OGGETTO: La terra del futuro
DATA: 07 Maggio 2022
SEZIONE: Geopolitica
In occasione del bicentenario dell’indipendenza del Brasile e alla vigilia delle elezioni, il diplomatico italiano Lorenzo Trapassi riflette sul futuro del paese e sul suo ruolo nel mondo. Un libro da sottolineare.
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Nel 2022 il Brasile commemora il bicentenario dell’avvenimento più importante della sua pur giovane storia nazionale: l’indipendenza dal Portogallo, avvenuta il 7 settembre 1822. L’occasione pare dunque propizia per riflettere su questo gigante latinoamericano che si prepara anche ad eleggere un nuovo Presidente, con uno scrutinio che si svolgerà sull’impronta della guerra culturale tra progressismo e conservatorismo che divide l’elettorato. In effetti, la data suggerisce alcune riflessioni: da un lato, occorre fare il bilancio di due secoli di costruzione del progetto di nazione; dall’altro, si deve ragionare sull’avvenire di tale progetto avvalendosi di una coscienza storica più accurata e proiettandolo su una durata quantomeno più longeva dei mandati politici.

​Separato dal Portogallo, il Brasile si trovò con un certificato di nascita in bianco e di fronte alla sfida di trovare la sostanza che desse vita e autonomia alla nazione. Pertanto, la formazione nazionale non risultò, come in Italia, dell’unione di un popolo che condivideva una lunga storia e una vasta cultura; si trattava bensì del punto di partenza di un lento processo di discernimento culturale che, per certi versi, è tuttora in corso. La nazione che si è costituita nel 1822, con la particolarità di esser stata sino al 1889 l’unica monarchia americana, non era che una forma in attesa di un contenuto, e tale circostanza va presa in considerazione nell’analisi della storia politica brasiliana. Inoltre, nelle vicende del Brasile un fatto richiama subito l’attenzione: la sua partecipazione discreta, a volte quasi inoperante, nello scenario internazionale. Dato che l’identità di un Paese si definisce non solo attraverso la comprensione che una comunità nazionale ha di sé stessa, ma anche per come la vedono le altri nazioni, pare utile collocare il Brasile nel contesto delle relazioni internazionali.

​Un rilevante contributo sull’argomento è stato proposto dal diplomatico Lorenzo Trapassi nel saggio La terra del futuro. Il Brasile dalla crisi alla crescita economica. Frutto di un soggiorno di quattro anni a Brasilia, arricchito dallo studio di autori locali, il libro propone una sintesi della politica estera brasiliana dalla promulgazione della Costituzione del 1988 — che chiuse la frattura dittatoriale apertasi nel 1964 — sino al termine del governo Lula nel 2010. Il titolo rievoca il saggio omonimo di Stefan Zweig che visse in esilio a Rio de Janeiro, tra 1940 e 1942, quando tragicamente si suicidò. Mentre provava a dimenticare le stragi della guerra in Europa, lo scrittore pubblicò il libro Brasilien. Ein Land der Zukunft. Oltreché un esercizio di interpretazione del Paese che lo accoglieva, lo scritto intendeva presentare agli europei l’esempio di una nazione in cui la questione razziale, pur essendo all’origine di profonde disuguaglianze, non sboccava nella persecuzione totalitaria. Il sintagma “terra del futuro” divenne d’allora celebre in referimento al Brasile. 

La terra del futuro (LUISS) di Lorenzo Trapassi

​Il saggio di Trapassi parte appunto dalla constatazione cui si accennava circa l’isolamento dello Stato brasiliano. Nonostante sia il quinto Paese più esteso al mondo, il Brasile conservò di fatto per molto tempo una situazione periferica nelle relazioni internazionali. L’autore sostiene, in più, che questa posizione marginale perdurò sino alla riforma costituzionale avviata dopo il crollo della dittatura (1985). Questa premessa, seppur valida in linea di massima, va inserita in una prospettiva storica. Da un lato, è vero che a partire dagli anni novanta il Brasile ha assunto un ruolo più operoso in alcuni temi dell’agenda internazionale (basti pensare al «Summit della Terra» tenutosi a Rio de Janeiro nel 1992); dall’altro, però, occorre ricordare che l’attività diplomatica non era stata trascurata in passato

