OGGETTO: La lezione romana
DATA: 10 Ottobre 2024
SEZIONE: Recensioni
FORMATO: Letture
L’ascesa e il crollo dell’Impero romano rappresentano un monito per tutte le civiltà, trascinando con sé grandezza e fragilità. Dal capolavoro di Edward Gibbon fino alle riflessioni di Nietzsche e Spengler, la caduta di Roma risuona come una metafora universale. Oggi, come allora, l’inevitabile declino delle egemonie globali invita a riflettere sulla transitorietà delle società e sulla loro vulnerabilità.
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La caduta dell’Impero romano d’Occidente ha assillato gli storici, i filosofi e gli intellettuali per decenni e secoli. Autentico passaggio epocale, clamoroso e – per ora – irripetibile. Ossessione che ha toccato le corde razionali eppure sensibili di Edward Gibbon, solo e pensoso a contemplare le maestose rovine del fu impero di Roma. In procinto di elaborare la prima e tra le più grandi opere sulla fine della civiltà romana. “Declino e caduta dell’impero romano”, monumento storico imprescindibile, si stende come un monito che Gibbon rivolge specialmente ai propri contemporanei. Al nascente impero inglese e poi britannico, nel pieno della fioritura, ignaro della propria futura catastrofe. Il sentimento della fine attraversa l’animo inquieto delle civiltà al culmine della propria raffinatezza e del proprio splendore. Ne rivitalizza le parti percepite più decadenti e morenti. Instilla una vena di orgoglio. Si rivela, alla fine, inutile orpello, laddove il tramonto con le sue luci splendide, incandescenti, insesorabile si avvolge intorno ai palazzi e alle persone. Così Roma, Venezia, Madrid, Londra, si sono spente gradualmente. Trasformandosi, semmai, in qualcosa di diverso.

Sull’onda lunga di una percezione di declino, Nietzsche, Spengler e Cioran, coagularono le angosce del Novecento. Trovando diverse cause e diverse risposte a quella parola: Declino. Altri hanno interpellato il destino ultimo. La civiltà stessa converge inesorabile al tramonto, ciclicamente già scritto. Lo dice la Tradizione. Guénon. Evola. Di Dario, tra i più recenti. 

E c’è poi chi, in un misto di ottimismo o di ingenuità, accetta la sorte ma intravede gli aspetti positivi. Anziché dimenarsi per riavvolgere il nastro o contemplare le rovine con distacco, trasforma i termini del discorso. L’impero romano si sarebbe trasformato e non sarebbe finito. Le invasioni sarebbero state spostamenti di popolazioni quasi pacifici, sul solco di quanto avviene oggi, tra le ingrate sponde del Mediterraneo. Una nuova civiltà latina e germanica (perché barbarica suona spregiativo…) che germina sulle rovine della precedente.

La catastrofe messa quasi in secondo piano, forse su interessata indicazione di chi provenendo dal mondo germanico o anglosassone, vorrebbe dare lustro ai propri precedessori, sognando di coagulare l’esitante edificio europeo. Forzatura e tentativo di non riflettere pienamente sulla reale profondità della questione. Gli imperi finiscono, su questo non ci piove. Se poi, come nel caso dell’impero di Roma, l’influenza, lo splendore, il benessere, la cultura che lo caratterizzano sono di tale importanza da condizionare un’intera epoca storica, allora il rumore della caduta è ancora più grande. La percezione della decadenza si riverbera e si diffonde. Inevitabilmente un’egemonia si risolve in un tracollo vertiginoso, che trascina con sé chiunque sia stato direttamente o indirettamente coinvolto con il destino dell’impero. 

Per secoli, dall’indiscusso predominio romano nel Mediterraneo, più o meno dal II secolo a.C. fino al III secolo d.C., scrive Zecchini in “Geopolitica del mondo antico” la dialettica geopolitica è incontestabile e a noi familiare:

«Un’unica superpotenza, che nessun nemico esterno poteva minacciare nella sua supremazia, posta al centro di un mondo costretto a convivere pacificamente (la cosiddetta pax Romana) e in grado di raggiungere tenori di vita e opportunità di conoscenze inimmaginabili prima di allora, e aree di conflitto rigorosamente periferiche, dove peraltro era sempre Roma ad assumere l’iniziativa di ampliare il proprio territorio o di condurre spedizioni per mantenerlo in sicurezza.»

