I due grandi eventi internazionali della cronaca recente — la pandemia e la guerra in Ucraina — dimostrano con chiarezza quanto sono stretti i legami che uniscono le nazioni. Ed essi non derivano più soltanto da fattori geografici o culturali né sono necessariamente il risultato di decisioni politiche. In effetti, sul palcoscenico della politica internazionale gli Stati ormai non sono gli unici protagonisti. Accanto a loro si muove una pluralità di attori non statali la cui azione si estende ben oltre i confini nazionali. Alcuni agenti privati hanno acquisito infatti un potere che si manifesta attraverso una capacità inaudita di superare le barriere culturali adattandosi a qualsiasi contesto.
I giganti della tecnologia ne sono un esempio clamoroso: aziende come Meta, TikTok, Twitter, Telegram impressionano meno per il loro reddito, certo straordinario, che per la loro capacità di influenzare il comportamento delle persone e perciò di cambiare certi aspetti della vita in società. Il potere di altre multinazionali invece può influire anche sul benessere collettivo, come lo ha dimostrato la corsa globale per i vaccini in cui gli Stati hanno affidato la salute delle loro popolazioni ad alcune poche industrie farmaceutiche. Infine, il conflitto russo-ucraino sta confermando che le aziende transnazionali, come quelle che hanno deciso di lasciare la Russia, possono giocare un ruolo importante persino in un contesto bellico accentuando le sanzioni economiche e la pressione sugli aggressori.
Il tema delle aziende globali come soggetti delle relazioni internazionali non è certo una novità. Il problema della “global governance”, cioè della composizione di un sistema internazionale caratterizzato da una molteplicità di attori, di strutture e di regole, è al centro della riflessione degli internazionalisti sin dalla creazione dell’Onu. Tuttavia, alcune tendenze politiche dei nostri tempi aggiungono nuovi elementi al dibattito. Da un lato, la crisi della rappresentanza politica investe diverse democrazie e rende sempre più difficile il dialogo tra i cittadini e i rappresentanti creando un divario tra le aspettative sociali e le iniziative politiche. Dall’altro, la rivoluzione digitale ha amplificato la voce dei singoli individui rendendoli capaci di stabilire e di difendere in autonomia le loro agende senza l’intermediazione dei partiti tradizionali. Di fronte a un tale scenario, come si può stabilire un dialogo fruttuoso tra attori pubblici e privati nel sistema internazionale?
Partendo dalla premessa che attraversiamo un’epoca in cui alcune aziende svolgono spesso sulla scena globale un’azione addirittura più importante di quella degli Stati, il saggio Per la patria e per profitto scritto da Stefano Beltrame e Raffaele Marchetti propone un’analisi del problema da una prospettiva che si distingue per almeno due motivi. Innanzitutto, perché il libro è frutto della cooperazione intellettuale non scontata tra un accademico internazionalista e un diplomatico con esperienza aziendale. Poi perché gli autori non analizzano il problema delle multinazionali pensando soltanto al presente oppure al futuro bensì guardando al passato. Non lo fanno però alla maniera degli storici di professione, ossia isolando un fatto storico all’interno del suo contesto per dopo descriverlo e interpretarlo in base agli strumenti teorici della loro disciplina. Lo fanno anzi con la prudenza degli osservatori dei fenomeni economici, politici e sociali che pur di evitare le analisi distorte e le conclusioni affrettate riflettono tenendo, per così dire, il giornale su una mano e il manuale di storia sull’altra.
La tesi principale discussa nel saggio sostiene che le aziende con grande potere internazionale non sono un fenomeno tipico della recente globalizzazione ma hanno invece un lungo passato alle spalle. Una storia le cui radici risalgono addirittura al Seicento con le due compagnie mercantili europee più importanti di allora: la Compagnia britannica e la Compagnia olandese delle Indie orientali (la Heic e la Voc secondo i celebri acronimi), fondate rispettivamente nel 1600 e nel 1602. La presenza globale di queste multinazionali ante litteram, operative in diversi luoghi dell’Oriente, con grande autonomia e con notevole successo negli affari, le trasformò presto in poteri paralleli, se non concorrenti, rispetto alle autorità politiche dell’Inghilterra e dei Paesi Bassi. Il paragone non è inusuale: basti pensare all’affermazione dello storico francese Fernand Braudel, secondo cui il vero capitalismo è sempre multinazionale ed è anche parente di quello delle antiche Compagnie delle Indie. Gli autori ripercorrono perciò le attività e le modalità di interazione pubblico-privato messe in atto dalle due storiche aziende mercantili, in particolare nel terzo capitolo, forse il più denso del libro. Lì viene anche declinata la seconda idea chiave del saggio: la nozione di “diplomazia ibrida”.
Dato che gli agenti pubblici e privati tendono a entrare in conflitto tra di loro nel sistema internazionale a causa della diversità di interessi e di metodi, occorre munirsi di strumenti addatti a costruire ponti tra i governi e le aziende rompendo eventuali barriere politiche o culturali. Qui compare la diplomazia come l’anello che unisce elementi dispersi aiutandoli a stabilire un dialogo proficuo che favorisca la convergenza degli interessi e proponga i mezzi per soddisfarli. La diplomazia ibrida serve dunque a garantire che nelle negoziazioni internazionali le aziende e i governi non cedano alla tentazione di respingersi a vicenda come forze concorrenti ma trovino invece un terreno di cooperazione reciproca. Ma perché invocare un argomento storico per sostenere questa idea? Gli autori non desiderano di certo ripristinare pratiche commerciali di altri secoli ma ci tengono a insistere sull’efficacia duratura della sinergia pubblico-privato nelle sue varie modalità. Si tratta inoltre di sostenere la rilevanza della diplomazia poiché nelle due estremità dei rapporti commerciali ci sono, oltre alle merci, delle persone con visioni di mondo spesso molto diverse.
La prospettiva storica su cui si basa il saggio ci consente anche di ridimensionare alcune delle critiche indirizzate alla “global governance”. Il termine stesso di “globalismo” è diventato negli ultimi anni un concetto oscuro che fluttua nel mare delle correnti ideologiche sia di destra che di sinistra. Per la destra, si tratterebbe di una minaccia alla nazione e ai valori da essa incarnati (pensiamo allo slogan “America first” di Donald Trump; alla lotta contro “l’élite globalista” di Jair Bolsonaro; oppure alle critiche di Marine Le Pen verso la “mondialisation sauvage”). Per la sinistra, invece, le multinazionali appaiono spesso come le rappresentanti di un potente blocco capitalista globale ignaro dei problemi sociali. Si pensi, ad esempio, al Forum sociale mondiale, evento tenutosi per la prima volta nel 2001 nella città di Porto Alegre (Brasile), che segna una tappa importante nella mobilitazione della società civile contro le imprese multinazionali.
La storia però sembra indicare che la globalizzazione, di per sé, non è né buona né cattiva: tutto dipende dagli obiettivi e dai metodi definiti dagli attori politici e privati nel rispetto degli interessi nazionali e dei bisogni collettivi. È dunque la predisposizione a cooperare, e l’utilizzo prudente dei mezzi che rendono la cooperazione più agevolata, che determina l’equilibrio del sistema internazionale. Riflettere perciò sull’argomento in chiave storica, come si fa in questo saggio, può aiutarci a trovare metodi efficaci di dialogo tra agenti statali e aziende. In effetti, come osservava Fernand Braudel proprio nei suoi studi di storia economica, tra passato e presente non c’è mai una rottura totale poiché le esperienze passate non cessano di prolungarsi nella vita presente.