È un viaggio nel cuore pulsante dell’anima russa, quello che Ezio Mauro, compie nel suo ultimo testo “La mummia di Lenin” (Feltrinelli). Un’indagine giornalistica, con uno stile romanzesco ed evocativo, in cui Mauro (saggista e già direttore e inviato speciale di Repubblica e La Stampa) porta il lettore in una trama di segreti, misteri, non detti, che conduce nelle vere catacombe del potere sovietico. Un’esplorazione nei “sotterranei del Cremlino” per ricostruire la storia proibita della malattia, della morte e dell’imbalsamazione di Lenin (tutt’ora coperta dal silenzio delle autorità russe) che trasformò il rivoluzionario bolscevico sia in un simbolo della speranza di immortalità del comunismo che in un’icona di quello stalinismo che, mentre lo sacralizzava ne profanava la memoria e le scelte. Un’opera che tramite voci, testimonianze, indiscrezioni ricostruisce la storia di uno dei più maestosi arcana imperii del potere russo (prima sovietico e poi putinista) in cui alle ambientazioni grottesche e fiabesche di un Bulgakov si innestano le atmosfere da gangster story cremnlinesca dei Fantasmi di Mosca di Bettiza. Ne emerge un’inchiesta affascinante in cui banditismo, ideologia, stregoneria, superstizione, mistica, scientismo e realpolitik si alternano regalando uno spaccato feroce e potente del Potere e della Russia di ieri, di oggi, di sempre.
-Perché “La Mummia di Lenin” e come nasce questo libro che mischia approfondimento e rigore storico ma anche una grande capacità narrativa?
Ci sono due ragioni, due input tra loro diversi. Il primo è che i segreti che accompagnano la malattia, la morte e l’imbalsamazione di Lenin mi tormentano dal 1987, quando andai a Mosca per La Stampa. Tanto che anche nei tre anni che sono rimasto in Unione Sovietica come corrispondente per Repubblica ho continuato ad accumulare materiali, incontri, dettagli su questo tema. Ho visitato i luoghi di Lenin più volte e ho cercato comprenderne la vera storia. Anche perché lì dove c’è il segreto, lì dove perdura un mistero, si apre lo spazio per un’indagine giornalistica. Io credo, quindi, che il mio libro sia soprattutto il frutto di un’indagine fatta con metodo giornalistico per scoprire quel mistero. Naturalmente in questa ricerca mi hanno aiutato i miei amici russi che mi prendevano un po’ in giro per questa passione – che in realtà condividevano come me. Tanto che hanno continuato a mandarmi tutti gli elementi che trovavano, sulla vicenda dell’ultimo Lenin, su cui i vari protagonisti hanno parlato in maniera parziale nel tempo. Ognuno, infatti, ha rivelato un pezzetto della sua esperienza: dai venti medici, tra russi e stranieri che si sono alternati al suo capezzale, ai protagonisti del bolscevismo. Delineando i frammenti di una storia su cui molto ancora c’è da scoprire, ma che mi appariva profondamente suggestiva nelle sue dinamiche e nei suoi silenzi. Si trattava, quindi, solo di organizzare questo materiale, di forgiarne una trama, di ricavarne un senso, un significato.
-E qual è la seconda motivazione?
La seconda ragione è che abbiamo superato il centenario della morte di Lenin, il 21 gennaio 2024, ma ancora sulla sua fine e sulla sua imbalsamazione persistono ufficialmente delle ambiguità. Dato che si sa poco del segreto della conservazione della sua salma (che il suo autore ha portato con sé nella tomba), dato che la vera causa della malattia è ancora tenuta segreta. Infatti, quando dopo 75 anni è scaduto l’interdetto del segreto di Stato applicato subito dopo la morte di Lenin, con il sequestro del diario dei medici da parte della polizia segreta dell’NKVD, la nipote di Lenin, che era ancora in vita, ha chiesto di prorogare il segreto fino al centesimo anno. Così si è raggiunto il secolo che è scaduto nel gennaio dell’anno scorso. Un secolo di interdetto, di silenzio, in cui non si poteva leggere, non si poteva conoscere, non si poteva cercare di capire che cos’era realmente successo. Oggi nonostante sia scaduto il già prorogato segreto di Stato i diari rimangono inaccessibili. Quindi il mistero continua e c’è una ragione in più per un’indagine di tipo giornalistico.
-Quale fu la vera malattia di Lenin?
