OGGETTO: Elogio dello stalinismo
DATA: 02 Luglio 2021
SEZIONE: inEvidenza
Dialogo con Vladimir Medinskij, storico, già Ministro della cultura in Russia. I Gulag non sono equiparabili ai campi nazisti, “Il mondo è stato salvato dai soldati sovietici e chi lo nega è un farabutto”
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Ha l’audacia e la determinazione di uno scacchista, una pazienza inflessibile, militare. La scacchiera, in questa partita, è la Storia; i pedoni gli spettri di quel tempo andato, tragico. Classe 1970, Vladimir Medinskij è stato Ministro della cultura in Russia dal 2012 al 2019, è “consigliere politico del presidente Putin per la memoria storica” e presidente della Società di storia militare russa. Sa, insomma, che la memoria storica fonda la propaganda politica; che alcuni studi hanno la forza di forgiare un immaginario; che la Storia è bestia dai mille occhi, fraintesa per necessità. Per questo, il libro di Medinskij edito da Sandro Teti, Miti e contromiti. L’Urss nella Seconda guerra mondiale, va letto come una letale partita a scacchi. Prima di tutto, è un profondo elogio dell’eroismo del popolo russo, che ha vinto la Seconda guerra: “La storia dell’Unione Sovietica non è la storia del Pcus e degli atti del Politburo. È la storia di un popolo. I successi raggiunti in quel periodo sono i successi del popolo sovietico”. In sostanza, Medinskij giustifica l’epopea oscura dell’Unione Sovietica (“Possiamo condividere o meno l’ideologia comunista, ma quelle conquiste, la vita vissuta dal popolo fra il 1920 e il 1991 non sono ‘un buco nero’, né ‘un vicolo cieco della storia’. Sono la storia dei russi e degli altri popoli dell’Urss. E la parte più importante di questa lunga storia è costituita dalla Grande guerra patriottica, che è anche l’evento storico più grande del XX secolo”), rilegge l’operato di Stalin (senza sconti sull’orrore: “La rappresentazione di Stalin come capo crudele, convinto che le persone non siano che piccole viti dell’ingranaggio, che «non esistono uomini insostituibili», contiene una certa dose di verità”) alla luce del pericolo nazista, distingue l’incubo hitleriano dalle storture dello ‘stalinismo’. Insomma, la Seconda guerra, “Patriottica”, è il grande mito intorno a cui arde il fuoco della civiltà russa – di ieri, di oggi –, che nello scontro per ‘salvare il mondo’ dall’egida di Hitler ha pagato, in vite, moltissimo. In un vasto articolo uscito sul “Corriere della sera” (L’avvocato del Cremlino), Sergio Romano ha scritto che Medinskij “nel suo libro si è proposto di correggere o almeno ridimensionare le vicende in cui la Russia poteva apparire ambigua e opportunista, soprattutto nei suoi rapporti con la Germania”. Il libro è volutamente ‘polemico’ (“Rivangheremo vecchie storie. A qualcuno sembrerà inopportuno, politicamente scorretto”), ed è, anche, una resa dei conti interna, che riguarda il modo in cui la Russia legge se stessa e il proprio passato, e il modo in cui vuole imporsi al resto del mondo. Grazie alla mediazione di Sandro Teti, sono giunto, non senza difficoltà, a Medinskij.

Lei interpreta la Seconda guerra mondiale come un momento eroico del popolo russo, che ne ha messo in rilievo gloria e virtù. Chi critica questa impostazione?

Il 22 giugno la Russia celebra il Giorno della Memoria e del Dolore. In questo giorno, nel 1941, la Germania invase l’URSS portando la guerra nella nostra terra. Quello stesso giorno questa guerra fu per la prima volta definita “Patriottica” in quanto decisiva per le sorti del nostro Paese. Molotov alla radio disse: “L’Armata rossa e tutto il nostro popolo condurranno di nuovo una guerra patriottica per il nostro Paese, per l’onore e per la libertà”. “Di nuovo”, in quanto Molotov ricordava quello che accadde a Napoleone in Russia nel 1812, nella Prima guerra patriottica. Tradizionalmente, la Russia in passato ha concluso le grandi guerre nelle capitali dei suoi aggressori. Ciò avvenne il 9 maggio 1945. Dal 22 giugno 1941 al 9 maggio 1945 si svolse la Grande Guerra Patriottica, guerra del popolo sovietico contro il nazismo tedesco. In questa occasione i soldati sovietici mostrarono la loro grandezza annientando non solo Hitler, ma anche i suoi alleati in Europa: Italia, Romania, Ungheria, Finlandia e Slovacchia, alle quali si aggiunse la “Divisione Azul” dei franchisti spagnoli e reparti di SS francesi, estoni e lettoni. Hitler sfruttò il potenziale industriale dei Paesi sottomessi: Repubblica Ceca, Olanda, Belgio ecc. Nessun altro, tranne l’URSS, avrebbe potuto affrontare questa macchina da guerra sterminatrice.

Il mondo è stato salvato dai soldati sovietici e chi lo nega è un farabutto.