​Infatti, la diplomazia brasiliana ebbe nell’Ottocento un ruolo cruciale nella fissazione delle frontiere e nella definizione dei rapporti con gli altri Paesi sudamericani. Ma si deve alla proclamazione della Repubblica nel 1889 la riforma amministrativa che consentì la creazione di un prestigioso corpo diplomatico che incarnava e promuoveva i valori e l’idea di nazione con cui il Brasile voleva presentarsi al mondo. Questo nuovo delineamento diplomatico fu idealizzato da José Maria da Silva Paranhos, il Barone di Rio Branco, ministro degli Esteri dal 1902 al 1912. Il connubio da lui promosso tra diplomazia, patriottismo e cultura trasformò il Palazzo dell’Itamaraty, allora sede del rispettivo ministero a Rio de Janeiro, in una metonimia che conserva tuttora la forza della tradizione diplomatica. 

​Le congiunture storiche segnalate — da una parte, la fissazione delle frontiere territoriali e la sedimentazione del rapporto con gli Stati vicini; dall’altra, la creazione delle proprie istituzioni e la definizione di un’identità nazionale — spiegano in parte il basso profilo tenuto dal Brasile nello scenario globale. I semi del multilateralismo furono comunque lanciati dal Barone di Rio Branco ai primi del Novecento, con uno spostamento degli interessi diplomatici dall’Europa verso gli Stati Uniti. Tuttavia, lo squilibrio economico della relazione era manifesto, sopratutto a causa dell’industrializzazione tardiva del Brasile, e limitò a lungo le ambizioni internazionali del Paese. 

​In effetti, la cronologia scelta dall’autore per l’inquadratura dello studio (1988 a 2010) si giustifica proprio per il cambiamento delle circostanze, interne ed esterne, verificatesi a vantaggio del Brasile. Il ritorno alla democrazia, la progressiva stabilità economica e politica e un ridisegno delle relazioni internazionali furono gli elementi propulsori di ciò che l’autore denomina «l’inserimento internazionale funzionale allo sviluppo interno». Il saggio passa dunque in rassegna la politica estera brasiliana nei governi che si sono succeduti in quel lasso di tempo, mettendo in rilievo due momenti particolarmente importanti. 

​Il primo è il governo di Fernando Henrique Cardoso (1995-2002), sociologo che iniziò la carriera come professore a San Paolo, entrando dopo in politica, prima come senatore, poi come ministro degli Esteri e delle Finanze e infine come capo dello Stato eletto due volte, in scrutinio diretto, al primo turno. La formazione cosmopolita e l’attività intellettuale riconosciuta gli consentirono di impiantare una vera e propria «diplomazia presidenziale», cioè un impegno diretto del Presidente — nel sistema brasiliano investito anche della funzione di capo del governo — nella conduzione di una politica estera finalizzata a stabilire nuove alleanze e a rendere più attiva la partecipazione nell’ambito internazionale. Il secondo momento invece riguarda il governo di Luiz Inácio Lula da Silva (2003-2010). Operaio, dirigente sindacale e membro fondatore del Partito dei lavoratori nel 1980, la sua azione esterna fu segnata dalla ricerca di nuovo spazi di protagonismo tra gli Stati emergenti (in particolare, i Paesi Brics: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) e dall’intensificazione dei rapporti con il continente africano. I numeri dell’incremento del personale diplomatico durante il suo governo dimostrano il protagonismo dell’agenda estera: tra 2006 e 2010 furono ammessi 538 nuovi diplomatici e create 75 rappresentanze. 

​Per una scelta metodologica, o chissà per prudenza diplomatica, l’autore non va oltre il 2010. Una rassegna della politica estera del governo di Dilma Rousseff, destituita tramite l’impeachment nel 2016, e dell’attuale governo di Jair Bolsonaro, eletto nel 2018, avrebbe probabilmente indicato un cambio di passo radicale con il quale i brasiliani devono ancora fare i conti. A tutta evidenza, il bicentenario dell’indipendenza li inviterà a riflettere anche sul posto del Brasile nel mondo. Sta a loro dimostrare che il «gigante periferico», come lo definisce Trapassi, oppure il «gigante addormentato», come si suol dire, non vuol essere un gigante dai piedi di argilla.

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