Su questo tema si è detto di tutto. Quando Lenin capisce che è vittima di una malattia che gli impedisce di lavorare come sempre ha fatto, come vorrebbe, prima di essere visitato, dice di essere afflitto da una nevrastenia senza rimedio. Per il professor Felix Klemperer, invece, che lo visiterà successivamente, la malattia era dovuta ad uno dei proiettili con incisa una croce intinta nel curaro sparati dall’attentatrice Fanja Kaplan e rimasto nel corpo di Lenin per quattro anni. Quel proiettile a detta del medico tedesco rilasciava piombo nella carne di Lenin ed era quindi la vera causa del malessere, della stanchezza improvvisa, del nervosismo e dei mal di testa continui del Capo bolscevico. Come una sorta di maledizione lanciata da quell’attentatrice… L’autopsia ufficiale però – che si svolgerà sotto un doppio controllo sanitario e politico – certificherà con un verbale estremamente controverso, che si tratterà invece di aterosclerosi arteriosa. Il popolo, invece, è convinto che si tratti di sifilide. Ed è convinto anche di sapere che la malattia è stata contratta da Lenin con una prostituta parigina, anche se non si capisce su che cosa poggi questa diceria. Però un fatto è certo che a quanto risulta Lenin è stato curato come sono curati i malati di sifilide e anche il farmaco più impiegato, il Salvarsan, veniva usato in tali circostanze. Quindi potremmo dire che sembrava quasi che una mano medica russa curava Lenin per una malattia che l’altra mano non aveva mai diagnosticato. Come se ci fosse un riflesso di pudore che impediva di parlare di sifilide, come se questa malattia avesse aperto una finestra sulle abitudini, sui comportamenti di un capo sovietico senza macchie.
-Che significato ha il mausoleo di Lenin, che oggi ne contiene la mummia come una piramide del comunismo, nel momento della sua edificazione?
Con la costruzione del Mausoleo si pietrifica la figura di Lenin, la si porta a fare i conti con l’eternità. Zinov’ev dice apertamente davanti al Comitato Centrale che in questo modo anche dopo la morte l’immagine di Lenin durerà nei secoli. Allo stesso tempo con questo monumento se ne eternizza, però, anche la morte. Lenin continua a morire sotto gli occhi del popolo sovietico, dei dittatori e in questo modo conferma il passaggio dalla gerarchia di potere sovietica a una vera e propria dinastia bolscevica. In questo senso Lenin cade nella proprietà politica di Stalin che ne diventa l’esecutore testamentario, l’interprete della sua storia, il suo successore. Anche se in realtà il testamento di Il’ič verrà tradito perché in esso si dice apertamente che va tolto il ruolo di segretario generale a Stalin, ma, nonostante ciò, il partito lo tradirà. Con il mausoleo, quindi, si cristallizza e sacralizza il mito di Lenin proprio nel momento in cui se ne sta tradendo la memoria, le ultime volontà, la visione.

-E come il suo significato è cambiato nel tempo?
Il mausoleo di Lenin sulla piazza Rossa oggi è un sepolcro, monumentale. Quando il presepio comunista era ancora tutto montato, intatto, però sembrava lo scrigno politico del potere sovietico, e conteneva il codice perpetuo della rivoluzione trasformata in Stato e in potenza ideologica, con la missione inesausta di incendiare il mondo. Imbalsamando il fondatore, l’Ottobre è diventato perenne e ha sfidato il tempo superandolo, per imprigionare la scintilla dell’insurrezione nella fissità del granito rosso, conservandola ed estendendola. Quella morte che non riesce a finire spezza la storia della Russia e la ricompone in un nuovo ordine, cancellando ogni passato e facendola scorrere in un’unica direzione. Verso l’avvenire promesso e infine naufragato, quando il tempo si è compiuto. La reliquia del corpo che sopravvive alla sua epoca, alle ragioni che lo hanno fatto icona, a sé stesso però è ancora uno scrigno di segreti, di misteri, di significati. Sulla sua morte, sulla sua malattia, sulla natura del suo potere. Nella fase di transizione dall’Urss alla Russia il mausoleo è apparso incongruo, sciolto dal contesto bolscevico scomparso, privato della sua ragion politica, appoggiato a un Cremlino che nel 1991 aveva ammainato la bandiera rossa con la falce e il martello. Improvvisamente, da pegno dello Stato e della nazione si rivelava semplicemente un’incompiuta esibizione di una morte senza sepoltura, sacralizzata da una fede che si era intanto smarrita e dispersa, e vista col senno di poi come una profana superstizione.
-Che significato ha oggi invece?
Con il nuovo sovranismo nazionalistico di Vladimir Putin è stata restaurata la dimensione imperiale dell’anima russa, che non era evidentemente una sovrastruttura del comunismo sovietico, bensì qualcosa che esisteva autonomamente prima dell’età bolscevica, e che sopravvive anche adesso. Di nuovo, come per un incanto russo, la tomba di Lenin torna ad acquistare un significato, a trovare un senso nel contemporaneo come simbolo di un potere comunque indiscusso e di una rinnovata ambizione imperiale, eterna e atemporale, che varcando ere diverse e ideologie contrapposte si proietta nell’oggi e nel domani.