Stalin e Hitler sono accomunati come emblemi, pur diversi, del Male assoluto. Una tesi che lei combatte. Quali sono stati i rapporti storicamente attestati tra Stalin e Hitler?

Non avevano rapporti personali, non si sono mai incontrati. C’erano però relazioni tra gli Stati: l’URSS e la Germania. Naturalmente, Stalin considerava Hitler e il nazismo (al tempo noi sovietici lo chiamavamo “fascismo tedesco”) come un nemico mortale. Concludendo un patto di non aggressione con il nemico nel 1939, Stalin capì perfettamente che quella era solo una tregua temporanea, che prima o poi il fascismo si sarebbe rivolto contro la sua patria. Penso che Stalin fosse sincero nella sua indignazione quando, rivolgendosi al popolo sovietico il 6 novembre 1941, disse: “Questa gente, priva di onore e dignità, dalla morale animale, ha la sfrontatezza di incitare allo sterminio completo della grande nazione russa…”. Quando Stalin fu informato nell’aprile 1945 che Hitler si era suicidato, esclamò: “Vigliacco!”. Un vigliacco, ecco cos’era Hitler per Stalin e questo è ufficialmente documentato. Parlare di Stalin e Hitler come “simboli” non riguarda la storiografia, gli storici e la scienza storica. Questa è simbologia politica. La realtà storica in questo ambito non interessa a nessuno, l’interesse è costituito solo da specifici obiettivi politici: per esempio indebolire il nemico dall’interno o parlare dei territori acquisiti al termine del conflitto.

La spartizione che segue la Seconda guerra rinchiude la parte orientale dell’Europa sotto l’egida comunista. Non crede che sia stata coercitiva la gestione del potere sovietico in quell’area, dopo la guerra? Non crede che l’idea, l’ideologia, abbia soffocato l’identità, l’autonomia dei popoli?

Per la divisione del mondo in due blocchi politici e militari contrapposti sotto la guida delle superpotenze, le élite politiche degli Stati Uniti e della Gran Bretagna hanno sostenuto la Guerra fredda. Anche l’URSS ha una parte di questa colpa, ma questo è dovuto al continuo accrescersi della contrapposizione che ha costretto l’Unione Sovietica a stabilire un controllo sempre più severo sui paesi suoi alleati dell’Europa orientale alla fine degli anni Quaranta. Io però vorrei sottolineare che è ingiusto sollevare dalla responsabilità di ‘sovietizzazione’ di questi paesi gli stessi polacchi, cechi, ungheresi o jugoslavi. Dopo la guerra, le forze politiche più influenti e le organizzazioni di massa dell’Europa orientale (in primis i partiti comunisti) erano interessate non solo all’amicizia con l’URSS, ma anche al controllo interno delle loro società. E quindi, pontificare sul fatto che l’ideologia comunista abbia soffocato le identità di questi popoli equivale ad accusare la religione cristiana di aver soffocato le identità dei popoli per avere diffuso un insegnamento cristiano di amore universale. L’‘autonomia’ politica di questi stati non era limitata dall’ideologia, bensì lo era in virtù degli accordi internazionali sottoscritti da questi paesi al termine della Seconda guerra mondiale. Successivamente rafforzati da altri accordi che regolavano il blocco politico-militare del Patto di Varsavia. Non si tratta di valutare quale autonomia nel dopoguerra fu maggiormente limitata, se quella dei paesi del Patto di Varsavia, sui cui territori erano dislocate le basi sovietiche, o quella dei paesi Nato, che erano occupati dai soldati americani.

Indubbiamente, lo stalinismo ha avuto esiti terribili, eppure lei sembra giustificarlo: perché?

“Esiti terribili” per chi? Per quale motivo? Se è per il Terzo Reich e i sogni di dominio del mondo dei nazisti, allora sì, sono d’accordo. Ma la stessa parola ‘stalinismo’, secondo me, è un concetto estremamente vago e indefinito. Si usa nel linguaggio politico come un’etichetta o come un insulto. Il termine ‘stalinismo’ non aiuta a comprendere la realtà storica. L’uso odierno di etichette facenti parte dell’armamentario della Guerra Fredda, come il famigerato ‘stalinismo’, è progettato proprio per bloccare la ricerca di spiegazioni: come è successo, cosa è successo, perché sono state prese determinate decisioni, in quali condizioni, in quali circostanze è accaduto. Il famoso storico polacco Jerzy Topolski la definì una ricostruzione della “logica della situazione”. Questo è ciò che andrebbe fatto oggi. Vorrei segnalare il monumento alle vittime della repressione politica in Unione Sovietica costruito sulle colline nei pressi di Smolensk (in Occidente questo luogo è conosciuto per la sottomissione polacco-tedesca come ‘Katyn’). Ora è stato edificato un nuovo museo legato alle relazioni sovietico-polacche nel XX secolo. Attualmente la Società storico-militare russa sta realizzando un programma per perpetuare la memoria di noti comandanti militari uccisi durante il periodo delle repressioni staliniane del 1937-1938, attraverso l’installazione di busti e targhe commemorative. È stata data una valutazione dei crimini del regime staliniano e nessuno pensa di cambiarla. I crimini di Hitler e dei suoi complici furono condannati al processo di Norimberga. Mentre la denuncia del ‘culto della personalità’ di Stalin, avvenuta nel corso del XX Congresso del PCUS, è una cosa completamente diversa. Per noi, i crimini del nazismo tedesco portarono allo sterminio di un cittadino su cinque del nostro Paese: russo, ucraino, ebreo, tataro ecc. È impossibile ricordarlo senza provare una feroce rabbia.

