L’8 Marzo il giudice della Corte suprema brasiliana Edson Fachin ha annullato le condanne per corruzione dell’ex presidente Lula, aprendogli di fatto le porte per una possibile nuova candidatura nelle prossime elezioni del 2022. Il leader del partito dei lavoratori era stato condannato nell’ambito della maxinchiesta Lava Jato (Car Wash) che negli ultimi anni ha scoperchiato il vaso di pandora della presunta corruzione carioca innescando un infinito turbinio di arresti, condanne e confische. L’intero sistema brasiliano è stato sommerso da questa marea giudiziaria che ha colpito a tutti i livelli i gangli del potere: a partire da imprenditori e semplici funzionari pubblici; passando per decine di deputati, senatori e amministratori di gigantesche aziende pubbliche; per arrivare a toccare perfino quattro ex presidenti. La Corte Suprema ha dichiarato illegali le condanne nei confronti di Lula appellandosi a un tecnicismo giudiziario: il tribunale federale della città di Curitiba che ha emesso la sentenza non aveva la giurisdizione per farlo e quindi l’intero processo deve essere ripetuto nella corte di Brasilia. Sebbene tecnicamente l’ex presidente non è stato dichiarato innocente, a tal fine bisognerà aspettare il nuovo procedimento giudiziario, con il decadimento delle sentenze di condanna è tornato eleggibile, e più di un osservatore scommette sul suo ritorno in campo in vista del voto dell’anno prossimo. In una recente intervista a El Pais Lula ha affermato che Bolsonaro perderà le elezioni e che il futuro presidente brasiliano sarà un esponente progressista, confidando che appartenga al suo partito dei lavoratori.
L’apparente reticenza con cui dissimula la sua possibile candidatura fa parte di una strategia politica ben precisa, che mira a sondare il polso dell’elettorato scegliendo il momento opportuno per esporsi personalmente. La sua figura legata agli scandali di Lava Jato è ancora molto divisiva nel paese e accelerare i tempi potrebbe bruciare il suo capitale politico. Ciò che però non esita a mostrare è la sua amicizia e vicinanza con Joe Biden. In una intervista alla CNN ha chiesto al presidente americano di donare al Brasile le dosi in eccedenza del vaccino a stelle e strisce e di convocare una riunione di emergenza del G20 per discutere della distribuzione dei vaccini al Brasile e ai paesi più poveri del mondo. Il riferimento al vecchio Joe non è puramente casuale e risponde a interessi geopolitici stratificati. Da una parte riflette la subordinazione che la maggior parte dei paesi dell’America Latina devono pagare nei confronti degli Stati Uniti, difficilmente qualcosa si muove a sud del Rio Grande senza il beneplacito di Washington. Dall’altra tende a stereotipare il prossimo scontro elettorale: il populista Bolsonaro, versione verde-oro di un Trump più giovane, che dopo aver minimizzato il Covid è considerato l’artefice del disastro sanitario brasiliano ‒ così come il suo ex omologo lo è stato di quello statunitense ‒ contro il progressista Lula, saggio e navigato politico d’esperienza, che, come Biden, riuscirà a salvare il Paese dalla carneficina del virus ristabilendo la fiducia nella scienza. Lo scontro sulla gestione della pandemia sarà sicuramente uno dei temi centrali della futura campagna elettorale. Il Brasile è il secondo paese al mondo per numero di morti e, a causa della sua posizione geografica e delle sue caratteristiche naturali, è il luogo ideale per l’incubazione di nuove varianti più aggressive del virus. Bolsonaro dopo un anno in cui ha sempre negato l’impatto del virus appare preoccupato e inizia a farsi vedere in pubblico con la mascherina, con le terapie intensive ormai al collasso in tutti gli ospedali del Paese e la fascia di popolazione tra i 20 e i 40 anni più colpita dal Covid. Le recenti dimissioni di sei ministri chiave del suo governo gettano ancora più in subbuglio il già delicato equilibrio istituzionale. Se dal giorno dell’insediamento il cambio al vertice dei ministeri è ormai diventato consuetudine ‒ ne sono stati sostituiti 12 in poco più di due anni, tra cui quattro volte quello della salute durante la pandemia ‒ ciò che ora fa più scalpore è che a decidere di abbandonare la nave sono stati, tra gli altri, due suoi fedelissimi come il ministero degli esteri e soprattutto quello della difesa, il generale Fernando Azevedo e Silva. La spaccatura tra una parte dell’alto establishment militare e Bolsonaro può essere la goccia che fa traboccare il vaso già straripante delle questioni spinose brasiliane. Il presidente proviene dall’esercito e l’appoggio dei generali è stato fondamentale nella sua ascesa al Palácio do Planalto, se il sostegno dei militari dovesse venire a mancare allora la sua ricandidatura potrebbe correre dei seri rischi.