-Una mummia che non sarebbe sopravvissuta senza l’intervento di uno scienziato però simile ad una entità stregonesca come Vorob’ëv. Chi è costui?
Occorre fare una premessa. Di fronte al deterioramento della salma di Lenin la grande macchina del partito, con gli agenti segreti della Gpu, cerca uno scienziato-sperimentatore, per seguire il disegno dell’imbalsamazione e lo trova nel professor Vladimir Petrovic Vorob’ëv, a Kiev. Quest’ultimo, un personaggio degno della Guardia Bianca di Bulgakov, possiede un metodo per conservare le parti umane intatte come in un incantesimo. Tramite i suoi studi ha realizzato un balsamo, l’ha testato su organi e su reperti umani garantendo la loro conservazione, e mantenendo inalterata la forma e la figura. Vorob’ëv che era un professore di Kharkiv che amava la bella vita e viveva ai margini del partito, però non voleva essere coinvolto in questa avventura.
-Perché?
In quanto, in primo luogo, non aveva mai provato tale metodo su un corpo umano intero e sapeva i rischi di un azzardo di questo tipo. E poi anche perché si rendeva conto che il cadavere era già alterato. Sapeva inoltre che, se avesse fallito sarebbe precipitato dal rango di medico al ruolo di stregone e temeva per la propria vita. Ma allo stesso tempo non poteva sottrarsi, anche perché aveva fatto parte nel 1919 di un comitato voluto dalle truppe controrivoluzionarie bianche che analizzava e studiava i crimini compiuti dai bolscevichi e quindi temeva di essere processato per attività controrivoluzionaria. Perciò capisce che non può far altro che chiudersi con i suoi aiutanti e col professor Zbarsky, un biochimico che lui conosceva da tempo, nella grotta di legno del primo mausoleo a ridosso delle mura del Cremlino e tentare questo esperimento impossibile. Un risultato che in quei sotterranei dominati dal gelo, grazie al suo balsamo miracoloso potrà ottenere regalando Lenin al suo destino di simbolo dell’ambizione di eternità del bolscevismo. Vorob’ev fu ricompensato con cinquantamila rubli, un appartamento libero da coabitazioni e l’Ordine di Lenin. Ma a questi beni materiali si accompagnò un mito estremamente interessante. Il professore camminava già nella leggenda, col racconto popolare che parlava di cento pezzi d’oro per lui, come nelle fiabe. Quindi, in questa ricostruzione mi ha colpito, infatti, la presenza di un elemento quasi stregonesco, superstizioso se vogliamo, che accompagna l’imbalsamazione e anche l’allestimento del mausoleo di Lenin.
-La malattia di Lenin dà via ad una successione di fatto nel campo bolscevico in cui Trotsky e Stalin si affermano. Come nasce però la rivalità tra Stalin e Trotsky che poi li avrebbe portati ad un inevitabile scontro?
Era un’incompatibilità che non nasceva dalla concorrenza, ma dalla differenza: culturale, caratteriale, antropologica prima ancora che politica. Ed anche se in un primo momento Lenin puntò molto sulle capacità di Stalin (“il magnifico georgiano”), man mano che egli mostrava le sue ambizioni scelse di convergere su Trotsky.
-Perché Lenin si oppose a lui?
Lenin coglieva in Stalin la sua fermezza, durezza, tenacia, astuzia. e sapeva sfruttarli come qualità. Mentre gli altri scorgevano solo “mediocrità” politica e inerzia burocratica, come Trotsky o, addirittura, come Nikolaj Sakharov, che vedeva in lui appena “una macchia grigia”, indistinta. Nel 1922 Lenin si scopre sempre più spesso in contrasto con Stalin, con cui deve ingaggiare una vera e propria battaglia politica nel Comitato centrale sul tema del monopolio del commercio estero, della lotta alla burocrazia nel partito, e infine del rapporto sempre delicato e sensibile tra la Russia e le altre repubbliche, l’Ucraina, la Bielorussia, la Transcaucasia. Stalin le vuole portare dentro la Grande Russia, come regioni autonome, Lenin pensa al contrario a un patto federale per costruire un’Unione di repubbliche sovrane, teoricamente indipendenti nella loro autonoma sovranità. Sui tre temi Stalin e Trotsky, sono su posizioni opposte, confermando a Il’ič che ormai impersonano apertamente i due poli antagonisti del partito. Ma la malattia di Lenin e le esitazioni di Trotsky favoriscono Stalin che dopo la morte del capo rivoluzionario riesce a sfruttare le sue alleanze nel Comitato Centrale per estromettere il suo rivale dall’immaginario bolscevico (riuscendo a non farlo venire al funerale di Lenin con un trucco) e poi dal potere sovietico.
