OGGETTO: Il potere svela, il diritto nasconde
DATA: 14 Ottobre 2023
SEZIONE: Recensioni
FORMATO: Letture
Punto centrale dell'opera prima di Luca Picotti - La legge del più forte (Luiss University Press, 2023) - è che fra Stati, anche alleati, non possa che esservi una rivalità intrinseca alle loro stesse fondamenta giuridiche.
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Nell’ultima parte del suo Storia dell’Economia, il professore Galbraith aveva generosamente tentato una profezia sulla strada che avrebbe intrapreso l’economia mondiale negli anni post-Reaganiani. All’incedere delle nuove realtà capitaliste asiatiche, che all’epoca (1987) sembravano inarrestabili, il professore aveva immaginato quattro possibili vie che l’Occidente avrebbe potuto praticare. Di queste vie, la quarta, che per Galbraith corrisponde a “ricercare un intervento diretto del governo” per quelle imprese “senescenti” che non sarebbero riuscite a mantenere il passo con le nuove realtà, suona come un definitivo De Profundis per l’aurea illusione del libero mercato egualitario. L’opzione dell’intervento governativo avrebbe assunto due diversi significati. Dal punto di vista pratico si tratterebbe di un esercizio di autoconservazione assolutamente evidente del potere costituito dall’organo statuale. Ma è dal punto di vista teorico che la faccenda si complica: l’intromissione dello Stato nelle faccende economiche globali porterebbe la protezione dei vecchi centri di potere economico contro i nuovi, dipingendo di socialismo la resistenza allo stesso libero mercato sbandierato – per così dire – fino all’altro ieri dagli Stati. Se si confronta l’amara conclusione del professore con la realtà politica odierna, risulta difficile pensare che avesse torto, almeno in questa sua ultima previsione:

«Il socialismo al nostro tempo, non è una conquista dei socialisti; il socialismo moderno è il figlio degenere del capitalismo. E così sarà negli anni a venire

Quella che in Galbraith aveva tutti i crismi del vaticinio, è invece il centro dell’opera prima di Luca Picotti: La legge del più forte (Luiss University Press, 2023). Come suggerisce il titolo, siamo davanti ad un’analisi dell’unico strumento capace di conferire allo Stato la facoltà di intervenire, in maniera discrezionale, nelle reti del mercato globale: il diritto. 

Un approfondimento che viene concepito ed attuato sia in termini temporali – analizzando cioè le fasi evolutive di tale rapporto – sia in termini geografici, procedendo con una scrittura che passa costantemente, ma in maniera cadenzata ed armonica, dal generale dell’osservazione storicizzata al particolare del singolo contesto. Occorre notare che Picotti sembra essere particolarmente a suo agio con il contesto italiano ed è quindi quasi naturale osservare quanto il quarto capitolo, quello dedicato al passaggio tra golden share golden power, risalti rispetto agli altri. 

Se si volesse trovare il proverbiale pelo nell’uovo, tornando a Galbraith, si potrebbe puntualizzare che lo studioso americano aveva sbagliato i termini cronologici della sua profezia. Se, infatti, questi credeva che, da Reagan in poi, gli Stati – specialmente quelli del blocco atlantico – avrebbero cominciato ad intervenire in maniera sempre più intrusiva e coercitiva, la realtà dei fatti, ci spiega Picotti, si è rivelata un po’ più complessa. 

Infatti, proprio negli anni Ottanta l’allungamento della catena produttiva e lo “spacchettamento” delle grandi imprese avevano dato l’impressione che la stagione protezionistica degli Stati stesse tramontando in favore di un futuro uniformemente a chiara vocazione globalista. La storia avrebbe dunque superato la forma Stato classicamente intesa, trasformandola in un complesso mosaico di mercati liberi.

