OGGETTO: Le questioni geopolitiche del mondo antico
DATA: 20 Agosto 2024
SEZIONE: Recensioni
FORMATO: Letture
Guardare al passato con gli occhi del presente è un esercizio rischioso, che non tiene conto delle mutate condizioni e della differente visione del mondo caratteristica di collettività così lontane nei secoli o nei millenni. Mutando le categorie, mutano anche le ambizioni e le necessità geopolitiche delle popolazioni. Ciononostante, è possibile analizzare alcuni elementi che, pur rimanendo vincolati a un tempo lontano, rappresentano delle chiavi di lettura dei processi avvenuti nel Mediterraneo dal II millennio a.C. al VI secolo d.C. con interessanti rimandi all’attualità.
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Ciò che viene tradizionalmente interpretata come antichità, è costituita da diverse fasi, molto diverse l’una dall’altra. Tale per cui la mitologica “talassocrazia” minoico-cretese non ha motivo di sussistere, date le condizioni di partenza e l’a-storicità di una simile lettura, mentre più consistenti restano talune letture dell’egemonia marittima punica o romana.

Il volume “Geopolitica del mondo antico”, edito Carocci e a cura di Franca Landucci e Giuseppe Zecchini, sembra propendere verso una serie di interessanti linee guida. Lungi dal voler dare del mondo antico una lettura prettamente a posteriori, i saggi ivi contenuti individuano una serie di chiavi di lettura, le quali arricchiscono la comprensione delle dinamiche dell’epoca, aprendo inoltre la strada a interessanti similitudini con i nostri tempi.

Il primo elemento da considerare è certamente il concetto di “impero”, oggetto di un dibattito tutt’ora in voga a livello di studi storici e geopolitici. Mario Liverani, tra i più insigni studiosi di Vicino Oriente antico, ha visto nell’impero di Akkad la prima compiuta manifestazione di questo concetto. Più che guardare al livello di estensione e di potenza economica o militare, il concetto di impero si baserebbe secondo Liverani essenzialmente sulla presenza o meno di una “missione imperiale”.

La “missione imperiale” è sostanzialmente l’ideologia universalista che giustifica le espansioni avvenute o in procinto di avvenire. In geopolitica la missione è quella che caratterizza le principali potenze di natura imperiale del mondo, Stati Uniti in primis, autentico pilastro su cui si erge il preteso dominio universalistico a stelle e strisce.

Se Akkad rappresenta l’esordio, l’Assiria – a cui Liverani ha dedicato uno specifico volume – è il compimento imperiale delle civiltà mesopotamiche, prima dell’assorbimento ad opera dei persiani. Altra storia e altre dinamiche. La Persia, a partire dal 539 a.C., ovvero dalla caduta di Babilonia, diviene il fulcro e il cuore geopolitico del Vicino Oriente. Civiltà raffinatissima e imprescindibile, in grado di assimilare – anziché essere assimilata – tutti i futuri invasori, cooptando a proprio vantaggio greci o arabo-islamici. La matrice imperiale persiana, inscindibile dalla sua stessa anima, continua a perpetuarsi fino ad oggi. L’Iran è impero oggi, come tremila anni fa, e si muove lungo direttrici molto simili.

Proprio la Persia si contrappone, come ben noto, alle città della Grecia. La più significativa lettura riguarda non tanto e non solo le celeberrime guerre persiane, quanto piuttosto le vicende concernenti il coinvolgimento persiano nella guerra del Peloponneso. Autentica chiave di volta di tutti i successivi processi di sottomissione delle città elleniche. L’idea di una “pace generale”, garantita dal re persiano, su richiesta inizialmente degli spartani: una formula che garantisce la valorizzazione del principio di autonomia e la possibilità di costituire un’alleanza militare, sotto la guida di un egemone riconosciuto. Va da sè, che dall’egemone persiano si passa alla Macedonia e poi a Roma. Un simile strumento permette a potenze straniere di inserirsi con piena legittimità nelle vicende greche, garantendo un’apparente libertà.

Un simile gioco viene replicato in contesto europeo, alla fine della seconda guerra mondiale, con la creazione dei primi organismi comunitari e della Nato. Sorta di “pace comune” in senso moderno, con gli Stati Uniti a fare la parte dell’egemone, con la Cina disperatamente alla ricerca di sostituirvisi (da cui le Vie della seta). Nell’apparente libertà e autonomia degli stati europei, si innesta il controllo di una potenza straniera, garante della pace e della convivenza tra le comunità del Vecchio Continente, di fatto tale da esercitare un controllo assoluto su queste ultime.

Un simile meccanismo si ripropone ulteriormente nel controllo cartaginese sulle vicende della penisola italica, prima della definitiva affermazione di Roma. Primo autentico impero marittimo del Mediterraneo, tanto da impiegare mercenari solamente nelle proprie forze di terra, destinando invece alla flotta gli abitanti di Cartagine, l’ex colonia fenicia paga tuttavia il peso dell’economia rispetto alle esigenze geopolitiche, nonché una carenza di effettivi impiegabili proprio nella flotta. Cartagine resta sostanzialmente una polis, mentre Roma è già un sistema di alleanze, tale da garantire un ricambio migliore e il nucleo di una grandiosa capacità di assimilazione.