L’editore Sandro Teti insieme a Vladimir Medinskij, già Ministro della cultura della Federazione Russa fino al 2019

Ritiene possibile equiparare i Gulag ai campi di concentramento tedeschi?

Il solo paragonare i Gulag con i campi di sterminio creati dal Terzo Reich è un atto di manipolazione politica. Nel fare ciò però c’è un aspetto che si situa in quella corrente storiografica europea che si occupa dello studio comparato del sistema concentrazionario sovietico e nazista. Attraverso un’attenta disamina della saggistica specializzata sull’argomento – quasi tutta di autori occidentali – si può facilmente desumere che non è possibile mettere su un piede di parità Gulag e campi di sterminio nazisti. Prima di tutto, nell’ambito del sistema sovietico, la funzione primaria dei Gulag era la stessa che vige in molti altri sistemi, tra i quali quelli democratici: l’isolamento dalla società, la privazione della libertà per coloro che violavano le leggi del regime. Il sistema dei lavori forzati in URSS è stato ideato e si è sviluppato nell’ambito della grande mobilitazione di massa che ha portato alla possente industrializzazione dell’economia. Per i nazisti invece i campi di sterminio furono uno strumento legato all’attuazione in Europa dell’apartheid e la funzione principale di questi campi era l’eliminazione di tutti prigionieri, prima di tutto su base etnica, nell’ambito di una politica razziale di sterminio dei popoli ‘inferiori’. In ogni caso, il tasso medio di mortalità nei Gulag, come oggi si può constatare, era inferiore alla media dell’Unione Sovietica.

Esiste, a suo avviso, una certa nostalgia, oggi, in Russia, dell’Unione Sovietica?

Lei vede forse qualcosa di male nelle idee di solidarietà, giustizia sociale e fiducia nel futuro? Io no. Proprio questi concetti vengono oggi associati all’Unione Sovietica, soprattutto dai giovani che ai tempi dell’Urss non erano ancora nati. La nostalgia è un sentimento provato soprattutto dalle vecchie generazioni. È comunque comune a tutti ricordare la giovinezza come il periodo migliore della propria vita. E non c’è niente di male in questo, è un male invece che il tempo scorra troppo veloce. Dobbiamo tuttavia rilevare che ci sono anche molti nostalgici dell’Urss tra giovani e giovanissimi.

Nel lungo periodo in cui è stato Ministro della cultura qual è stata l’azione, il progetto di cui è più orgoglioso?

Sicuramente il ritorno della cultura nella vita quotidiana degli abitanti del mio Paese. Dopo gli anni Novanta, il primo decennio dopo il crollo dell’URSS, la gente smise di frequentare musei, teatri, mostre e biblioteche. E invece ora li frequentano in massa. È divenuto in vero e proprio bisogno quello di frequentare i luoghi della cultura. Prima del Covid, in Russia si stava assistendo a un autentico boom dei musei. Il Presidente Putin, attraverso una serie di decreti, ha dichiarato il 2014 Anno della Cultura, il 2015 Anno della Letteratura, il 2016 Anno del Cinema, il 2017 Anno del Teatro e così via. Non si è trattato di semplici slogan. In questi settori sono stati allocati ingenti investimenti, che hanno consentito l’apertura di nuovi spazi e l’aumento degli stipendi di tutti i lavoratori del settore culturale. Un importante cambiamento strutturale è stato il varo, da parte del Presidente, di una nuova politica culturale statale la cui essenza una volta ho così descritto: “Lasciamo fiorire tutte le piante, ma annaffiamo solo quelle veramente utili”. “Utili” per il Paese, per la Russia.

Può spiegare al lettore italiano qual è il ruolo attuale che svolge al Cremlino in veste di consigliere del presidente Putin?

Nell’ambito delle mie funzioni, oltre all’esecuzione delle direttive del Presidente, le mie responsabilità includono il coordinamento delle questioni di politiche di Stato in ambito storico e umanistico. Avere una politica storica statale è indispensabile per ogni Paese, soprattutto per quei Paesi che hanno un passato così importante come la Russia. L’attuale “lotta per la storia” in corso in tutto il mondo fa parte della competizione tra gli Stati, e se la società è priva di un’educazione storica e di una autonoma visione del proprio sviluppo futuro sarà costretta a basarsi su concetti elaborati da altri, oltre i confini del proprio Paese. La politica storica è strettamente legata alla sovranità storica, e quindi alla nostra capacità di interpretare autonomamente la nostra storia e la nostra visione di sviluppo futuro. Queste sono, per sommi capi, le questioni di politica storica statale di cui mi occupo.

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