-Facciamo un passo indietro chi era il giovane Stalin e come riesce ad imporsi nella dirigenza comunista?
Era una personalità complessa in cui ideologia e banditismo si mischiavano. Nel 1907 conosciuto come Soso, prima di prendere il nome di Koba e quindi di Stalin, organizza la prima rapina-esproprio alla banca di Stato di Tbilisi attaccando con le bombe le due carrozze che trasportano il denaro, e lascia nella polvere di piazza Erevan quaranta morti e cinquanta feriti per impadronirsi con la sua banda di trecentomila rubli che finiranno al “Centro bolscevico”, la struttura segreta di coordinamento delle operazioni criminali per finanziare il partito. Terrorismo, banditismo, ideologismo e attivismo, del resto, si fondono in quegli anni, lasciando una traccia nell’esperienza e più ancora nell’animo di Stalin, dove hanno già trovato posto l’odio per il padre ubriacone, l’amore della madre Keke che lo sogna patriarca, la disciplina e lo studio nel seminario da cui finisce espulso, dopo aver affittato per cinque copechi una copia del Capitale. C’era in più in lui qualcosa che durerà nel tempo: lo spirito georgiano del clan, i legami intrecciati delle famiglie, i vincoli di gruppo nati nell’illegalità e per questo sacri ed eterni. E un’abitudine al segreto, soprattutto al sospetto, comunque all’ombra anzi all’oscurità. Una doppia natura abituata a un registro ambivalente, passando intatta dal buio alla luce, dalla rapina alla diligenza al governo del Paese, dall’assalto al banco dei pegni o al treno dell’oro alle stanze imperiali del Cremlino. Portando come risultato un’inclinazione costante alla clandestinità, un’ossessione permanente per la vigilanza, il senso quasi fisico e animalesco del pericolo, il sentimento dell’inevitabilità delle trame, sia come arma d’offesa sia come minaccia continua da cui difendersi. Tutti aspetti che Lenin sfrutterà negli anni e che Stalin porterà con sé quando diventerà segretario generale, in un momento in cui il suo grigiore gli permise a mettersi al centro del potere bolscevico tessendo trame, stringendo alleanze, aspettando il momento opportuno per prendere le redini dell’URSS. Con l’intelligenza del ragno, la pazienza della tartaruga, il veleno del serpente.
-Che rapporto c’è nel mondo bolscevico tra il corpo e la causa rivoluzionaria e soprattutto tra il corpo di Lenin e la sua figura personale e il mito che viene cucito addosso a lui e anche nonostante le sue aspirazioni?
C’è nel bolscevismo una consegna integrale del corpo alla causa che arrivava persino alle soglie dell’espropriazione. Quasi che i bolscevichi dovessero rendere conto della manutenzione del loro fisico al partito, padrone supremo non solo dei destini collettivi, ma anche della macchina corporale della persona. Come se esso fosse un bene materiale concesso soltanto in usufrutto all’individuo, in quanto la vera missione è metafisica. La malattia diventava dunque ideologia, e l’inabilità veniva giudicata come un’incuria, la convalescenza quasi una colpa perché sottraeva energia all’azione politica. Quando un compagno si lamentava per un malessere, Lenin gli rispondeva tra l’ironia e il rimprovero: “Ringraziate di non finire sotto processo per aver trascurato un bene dello Stato, cioè voi stesso”. Ma Vladimir Il’ič usava quel medesimo tono anche in famiglia. Quando nel 1919 venne a sapere da Molotov che Nadežda (sua moglie) aveva avuto un attacco di cuore le inviò una sorta di richiamo politico ufficiale, da capo-partito più che da marito: “Ti sei affaticata troppo. Devi attenerti rigorosamente alle regole e rispettare assolutamente gli ordini, altrimenti non sarai in grado di lavorare il prossimo inverno. Non dimenticarlo”. Lenin, del resto, è consapevole che la sua immagine è estremamente importante, che il mito del suo corpo è presente in tutte le piazze russe col capotto di pietra, col dito puntato in avanti, mentre si sporge a parlare verso il popolo. Perché è il modo principale con cui può testimoniare la sua esistenza alle masse contadine russe, analfabete. Tramite il culto del corpo di Lenin, quindi, il mito sostituisce il rito in un paese abituato a vedere il potere mischiarsi con l’incenso. E il mito naturalmente poi viene fatto perpetuare, ma dopo averlo deviato e messo sotto controllo. E mentre Lenin diventa un’autorità mitologica, perdendo la possibilità di incidere sul presente sempre più, finisce post mortem imprigionato e strumentalizzato dai suoi avversari che utilizzano il suo corpo per prendere le redini della rivoluzione.