Lo spiazzante ritiro della Russia dal Caucaso meridionale ha spinto Ankara e Teheran a intervenire. In Turchia i successi azeri hanno rafforzato la percezione di fratellanza tra i due popoli, ma per l’Iran la presa del Nagorno Karabakh ha alimentato l’incubo di trovarsi a confinare con una nazione turca unificata. Scenario rischiosissimo anche in ragione della distensione dei rapporti turco-israeliani mediati proprio da Baku.
Intanto, sul fronte sud Hamas resiste e la campagna di delegittimazione di Israele (e per estensione degli Stati Uniti) di fronte all’opinione pubblica internazionale si sta rivelando un successo senza precedenti. La rete di proxies iraniani, peraltro attivata ancora solo parzialmente, funziona. Gli Houthi possono bloccare lo stretto di Bab el-Mandeb e minacciano anche il golfo di Aden, nominalmente sotto sovranità governativo-saudita. Hezbollah acuisce le tensioni al confine nord dello Stato di Israele, ma allo stesso tempo Nasrallah, il leader del movimento alawita libanese, ha visto aumentare notevolmente la sua popolarità e la creazione di centri di potere autonomi non è positiva per Teheran, la cui strategia si incardina sul dogmatico ولایت فقیه (Velayat-e faqih), principio ideologico che si estrinseca nella monocratica figura apicale della Guida Suprema Khamenei, che non ammette competizione.
Proprio a tal proposito occorre ricordare un altro principio fondamentale che innerva da sempre la gestione iraniana della politica estera: l’unità di azione. Spesso si è sostenuto che con una rete così articolata di alleanze l’Iran non potesse essere in grado di coordinare in maniera efficace tutti gli attori “controllati”. Molti (Houthi, Hezbollah, brigate al-Sadr) hanno agende proprie e strutture sostanzialmente autosufficienti. Centri di potere autonomo appunto, come si evidenziava per il caso di Nasrallah. Assolutamente prematuro sarebbe parlare di un disgregarsi dell’unità dell’Asse, è certo però che le condizioni per un’efficace eterodirezione non sono le migliori e che in molti quadranti di interesse leader carismatici cercano di egemonizzare il consenso.
Da questa breve panoramica emerge la delicatezza del momento. Nel caos strategico in cui la regione è precipitata dopo il 7 ottobre l’Iran vede possibilità. In questo momento la Repubblica Islamica è in una posizione di forza dovuta soprattutto all’impasse in cui si trovano gli Stati Uniti, ma è una posizione fragile. Le criticità non mancano.
Per la transizione verso un nuovo ordine regionale auspicata dal regime serve cautela, serve un successore che segua la linea di Raisi: diplomazia all’interno per produrre coesione da proiettare all’esterno.
I due candidati principali sono il conservatore Mohammad Bagher Ghalibaf e l’ancora più conservatore Saeed Jalili. Il primo, già Presidente del parlamento iraniano, è leggermente in calo nei sondaggi, ma sembrerebbe il candidato sostenuto dai Guardiani della Rivoluzione. Jalili invece, soprattutto grazie alle sue posizioni radicali, ha il supporto del clero.
Intanto però, tra i due litiganti, c’è un candidato che guadagna consenso: Masoud Pezeshkian. Già il fatto che la sua candidatura sia stata accettata ha destato non poco stupore. Pezeshkian infatti è, per gli standard iraniani, un riformista; ad ogni modo di certo non è allineato al regime. Non solo apertamente critico nei confronti della repressione delle proteste scoppiate a seguito della morte di Mahsa Amini e favorevole ad una (seppur parziale) secolarizzazione dello Stato, il candidato si è anche più volte schierato per un’apertura nei confronti dell’occidente. Sarebbe un presidente certamente difficile da metabolizzare per il sistema iraniano.
Gli ultimi sondaggi danno Jalili e Pezeshkian intorno al 24% e Ghalibaf al 20%. Pezeshkian conta molto sull’alta affluenza: negli ultimi anni, a partire dal 2013, molti iraniani, persa la fiducia nella macchina democratica, non hanno più votato. Pezeshkian spera nei loro voti, nei voti degli esclusi, della classe laica, dei giovani progressisti.
Se ci fossero possibilità per Pezeshkian di vincere, la sua candidatura non sarebbe stata accettata. Si tratta di un elementare corollario del sistema elettorale persiano: il meccanismo è formalmente democratico, ma i candidati devono preventivamente ricevere l’approvazione dei Guardiani della Rivoluzione che di certo non permetterebbero (ora più che mai) la candidatura di un potenziale Presidente a loro ostile. Pezeshkian, ministro della salute durante la presidenza Khatami, è sostanzialmente l’elegante risposta iraniana alle pressioni dei media occidentali. Se non gli si fosse permesso di correre, il regime avrebbe assunto una posizione di debolezza.
Si potrebbe affermare, anzi, che all’Iran conviene che Pezeshkian passi il primo turno, perché un ballottaggio tra lui e Jalili (o Ghalibaf) renderebbe la contrapposizione ancora più evidente. Pezeshkian non può vincere il ballottaggio perché Ghalibaf e Jalili in questo momento si contendono gli stessi elettori, ma al secondo turno il candidato superstite egemonizzerebbe i voti di entrambi. Insomma, chi si aspetta un cambiamento in Iran resterà deluso.