Contesto esattamente identico a quello vissuto, a livello oggi realmente globale, dal mondo a guida statunitense. Si ritiene tuttavia che la fine di un’egemonia avvenga quasi senza colpo ferire. Nel caso specifico, che tutto torni al punto di partenza. Guardando a Roma, constantandone – o supponendo – l’avanzato stato di decomposizione attraverso il III e IV secolo d.C., si pensa alle invasioni come semplice spallata conclusiva, persino indolore. Non è di questo parere Bryan Ward-Perkins il quale – in completa controtendenza rispetto a un trapasso quasi senza colpo ferire – ribalta la narrazione, riportando al centro la caduta di Roma in senso stretto: un crollo vertiginoso e drammatico, tale da trascinare con sé tutte le dirette dipendenze. Il tardo impero, stante i dati archeologici riportati nella sua opera “La caduta di Roma e la fine della civiltà” è un impero ancora fiorente. Alla fine del IV secolo, perfino potente.

Sintomo della decadenza sarebbe da individuare – durante e dopo le invasioni – nella diminuzione spettacolare della circolazione di oggetti di buona fattura a prezzi accessibili. Perché, allora come oggi, l’impero di Roma è impero di oggetti, di produzione ed esportazione “di massa”. In grado di assicurare un tenore di vita inimmaginabile nei secoli immediatamente successivi alla sua scomparsa. In grado di deresponsabilizzare i propri opulenti cittadini dal mestiere delle armi – appaltato a professionisti – e dalla produzione di oggetti. Confrontando il livello di capacità pratiche di una buona fetta di popolazione dell’Occidente allargato – e non solo – e del sottoscritto in particolare, si può constatare quanto siano ridotte rispetto a contesti e popolazioni reputate “arretrate”. La raffinatezza è anche fragilità. Società più opulente entrano in maniera più rapida in crisi, perché dipendenti dal loro stesso sistema. 

La materialità degli imperi, delle egemonie, delle civiltà, viene spesso dimenticata per guardare ad altri elementi. Nel caso specifico dell’impero romano, al colto patriziato fattosi cristiano. Alla grande letteratura. A santi, eremiti, filosofi. 

La civiltà permane, perché permangono tali elementi. Eppure, il passaggio epocale resta, monolitico. La civiltà materiale viene meno, con tutte le proprie incongruenze, inefficienze e diseguaglianze. Allora come oggi, viviamo nel paradosso di dover accettare questa parte di mondo in tutta la propria grandiosa ipocrisia, oppure lamentarcene servendoci degli strumenti che pure ci vengono forniti da coloro i quali quotidianamente malediciamo:

«Nel ricco mondo progredito (dove fioriscono gli storici) gli oggetti ben fatti sono accettati come parte integrante della vita quotidiana […]. Però questi sublimi intellettuali scrivono i loro alati pensieri sull’ultimo portatile, in una stanza riparata dalle intermperie, indossando comodi vestiti e circondati da quei prodotti di massa che si chiamano “libri”. La nostra esperienza personale dovrebbe insegnarci ad ogni istante l’importanza degli oggetti funzionali di alta qualità per il nostro benessere.»

Roma, Ottobre 2024. XX Martedì di Dissipatio

Al netto di ogni individualismo, siamo perfettamente e inesorabilmente inseriti nel tempo che viviamo. Tranne i nuovi eremiti, i nuovi santi, che allora come oggi, cercano una via di fuga, sfuggendo dal mondo che aborriscono.

Ogni altra opposizione trova il tempo che trova. Critichiamo la nave destinata ad affondare, inconsapevoli che affonderemo insieme ad essa. 

Gli imperi o le civiltà, attraverso lo splendore e la caduta, nascono senza un vero scopo, vivono autoalimentandosi, nutrendosi di diseguaglianze e benessere; crollano, trascinando con sé sostenitori e oppositori. Rendendo ciò che ci era parso scontato un semplice accidente di percorso. 

Ricordarsi della caduta degli imperi, della caduta di Roma in particolare, al netto di qualsiasi mistificazione, di qualsiasi svalutazione delle sofferenze, della tragedia, della diminuzione incalcolabile del tenore di vita, vuol dire familiarizzare con la fatalità del nostro tempo. Accettandolo, senza giudizio di sorta. Accettando, specialmente, che tutto ciò che è umano – e non solo – sia destinato a finire:

«Prima della caduta di Roma, i Romani erano sicuri quanto lo siamo noi oggi che il loro mondo sarebbe continuato per sempre senza sostanziali mutamenti.»

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