e propria jihad. In definitiva, Paul Atreides è la quintessenza del Übermensch nietzschano e insieme del Profeta semitico, che distrugge i vecchi ordini sociali, politici e religiosi per forgiarne uno nuovo, anche ricorrendo alla violenza. Un ordine che scricchiolerà ben presto, come dimostrerà poi il seguito del romanzo, Messiah of Dune, pubblicato nel 1969.
Attorno a Paul, ovviamente, si agita un intero cosmo di figure indimenticabili dipinte da Herbert con poche, abili pennellate che ne mettono in luce i tratti fondamentali senza per questo scadere nel macchiettismo o nel monolitismo: il duca Leto Atreides, la sua concubina lady Jessica, l’orrido barone Vladimir Harkonne, il fedele Thufir Hawat, il tragico dottor Yueh, e poi ancora l’imperatore Shaddam IV Corrino, il capo Fremen Stilgar, la dolce e al contempo combattiva Chani. La lista sarebbe lunga. Ma i veri co-protagonisti del romanzo sono anche le sue creature più iconiche, celebri e interessanti: i vermi delle sabbie. Venerati come divinità dai Fremen, temuti dai cercatori di spezia, guardati con interesse dagli scienziati, queste creature gigantesche e misteriose rappresentano soprattutto la maestosità e l’imperscrutabilità del mondo naturale, in confronto al quale l’uomo non è che un piccolo essere. I vermi delle sabbie sono i signori di un ecosistema inospitale, desertico, in cui tuttavia l’umanità (rappresentata dai Fremen che, va ricordato, non sono una razza aliena, in Dune non esistono civiltà extraterrestri) è riuscita a trovare un modo per sopravvivere.
La fantasia creatrice di Herbert dà vita a una società complessa e definita fin nei minimi dettagli per adattarsi a un ambiente così ostile: basti pensare al fatto che i Fremen indossano apposite tute distillanti per riciclare l’acqua da qualsiasi fluido corporeo, che sia sudore, feci o urina; oppure al rito di prelevare l’acqua contenuta nel corpo dei Fremen morti, per non sprecare nemmeno una goccia del preziosissimo liquido.
In quest’ultimo aspetto sta il messaggio forse più importante e attuale di Herbert. La desolazione di Arrakis/Dune è un monito, forse un po’ troppo esplicito e prosaico ma di sicuro effetto, contro i rischi della desertificazione e degli stravolgimenti climatici che l’azione antropica sta infliggendo al pianeta. Eppure, se persino i Fremen, pur induriti dall’ambiente inospitale in cui vivono, sono riusciti ad aggrapparsi al sogno, apparentemente irrealizzabile, di trasformare il proprio pianeta in un paradiso di acqua e di vegetazione, forse anche per l’umanità del XXI secolo c’è una speranza di aprire gli occhi e cambiare rotta, prima che sia troppo tardi.
Un ultimo accenno meritano le trasposizioni audiovisive di Dune. Già negli anni ’70 Jodorowsky voleva trarne un film ambiziosissimo, con la colonna sonora dei Pink Floyd e personalità del calibro di Orson Welles, Salvador Dalì e Mick Jagger nel cast, ma l’enormità del progetto e soprattutto del budget che avrebbe richiesto ne resero impossibile la realizzazione. Nel 1984 vide invece la luce un sontuoso, per quanto zoppicante, adattamento cinematografico prodotto da Dino De Laurentiis e diretto da David Lynch, all’epoca ancora agli inizi della sua carriera da cineasta; il canale SyFy ha poi realizzato e trasmesso nel 2000 una miniserie televisiva in tre puntate, più fedele al romanzo ma anche più povera nei pezzi tecnici. E non si può tacere del futuro adattamento di Villeneuve, rimandato al 2021 ma atteso da molti appassionati come la seconda venuta di Cristo (o come la Snyder’s Cut di Justice League).