OGGETTO: La madre di tutte le riforme fallite
DATA: 23 Novembre 2023
SEZIONE: Società
AREA: Italia
La Costituzione è un prodotto umano, pertanto perfettibile. Ma occorre guardare attentamente al passato per non incorrere negli stessi errori dei precedenti tentativi.
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Sorprendentemente, il grande filosofo della scienza Thomas S. Kuhn spiegava il concetto di paradigma scientifico – ossia una teoria generale che dimostra il funzionamento di un fenomeno naturale – non in termini di strumento di riproduzione (ossia l’esperimento, ripetibile indipendentemente dal luogo e dal tempo), piuttosto – alla stregua di un verdetto giuridico, emanabile nei rispetti di legge ma non identico alla norma di riferimento – come di un “trampolino di lancio” per produrre soluzioni valide ma evolute rispetto al paradigma di partenza. Il paradigma è necessario al principio, per mettere in moto le scoperte scientifiche.

Così, nel corso del XVII secolo, Newton stabilì, nei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica, un paradigma generale nel quale provò in astratto, cioè matematicamente, le leggi della dinamica e della gravitazione. Il paradigma però restava generale in quanto Newton non aveva idea di come calcolare il valore di alcune costanti insite nelle sue formule, né di come riprodurre queste congetture per mezzo di esperimenti. Il paradigma era perfetto. Era perfetto in quanto si presentava sotto forma di un rompicapo, certo con molte incognite ma risolvibili: un’intera comunità scientifica poteva così votare le proprie energie verso un’idea che prometteva di ricompensarli con una migliore comprensione del mondo. In altre parole, come scrisse Ludovico Geymonat: «Non è necessario che tutte le proposizioni della teoria risultino aderenti ai fatti; è necessario invece che tutti i fatti del campo di fenomeni studiati risultino inquadrati nella teoria». Pertanto, ecco che un secolo dopo la pubblicazione dei Principia, George Atwood creò uno strumento che dimostrò la seconda legge di Newton (il moto uniformemente accelerato) ed Henry Cavendish fu in grado di misurare la costante di gravitazione universale.

«Forse non è del tutto evidente che un paradigma sia requisito preliminare alla scoperta di leggi come queste. Si sente spesso dire che queste vengono trovate esaminando misurazioni compiute per sé stesse, senza richiamarsi ad alcuna teoria. Ma la storia non conferma l’esistenza di un metodo così eccessivamente baconiano. Gli esperimenti di Boyle non potevano essere concepiti (e, se concepiti, avrebbero ricevuto una diversa interpretazione o non ne avrebbero ricevuta alcuna) finché non si riconobbe che l’aria era un fluido elastico cui si potevano applicare tutti i concetti elaborati per l’elettrostatica (n.b. a partire dal “paradigma” elaborato da Blaise Pascal).»

T.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 2009 (1962), p. 49.

Difatti si può osservare come le fasi rivoluzionarie della scienza, avviate da grandi uomini che capovolsero il vecchio modo di pensare e di spiegare i fenomeni naturali, stabiliscono “semplicemente” dei problemi da risolvere per il futuro. Gli scienziati successivi assolveranno alla funzione di ordinare e approfondire il postulato di “generalità” proprio del paradigma scientifico. Molti scienziati in effetti sono diventati, ed il loro nome è riportato sui manuali scolastici, non per la novità delle loro scoperte ma per la precisione con cui determinarono costanti fisiche, per l’attendibilità dei risultati degli strumenti di misura che crearono o per la semplificazione di formule matematiche prima troppo astruse. Il loro ruolo rispetto a quello di geni come Newton, Galilei o Einstein, non è stato d’altra parte quello di gregari: da un lato dimostrarono la validità delle previsioni formulate nei paradigmi, dall’altra, di conseguenza, furono in grado – scrive Kuhn – di «dimostrare un accordo sempre più stretto fra la natura e la teoria».

La fioritura della scienza moderna non avvenne nel vuoto. Bensì all’interno di un’epoca caratterizzata da mutamenti nella struttura economica e nel tessuto sociale che, in ultima istanza, domandava quelle scoperte per portare a compimento la propria evoluzione. Il Seicento vide il consolidarsi degli enormi Stati nazionali e, in Italia, il raffinamento dei principati cittadini; gli albori di una società urbana e borghese; la nascita di nuovi bisogni e lo sviluppo massiccio di quelli già in essere: allestire eserciti sempre più possenti, dotarli di armi efficaci e distruttive, costruire nuove vie di comunicazione ed edifici per sostenere l’urbanesimo, trafficare merci attraverso i sette mari, arginare le acque e bonificare paludi, lavorare il vetro e tessere più stoffe per confezionare vestiti. Rispondere ad esigenze di tal fatta significa possedere avanzate conoscenze di matematica, fisica, astronomia, geografia, meccanica, ossia nozioni scientifiche in grado di distillare processi operativi e tecnici, oggettivi e riproducibili, in grado, letteralmente, di creare un nuovo modo di vivere.