Eppure è proprio Cartagine a favorire l’ascesa di Roma, preferendo un medio soggetto, considerato inoffensivo perché incapace di spingersi sul mare, al caos della penisola italica. Come in qualunque altra lettura dei processi di consolidamento e espansione delle collettività di ogni tempo, a muoverle è innanzitutto la paura. La stessa che anima l’inarrestabile avanzata di Roma in ogni direzione.

La paura di essere annientati, il più antico e il più radicato sentimento umano, si traduce in geopolitica nell’esigenza di profondità difensiva e di assicurarsi il controllo dei mari rivieraschi. Roma ottiene in poco più di tre secoli tutti questi obiettivi.

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Roma, Dicembre 2023. XIII Martedì di Dissipatio

Secondo questa chiave di lettura, nessuna potenza agisce unicamente per le proprie smodate ambizioni, quanto nell’umana – essendo gli stati niente più che raggruppamenti umani – necessità di sentirsi protetti. L’impero di Roma serve a proteggerne il cuore, non meno dell’impero americano o cinese o russo.

Certamente a ciò si aggiunge una dose spesso abbondante di spregiudicatezza e una mancanza assoluta di scrupoli. Nonché la volontà di far apparire la propria egemonia come necessaria e desiderabile. La pace in cambio della libertà, che sembra uno dei motti che ha animato qualunque egemonia globale, compresa quella americana, viene già brillantemente osservata criticamente da Polibio, nelle parole di Agelao, ambasciatore della Lega etolica presso Filippo V di Macedonia:

«Egli temeva fortemente che “gli armistizi, le guerre e, insomma, i giochi da bambini di noi tutti, con i quali ora ci trastulliamo gli uni contro gli altri, vengano troncati, al punto che dovremo persino pregare gli dei per avere la facoltà di far guerra o di concludere la pace gli uni con gli altri quando vogliamo, e, insomma, di essere padroni delle controversie che sorgono tra noi.»

L’avvento del dominio di Roma in Oriente, racconta di un’assimilazione impossibile e di una sottomissione salutata come liberazione. L’Oriente ellenistico si avvia a prosperare economicamente sotto la protezione militare romana, sentendosi vertice ineguagliato di cultura e raffinatezza, accontentandosi del ruolo di guida morale dell’impero, al pari del paventato prestigio di cui gode oggi l’Europa, sentendosi l’illustre parte di un più ampio e – falsamente – paritario Occidente a guida americana.

Eppure, l’egemone sa essere padre e padrone, come Roma che in un colpo solo ridimensiona il regno di Pergamo, reo solamente di aver mediato per una pace tra romani e macedoni, e distrugge l’economia di Rodi, istituendo un porto franco nell’isola di Delo. Vivendo di benessere, le città del mondo ellenistico sono sottoposte ai sussulti e alle esigenze dell’unica potenza in grado di difenderle militarmente. Esercizio ancora vivo, laddove ad esempio proprio le sanzioni contro la Russia, sono servite agli americani principalmente per recidere i ponti degli europei con i russi e per compattare il fronte degli alleati e dei vassalli.

Ultimo elemento, che in parte spiega il nostro tempo, arriva a conclusione del momento di espansione di Roma. L’inizio della pax romana rappresenta un crocevia fino agli ultimi secoli ineguagliato, un autentico spartiacque, che rende lo spazio mediterraneo esclusiva egemonia romana. Crea un concetto di “globalizzazione” ante-litteram – come Dario Fabbri suggerisce in “Geopolitica umana” – che plasma il mondo conosciuto a sua immagine e somiglianza, facendo presagire di essere giunti al vertice della civiltà, prima della fine. Dopo Roma più nulla, una sensazione di pace perenne che anima i contesti, specialmente provinciali, dediti ormai alla propria prosperità. Eppure anche un dominio così ampio ha dimostrato di poter finire, senza per questo mettere la parola fine all’umanità in quanto tale.

Un elemento tuttavia pertiene anche ai nostri tempi. Fino all’inizio del V secolo, pur svuotata completamente, Roma è l’arbitro assoluto di ogni vicenda esistente nel Mediterraneo. Può permettersi il privilegio di amministrare e di gestire anche innumerevoli sconfitte tattiche, preservandosi intatta nel proprio dominio marittimo.

Similmente, l’assalto al potere globale americano, proclamato da Cina e Russia (con Iran e Turchia a rimorchio), sconta al momento l’irriducibile superiorità americana, la sua condizione di isola immensa, in cui rifugiarsi anche al culmine della difficoltà, nonché le debolezze dei paventati nemici del Numero Uno. Con la differenza che oggi, così come al sopraggiungere della crisi del III secolo d.C. per Roma, l’incanto sembra essersi rotto. Per la prima volta da quasi un secolo, ci si comincia ad interrogare se possa esistere un mondo senza Stati Uniti, come dopo quasi quattrocentocinquant’anni, ci si interroga sul futuro, presagendo il tramonto dell’Urbe.

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"Se guardiamo a industrie più 'semplici' come, per esempio, il tessile vediamo che i flussi internazionali e i livelli di interdipendenza non sono diminuiti poi di molto. Situazioni come la crisi di Suez hanno un impatto soprattutto sui costi dello shopping (ne ho scritto anche di recente in un editoriale su Domani) e quindi, potenzialmente, sull'inflazione ma al momento non stanno riducendo più che tanto il livello complessivo degli scambi tra Occidente e Asia."

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