Il Sudan è una multinazione in cui convivono a fatica circa cinquecento gruppi etnici, sebbene gli arabi siano il predominante, che parlano più di quattrocento lingue e dialetti. La religione, in questo luogo in cui l’identità tribale è tutto, può essere come vista e vissuta come collante che unisce o come coltello che trancia.
Forse perché intrinsecamente frammentato, o perché bistrattato al momento della transizione verso l’indipendenza, o forse perché entrambe le cose, il Sudan è in guerra civile virtualmente dagli anni Cinquanta. Nessuna pace si è mai rivelata tale, assumendo la forma di un armistizio in preparazione della riapertura delle ostilità. E soltanto le soluzioni drastiche, come i colpi di stato o le secessioni, sembrano produrre periodi di quiete.
Ma in un mondo in tempesta, quale è quello degli anni Venti del XXI secolo, la quiete non può albergare da nessuna parte. Men che mai in quei luoghi, come il Sudan, che dei loro continenti sono sempre stati delle vene scoperte e sanguinanti.
In Sudan è guerra dal 25 aprile. Guerra che ha lasciato a terra, in meno di due settimane, più di seicento morti e oltre quattromila feriti. A scontrarsi sono due nemici che fino all’alba di quel 25 aprile erano amici: Abd al-FattāḥʿAbd al-Raḥmān al-Burhān, generale e leader de facto del Sudan dal 2019, e Muẖammad H amdān Daqlu, detto Hemetti, generale e numero due di al-Burhān.
Il maestro avrebbe dovuto avviare il ritorno alla democrazia da tempo, supervisionando la conduzione di un processo elettorale per la nomina di un governo, ma ha fermato la transizione verso la normalità e aumentato i propri poteri. L’allievo, risentito delle purghe all’interno della giunta militare e sostenuto dalla Russia, avrebbe lanciato un’offensiva per porre fine alla dittatura del maestro. Così vuole la narrazione dominante.
È presto per addossare la responsabilità della dilagazione del caos ad una potenza specifica. È presto perché la nebbia di guerra offusca la vista e la propaganda stordisce le orecchie. Ma non è presto, invece, per inquadrare i fatti sudanesi all’interno della nuova guerra mondiale, di cui costituiscono un frammento.
Le grandi potenze del sistema internazionale e le potenze-guida del Medioriente hanno un interesse in Sudan. Era ed è un segreto di Pulcinella. Gli Stati Uniti hanno palesato il loro al momento degli accordi di Abramo. La Russia ha mostrato il suo iniziando un corteggiamento alla giunta militare nata nel 2019, e rimpastata nel 2021, sfociato nell’autorizzazione ad aprire una base navale a Port Sudan nel febbraio 2023. Sullo sfondo, il desiderio della Cina di integrare il Sudan nella Belt and Road Initiative per via della sua posizione geostrategica, gli assetti di Israele e le rivalità tra le potenze egemoni dell’arabosfera. Tutti pazzi per il Sudan, perché Sudan vuol dire Mar Rosso.
Stati Uniti, Russia e Cina sono i personaggi principali del capitolo sudanese della competizione tra grandi potenze. Israele, le Libie, Egitto, Emirati Arabi Uniti, il terrorismo islamista e qualche altro sono i personaggi secondari, che arricchiscono la storia primaria di una costellazione di sottotrame. Gli Stati Uniti vedono nel Sudan, storica oasi dell’Internazionale jihadista, un tassello indispensabile a garanzia del funzionamento dell’alleanza di Abramo, uno schema anticinese in potenza, e dell’egemonia delle forze occidentali e filoccidentali delle acque del Mar Rosso, sulle quali transita il 10% dei commerci globali.
La Russia ha in Hemetti un uomo di fiducia a Khartoum e considera il Sudan come un mezzo multiscopo: un porto con cui insediarsi e insediare il Mar Rosso, una miniera di tesori – i russi sono i monopolisti di fatto del settore aurifero sudanese – e un elemento di stabilità – in quanto confinante con Repubblica centrafricana, assetto russo nel continente, e con Libia e Ciad, aree di massima priorità che si vorrebbero convertire in assetti.
La Cina punta al Sudan per rafforzare la costruzione della collana di perle, la via per l’aggiramento della catena di isole, e per proiettare le Nuove vie della seta nel cuore dell’Africa. Tutte e tre le potenze hanno da perdere e da guadagnare dai fatti sudanesi. È presto per emettere sentenze di colpevolezza. Il tempo aiuterà a capire chi ha fatto cosa, chi stava con chi. Non servirà nient’altro che aspettare e osservare l’epilogo: se una fine delle influenze occidentali sul Sudan, se l’accantonamento del progetto della base navale russa a Port Sudan, se la chiusura dei negoziati per l’adesione alla Belt and Road Initiative, se un’espansione dell’instabilità verso gli assetti russi nel continente, se un limbo più favorevole per alcuni che per altri. Perché cui prodest scelus, is fecit.