Coerentemente il filosofo Nicola Abbagnano scrisse che «la saldatura fra scienza e società moderna passa dunque, sin dall’inizio, attraverso la tecnica». Difatti furono le nuove esigenze che spinsero le migliori menti dell’epoca ad abbandonare progressivamente la metafisica teologica medievale in favore di uno sforzo verso una conoscenza più attendibile e veritiera dei processi che regolano la realtà.

Prestandosi ad un capovolgimento tematico apparentemente trascendentale, non serve dire come il diritto abbia a sua volta affrontato innumerevoli peripezie, mutando spesso volto a seconda dell’epoca o, più cinicamente, di chi aveva il monopolio del suo esercizio. Se al tempo di Newton il diritto era inscindibilmente legato alla persona del sovrano, alla consuetudine religiosa e al possesso della terra; successivamente, dopo la fine di Luigi XVI la funzione del diritto subì un processo di ri-significazione. Il crollo di tale impalcatura implicava una miriade innumerabile di conseguenze: certo fra le più significative si annoverò l’identificazione del diritto, non più come oggetto manovrabile ad uso e consumo di un unico soggetto “unto dal Signore”, ma con lo Stato e con coloro che lo Stato rappresenta. Così un uso più plurale, massificato, di esso, si è mano a mano diffuso nelle democrazie del Novecento. Pertanto, sebbene in modo sbrigativo, si vede come un dispositivo tecnico come il diritto si sia progressivamente saldato alle istanze di eguaglianza richieste dalla società moderna; mutando, in quanto prodotto umano, in rapporto alle esigenze di una società che muta. Lo storico Wolfang Reinhard coglie, scientificamente, il punto quando sostiene che:

«Il diritto ha basi sia materiali che ideali, è imposto dai dominatori e al tempo stesso conquistato dai dominati, ed è parimenti costruzione razionale dei legislatori ed emanazione dei sentimenti degli uomini. Esso è finalizzato alla riduzione della complessità. La varietà della vita viene ridotta a casi standardizzati e resa così controllabile, in modo da consentire di capire dove ci si trova e che cosa ci si deve aspettare. […] Il cambiamento sociale richiede tuttavia, a sua volta, cambiamento del diritto. La dirompente dinamica di sviluppo della società attuale non può più basarsi su una norma fissata in base a una presunta natura immutabile dell’uomo, ma dipende da un diritto puramente positivo che, se necessario, può essere modificato anche a breve scadenza.»

W. Reinhard, Storia dello stato moderno, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 25.

Le vicende del diritto e quella della scienza proseguono nel medesimo solco quando si parla di gravi mutamenti storico-politico-economici, ma inevitabilmente tendono a divaricare una volta che la scoperta scientifica viene formalizzata, accettata e dimostrata, come oggettiva, inossidabile allo scorrere dei secoli. Il diritto è per sua natura più duttile, non ammette il determinismo di un’equazione o di un esperimento laboratoriale. Segnatamente al grande tema delle riforme costituzionali, questa proprietà può accentuarsi, trasformando il diritto in un elemento flaccido, quando ad usarlo sono novelli Napoleoni troppo miopi e boriosi per apprendere le lezioni del passato (n.b. ogni riferimento alle proposte di riforma costituzionale proposte dall’esecutivo Meloni o dal tandem Renzi-Boschi è puramente casuale); al contrario il diritto può irrobustirsi, una Riforma costituzionale può farsi tonica quando un legislatore acuto, fa un tuffo nel passato per dare una spiegazione alla bocciatura delle precedenti riforme da parte dei cittadini.

Nel corso della storia dell’Italia repubblicana i tentativi di riformare la Costituzione si sono susseguiti come i grani nel rosario. Spesso gli esperimenti volti a una modifica del testo costituzionale sono stati sviliti dall’incapacità degli apprendisti stregoni al governo. Il decisore, prima di proporre la sua riforma, potrebbe agire su due versanti. Da un lato fare una riflessione di filosofia della scienza, riconoscendo che la modificabilità del testo costituzionale non è indotta dall’estro della sua persona quanto piuttosto dalla natura della Costituzione stessa che, in quanto prodotto della tecnica, non è altro che un prodotto tutto umano, positivo, quindi perfettibile o rettificabile sulla base delle esigenze e dei tempi. Dall’altra potrebbe recuperare tutte le riforme costituzionali del passato, passarle al setaccio, ed estrarre ciò che di buono e recuperabile c’era in esse. Contestualizzando gli elementi estratti dei tentativi fatti da chi lo ha preceduto il legislatore potrà – associandoli ad elementi nuovi, che avranno il suo marchio politico – costruire una proposta di modifica alla carta costituzionale forse accettabile per il cittadino.

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