Qassem Suleimani, generale iraniano e capo delle Forze al Quds, forza speciale dei Pasdaran che segue le operazioni extraterritoriali, era arrivato in Iraq per monitorare la situazione dopo gli attacchi americani contro le milizie sciite e le rappresaglie dei sostenitori delle milizie sciite davanti all’ambasciata Usa a Baghdad. Quando su Twitter è iniziata a circolare una fotografia della mano insanguinata con l’anello tradizionale decorato da una pietra marrone al dito si è immaginato il peggio. Poi il peggio è diventato realtà. Nella notte tra il 2 e il 3 gennaio 2020, su ordine di Donald Trump, un raid statunitense ha colpito due auto vicino all’aeroporto di Baghdad, uccidendo otto persone, tra cui Abu Mahdi al Muhandis, capo di Kataib Hezbollah, ramo iracheno del “Partito di Dio”, e lo stesso Qassem Suleimani. Si tratta di un episodio di un’importanza epocale perché va a colpire il cuore della Mezzaluna sciita, quell’alleanza confessionale, multi-etnica, trans-nazionale e trans-ideologica, che si è unita e rafforzata durante la guerra in Siria e che da qualche anno sta egemonizzando l’intera regione vicino e medio-orientale con il supporto silenzioso e indiretto di Russia e Cina. Un colpo al cuore e uno alla testa, perché Qassem Suleimani, in tutta l’area, non era soltanto considerato un soldato di altissimo profilo bensì un’icona popolare, un mito, una leggenda, e ora, nell’immaginario sciita siede accanto all’Imam Hussein, da martire (S.C).
Pubblichiamo un estratto del libro “Mezzaluna sciita. Dalla lotta al terrorismo alla difesa dei cristiani d’Oriente” (GOG Edizioni, anno 2018) di Sebastiano Caputo che racconta in breve la sua storia:
L’ascesa della Mezzaluna Sciita è strettamente legata a una figura umile, misteriosa, non ordinaria. Il suo nome è Qassem Suleimani. Nacque l’11 marzo 1957 nella città di Qom (secondo il Dipartimento di Stato Usa) o nel villaggio di Rabord, vicino alle montagne afghane, nella provincia sud-orientale del Kerman (secondo le fonti persiane); ma quello che si sa per certo è che proviene da una famiglia di poveri contadini. La determinazione geografica dell’infanzia di Suleimani è importante: chi ha vissuto a contatto con il mondo agricolo non dimentica il debito dell’uomo verso la terra. A differenza di Qom, centro di scuole teologiche e città di pellegrinaggio, Rabord è un posto remoto e con una società organizzata in modo tribale. La conoscenza ottenuta vivendo a contatto con tale struttura sociale gli diede le capacità di coordinare in guerra le diverse tribù che popolano il Vicino e Medio Oriente.
Sebbene non ci siano informazioni sulla famiglia di Qassem, il suo cognome lo riconduce alla tribù dei Suleimani, spostatasi nel Kerman dalla provincia Fars nel Settecento. Poiché la famiglia di Qassem aveva un debito verso il governo, si può immaginare che i genitori lavorassero come mezzadri. Per ripagare il debito, finite le scuole primarie nel 1970, Suleimani trovò qualche anno dopo lavoro come tecnico per la Kerman Water Organization. Dal 1976 subì l’influenza dei fermenti rivoluzionari attraverso le prediche che Hojjat al Eslam Reza Kamyab (assassinato del 1981) recitava durante il Ramadan a Kerman, anche se secondo diverse fonti non ebbe un ruolo preciso durante i sollevamenti del 1979. Si arruolò subito dopo nel neonato Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica (i Pasdaran) e nei primi quarantacinque giorni di addestramento diede prova di quelle abilità militari che solo un giovane di provincia, lontano dalle mollezze della città e abituato al lavoro può possedere a quella età; venne nominato istruttore e successivamente impiegato a Mahabad (una zona di confine con Iraq e Turchia) nella repressione di gruppi separatisti curdi, affidando con estrema intelligenza a un gruppo di combattenti irregolari di Kerman la protezione della città.
Durante la guerra con l’Iraq partecipò a numerose operazioni militari, ottenendo, dal 1981 al 1988, numerosi successi. Tornato a Kerman eseguì l’ordine di combattere i traffici di droga in quella zona, una delle più instabili dell’Iran a causa della forte presenza sunnita (nella quale rientrano i Beluci) e del narcotraffico. Suleimani venne promosso Comandante della Brigata Gerusalemme (Quds Force, forza speciale dei Pasdaran che si occupa delle operazioni extraterritoriali), in un periodo di vulnerabilità della Repubblica islamica dell’Iran, la quale perdeva influenza in Afghanistan in seguito all’ascesa dei gruppi talebani, e giocò un ruolo chiave nell’agosto del 1998, quando i talebani sunniti occuparono l’ambasciata dell’Iran a Mazari Sharif, uccidendo un giornalista e nove diplomatici iraniani. La svolta della sua popolarità avvenne nel 2014, parallelamente alla nascita dello Stato Islamico. Nel corso di un diretta televisiva promise al popolo iraniano di sconfiggere il Califfato in soli tre anni. Quelle immagini diventarono virali sul web al punto che, prima ancora di partire in missione per conto di Allah, le botteghe già lo raffiguravano ovunque con la sua solita espressione sobria, incorniciato dalla divisa militare verde e la barba grigia. Suleimani non è un generale che passa il tempo dietro una carta geografica e, nelle poche immagini che lo immortalano, lo vediamo vicino ai suoi soldati, seduto per terra a bere tè, mangiare, pregare, con gli stivali sporchi di fango. Numerosi testimoni rimangono impressionati dalla sua presenza.
Quando mi recai a Mashhad ebbi la fortuna di avere una conversazione con il comandante iraniano Sayyad Mohammad Yayavi, il quale partecipò alla riconquista di Aleppo nel dicembre 2016, al fianco del Generale Qassem Suleimani. “Era umile, calmo, faceva sentire tutti importanti”. Allo stesso tempo però era inafferrabile, fugace, compariva e scompariva, nel solco della grande tradizione sciita della “parusia” e del Dodicesimo Imam. Qualche anno dopo, caduto lo Stato Islamico grazie alla ragnatela che silenziosamente aveva costruito nel tempo con Bashar al Assad e Hassan Nasrallah, in un momento in cui la Repubblica islamica dell’Iran era sotto pressione internazionale, molti lo invitarono a candidarsi alle elezioni successive. Aveva mantenuto una promessa militare, quella elettorale sarebbe stata una passeggiata. E invece scrisse una lettera ad Ali Khamenei, diventata di dominio pubblico, in cui diceva: “sono nato soldato e morirò da soldato coi miei soldati”.