Ma questa visione era destinata ad infrangersi già nei primi anni Duemila. Picotti evidenzia quattro fattori per cui gli Stati del blocco euroatlantico hanno inaugurato una lunga stagione di protezionismo: 1) gli attentati dell’11 settembre; 2) le ibridazioni politiche e nazionaliste delle imprese di alcuni Stati emergenti; 3)la crisi del 2008; 4) la riscoperta fragilità delle infrastrutture nell’ era del digitale. Tutti coagulati intorno al concetto – fumoso ma giuridicamente valido – dell’interesse nazionale. Si noti come interesse nazionale non sia altro che un modo cerimonioso, per le élite dello Stato, di avocare il diritto di eccezione delle regole che essi stessi hanno concordato all’inizio della partita.

Uno Stato, in sostanza, è sempre in grado di designare arbitrariamente alcuni mercati come strategicamente importanti per la propria sicurezza, e dunque questi sono sottoposti a misure di eccezionale rigore. La globalizzazione ha in parte minato la forza degli apparati statali più fragili, ma realtà come gli Stati Uniti si sono dotate di un ampio armamentario giuridico per tenere le mani sullo scivoloso manico dell’economia globale.

Il libro di Picotti è generoso di esempi: le presidenze di Trump e Biden hanno operato in una – non così sorprendente – continuità di intenti non solo limitando – attraverso appositi apparati giuridici – gli acquisti di tecnologia (National Defense Authorization Act, Section 899 utilizzato dal tycoon newyorkese) da parte dei concorrenti cinesi ma cercando di tagliarli fuori dal mercato con legislazioni tanto aggressive da spingere Greg Allen a parlare di uno «[…]strangolamento per uccidere[…]» da parte di Biden nei confronti di Pechino (Implementation of Additional Export Controls). Nel bacino dell’Unione Europea, Francia e Regno Unito si preoccuparono fin da subito di lasciare un piede nelle imprese considerate strategiche, in risposta all’inevitabile stagione di privatizzazioni. Fu proprio il Paese di Sua Maestà che inventò e cominciò ad usare la golden share del valore nominale di una sterlina ed in mano allo Stato, che valesse come promemoria legale affinché le decisioni sul futuro delle imprese strategiche spettassero comunque alla nazione. Le strutture giuridiche europee, nella figura della Corte di Giustizia, si sono sempre prodigate a lottare contro uno strumento evidentemente arbitrario, assolutamente scivoloso nel suo modo di contrastare ontologicamente le basi stesse dell’Unione Europea. 

Come abbiamo visto nel caso americano, l’uso strategico del diritto non solo consente di erigere linee di difesa per gli interessi nazionali, ma dà accesso anche ad una serie di possibilità offensive, per danneggiare direttamente i propri nemici. Picotti puntualizza che in tal senso le sanzioni sono l’esempio più lampante: “in nome dell’interesse nazionale e anche a costo di riflessi antieconomici: ma, si sa, la sicurezza (ossia, l’indebolimento di chi potrebbe comprometterla) è più importante della ricchezza[…]”. Come si nota, in conclusione, l’illusione del diritto come uno strumento neutro è indifendibile, alla luce del fatto che, ovviamente, coloro che si fanno garanti di tale diritto hanno automaticamente la forza di eccederlo. Il diritto internazionale appare allora come un’altra freccia nell’arco delle nazioni più potenti per riuscire a mantenere il proprio potere incontrastato nell’arena globale e, in tal senso, il libro si configura come una disamina di una delle contemporanee forme di questo stesso potere. D’altro canto, per citare l’aforisma di Carl Schmitt, che si trova in apertura, chi parla di diritto nasconde, chi parla (anche se non apertamente) di potere sta svelando. 

«La complessità del reale si frappone spesso alla possibilità di dare chiavi di lettura precise, univoche. […] Allo stesso tempo, se si dovesse rispettare pedissequamente la complessità del reale, fino all’ultimo granello, forse si arriverebbe al punto che nessuno scriverebbe più nulla».

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