All’interno di questa crisi politica oltre che pandemica, la sentenza che rende nuovamente elegibile Lula fa sospettare più di qualcuno sul tempismo che spesso i tribunali brasiliani hanno saputo mostrare negli ultimi anni. Dal 2014 infatti, il dibattito politico è scandito dal procedere impetuoso e implacabile della maxinchiesta Lava Jato, che può essere definita tranquillamente una versione al gusto caipirinha del nostrano scandalo Mani Pulite. Il fulcro centrale di tutta la vicenda ruota attorno ai rapporti tra la Petrobras, la compagnia pubblica di estrazione e lavorazione del petrolio, e diversi esponenti politici di rilievo che nel corso degli anni hanno costruito un sistema corruttivo così tanto pervasivo da non escludere nessuna forza politica dal piatto enorme delle prebende e delle mazzette. Il partito dei lavoratori di Lula è stato sicuramente il più colpito dallo scandalo, in quanto il principale detentore del potere ai vari livelli dell’amministrazione, ma anche il più attivo per cercare di limitare la diffusione della corruzione e del malaffare. In questo cortocircuito di conflitto d’interessi il partito dei lavoratori si è trovato contemporaneamente come primo responsabile del tracollo giudiziario del paese e portavoce di un giustizialismo che non ha convinto fino in fondo il popolo brasiliano. Dilma Rousseff ha pagato a caro prezzo questa ambiguità di fondo, venendo fagocitata dalle potentissime figure che da dietro le quinte tirano i fili del potere. Succeduta a Lula come presidente del Brasile, durante la sua seconda legislatura Rousseff ha cercato in tutti i modi di presentarsi come la paladina della legalità sostenendo a gran forza l’inchiesta Lava Jato e non cedendo alle richieste di limitare l’azione dei magistrati pervenute da tutta la schiera parlamentare. Nel 2016 i grandi notabili del parlamento di Brasilia, dopo averle intentato una causa di impeachment per delle accuse infondate di falso in bilancio, la destituiscono dalla carica aprendo la strada alla vittoria di Bolsonaro. Ancora una volta il destino della carica più alta del Brasile si lega a vicende giudiziarie. Una figura emblematica di questa distorsione è certamente quella di Sergio Fernando Moro. Moro è stato uno dei magistrati più importanti all’interno dell’inchiesta Lava Jato, simbolo della forza della giustizia che spazza i corrotti dal governo del paese. Nel 2017 è sua la sentenza che condanna Lula e gli preclude la possibilità di rielezione, rendendolo il magistrato più famoso della storia del Brasile. Nel 2019 però, Moro decide di abbandonare la carriera giudiziaria e di entrare in politica, viene nominato da Bolsonaro ministro della giustizia portandogli in dote la vittoria simbolica sulla vecchia classe dirigente corrotta. Nel giro di due anni Moro è passato da carnefice politico di un ex-presidente a braccio destro del nuovo, non curandosi delle accuse che da molte parti gli sono piovute sul palese conflitto d’interessi che la sua passata sentenza aveva con l’attuale incarico politico. L’idillio con Bolsonaro, però, è durato poco più di un anno e nell’aprile del 2020 l’ex magistrato decide di dimettersi accusando il suo presidente di ingerenze inaccettabili nel suo lavoro di ministro.
La possibile ridiscesa in campo di Lula segna la fine simbolica della gigantesca inchiesta che ha sconvolto il Brasile. Dopo centinaia di processi, l’avvicendamento di tre presidenti e la perdita d’innocenza della classe politica carioca si ritorna al punto di partenza con l’impressione che molte dinamiche non siano cambiate affatto. Gli ultimi sondaggi danno il leader del partito dei lavoratori in vantaggio di qualche punto percentuale sull’attuale presidente e prospettano un’accesa campagna elettorale. La pandemia, che ha contribuito a far perdere consenso a Trump e a spegnere momentaneamente i populismi europei, potrebbe essere fatale anche per Bolsonaro. Allo stesso tempo la conquista di Washington da parte dei democratici e l’annullamento della condanna per Lula sembrano indicare un futuro progressista anche per Brasilia. Secondo altri analisti, invece, la candidatura dell’ex presidente può giovare in maniera inaspettata a Bolsonaro. La radicalità che contraddistingue l’attuale presidente da Lula può polarizzare in maniera drastica l’elettorato e riservare delle sorprese. Come Trump ha cercato in tutti i modi di correre le presidenziali contro Bernie Sanders ‒ il candidato più estremista della compagine democratica ‒ temendo il moderato Biden e la sua capacità di rassicurare i cittadini indecisi, così Bolsonaro potrebbe trovare in Lula l’avversario perfetto per rinserrare le fila dei suoi sostenitori, strizzare l’occhio alla sua base ultra-conservatrice ed evangelica allarmata da un progressista come Lula e impostare l’intera campagna elettorale come una lunga battaglia contro la corruzione e i vecchi mali del paese. Non ci resta che osservare l’evolversi degli eventi, aspettando un’altra sentenza che potrebbe stravolgere nuovamente gli equilibri del panorama politico brasiliano, con buona pace di Montesquieu.
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